In apertura: progetto per la nuova Biblioteca di Lorenteggio, Milano (2018). © Pica Ciamarra Associati
La storia di ogni civiltà resta impressa nelle sue pietre. Città e ambienti di vita riflettono infatti cultura, organizzazione, economia, ogni aspetto delle varie fasi della specifica avventura di ogni comunità. Lo sarà anche in futuro? Futuro però è un termine (sic!) da declinare al plurale: vi sono sia diversi orizzonti temporali del futuro, sia futuri compresenti perfino all’interno dello stesso periodo di una specifica comunità. Le città si trasformano di continuo perché i loro assetti fisici non sono che il riflesso di altri processi evolutivi, più direttamente legati all’avventura umana. Peraltro oggi il futuro è sempre più imprevedibile, sembra avvicinarsi con accelerazioni impressionanti. In ogni campo prevedere è complesso: maggiore è la distanza temporale, tanto più si rivela inappropriato. Eppure, agiamo tutti in vista di un futuro, auspicato, desiderato, ma che intreccia e scontra i desideri di altri.
Oggi l’evoluzione tecnologica sempre più coinvolge e unifica a scala mondiale: ma nei vari contesti le identità – culturali, demografiche, sociali, economiche ecc. – generano divergenti ambizioni per le città e per gli ambienti di vita. D’altra parte, mentre innovazioni, tecnologie e rivoluzione informatica accelerano vistosamente (seguono curve asintotiche, quindi comportano esiti a tempi lunghi imprevedibili), sembrano atrofizzarsi le capacità umane di utilizzarle in tutte le loro potenzialità, soprattutto di controllarle.
Orizzonte 2050
Per le nostre città il futuro (orizzonte 2050) ispira azioni concrete. Anche “Baukultur” – assunto dalla Dichiarazione di Davos 2018 come mantra dei futuri ambienti di vita europei – non sarà declinato nei vari Paesi in modi omogenei. “Baukultur” è nella scia delle dichiarazioni d’intenti con le quali l’Europa vuole incidere sulla fisicità delle città e degli ambienti di vita. Fra quelle che l’hanno preceduta, particolarmente significative la Carta di Lipsia sulle città sostenibili del 2007 e la Convenzione europea del paesaggio adottata a Firenze nel 2000: documenti che esprimono una profonda cultura, lenti però nel tradursi in atti o nel diffondere azioni concrete. Purtroppo è invece decisamente più rapido quanto viene espresso con ottiche di settore. Da tempo le regole del costruire continuano infatti a moltiplicarsi con la perversa intenzione di precisare tutto, ma hanno dato origine a un increscioso paradosso: al loro evolversi fa riscontro una minore qualità delle relazioni fra le parti, cioè i singoli programmi e i singoli interventi hanno minore capacità di formare “città”.
Se continua il lungo periodo di pace, nel 2050 i cittadini europei – benché rispetto a oggi ancora aumentino – si ridurranno al cinque per cento della popolazione mondiale; l’Italia avrà ancora sessanta milioni di abitanti (la decrescita, del 25% circa, sarà compensata dalle politiche di accoglienza): nell’insieme meno del sei per mille degli abitanti del pianeta, sempre più irrilevanti. Proseguirà la modesta crescita economica; il nostro welfare migliorerà e continuerà a essere un modello ambito anche altrove; gli indicatori del BES continueranno a svilupparsi senza scosse o impennate: non è improbabile. Come non è improbabile che la questione energetica compia balzi in avanti, che la cultura ambientale pervada e diventi reale acquisizione comune; che si concluda l’“era dell’ignoranza ingiustificata”; che le smart cities si diffondano; che gli abitanti siano sempre meno stanziali, cioè sempre più nomadi, in ogni senso.
La città futura nella retrofuturologia
Un tempo e in alcuni luoghi il futuro sostanzialmente coincideva con il presente, era abbastanza prevedibile, forse non era neanche di grande interesse: sembrava ricalcare il passato. Le mutazioni non riguardavano tanto il contesto quanto gli abitanti, soggetti a ineluttabili processi biologici. Poi, man mano c’è stata una inversione: contesti che cambiano con velocità a fronte della relatività staticità degli individui. Nell’era moderna la fiducia nel futuro ha avuto una forte spinta nel Settecento, un apice nell’avventura dei futuristi, per poi essere acutamente messa in dubbio dal Club di Roma. Eppure, continuiamo ad avere fiducia nel futuro. Vorremmo piegarlo, immaginarlo, sognarlo. Per questo, a un certo punto si è tentato di prevederlo raccogliendo e poi interpretando dati e trend evolutivi.
La fine del secolo XX (1906) è una scorrevole storia del secolo scorso raccontata da un narratore del 1998. Questo libro risulta però scritto cento anni prima da Giustino Lorenzo Ferri e pubblicato dalla casa editrice Vallardi. Certo le ventidue tavole fuori testo fanno sorridere perché il loro stile è coerente con la data dell’edizione, ma il racconto affascina: accenna alla fine dell’era della benzina, parla di bioteli – straordinari mezzi di comunicazione – e di una Roma percorsa da automobili eliotrochi, dove ci si sposta continuamente anche utilizzando aeromobili, con gli spazi del “Mirastilio” che sembrano iperluoghi, ma non gli hyperlieux mobiles al centro di un convegno organizzato nel 2019 a Parigi dall’Institut pour la Ville en Mouvement. Gli “iperluoghi mobili”, anche se per definizione collettivi e non privati, fanno tornare alla mente le ricerche di Edward Grinberg alla base poi di Domobile, la voiture intégrée à la ville (Grinberg, 1988), la mostra organizzata venticinque anni fa al Beaubourg.
Al momento in cui è stato scritto questo racconto dal futuro non solo non era ancora nato il Movimento Futurista, ma non si aveva coscienza dell’Antropocene, dell’evoluzione homo sapiens/homo technologicus, né del drammatico incedere delle questioni ambientali; non era stato ancora nemmeno coniato il termine “Quarto Ambiente” ed erano sogni le prospettive che oggi si delineano, allora solo fantascienza. A differenza di tanti studi di futurologia che dopo solo qualche decennio già suscitano ilarità, questo racconto dal futuro dopo oltre cent’anni parla anche elementi attendibili.
Qualcosa resta anche della visione di futuro espressa nella mostra Città futura organizzata nel 1988 nell’ambito della manifestazione “Futuro Remoto”, ricca di testimonianze, immagini, video, scritti (Pica Ciamarra, 1988). Il tutto era animato da una tesi semplice, quasi banale: la città del futuro non replicherà la città storica, non sarà sottomarina, spaziale o underground: sarà la “città delle compresenze”, materializzerà intrecci fra diversità. In quella mostra città spaziale, città storica, città a spessore, sottomarina, sotterranea, ognuna di per sé convincente, facevano prevedere “compresenze”, diversità, coesistenza di contrari. Non poche le mutazioni allora sottovalutate o impreviste. Il messaggio di fondo era l’opposto di tutti quelli lanciati delle sue componenti. Nessuna di queste avrebbe prevalso, nessuna sarebbe stata la città del futuro, ma tutte insieme, intrecciate. Quindi la “città delle compresenze”, simultanea presenza di diversità e coesistenza di contrari. Una visione di futuro che sostanzialmente permane, pur se da rivedere. Sono passati più di trent’anni: allora non c’era stata ancora la caduta del muro di Berlino; allora non avevamo telefoni portatili, non comunicavano tramite e-mail o WhatsApp, non c’era ancora Internet né la possibilità di essere informati in tempo reale o di esplorare l’intero pianeta attraverso un grande o piccolo schermo portatile che ormai la maggioranza del genere umano porta sempre con sé.
Si è anche detto che la rivoluzione tecnologica farà sì che in futuro le città scompaiano. Non lo credo. Certo per molti è cambiato e cambierà ancora il modo di lavorare e anche il tempo del lavorare, e ancora l’essenza del lavorare. Automatismi, robotica, telelavoro, telecomunicazioni, telemedicina, teletrasporto, stampanti 3D. Cambierà il modo di vivere le reti di città. Città è aggregazione, luogo che facilita incontri, scambi, partecipazione, creazione. Ogni città è identificata da un particolare intreccio tra fisicità, socialità e comportamenti. Oggi però si continua a denominare città anche quanto non lo è, quanto è solo desolante territorio dell’urbano. Per questo in futuro il desiderio di città aumenterà. Il desiderio di luoghi densi, non ingombrati ma esaltati dal costruito; privi di muri, barriere, ostacoli fisici e psicologici; ricchi di occasioni e di imprevisti. Specializzare aree e spazi, distinguere costruito e non-costruito, prevalenza e permanenza delle distinzioni: sono sempre più categorie del passato. Cresce l’ambizione al cambiamento, ancora però frenata da una diffusa rigidezza mentale.
Civilizzare l’urbano
Per gli storici del futuro, gli antichi siamo noi. Potevamo essere quelli che generarono la svolta: abbandono delle ottiche settoriali, diffusione della visione sistemica, mutazioni di mentalità. Quelli che fecero cambiare rotta a città e ambienti di vita. Potrebbe ancora essere, ma dovremmo essere capaci in non più di dieci anni di scuotere e rivedere normative e procedure, di eliminare quanto ora impropriamente ostacola. Resterebbero solo venti anni per far sì che al 2050 la nostra “terra di città” possa riuscire a “civilizzare l’urbano”: non più “non-luoghi”, ma reti di “luoghi di condensazione sociale” che avverino “la città dei 5 minuti”.
Questa “terra di città” è anche particolare per l’estensione delle sue coste. Al 2100 l’ENEA considera a rischio poco meno di 6.000 Kmq lungo quasi 400 km delle nostre coste: l’innalzamento del livello del mare sarà di poco superiore al metro, il doppio per effetto dello storm surge (coesistenza di bassa pressione, onde, vento). Al 2050 i dati saranno diversi, certo però già sensibili, tali da suggerire sin d’ora azioni e politiche territoriali opportune: porre fine all’era dell’ignoranza ingiustificata. Comunque è evidente che come saranno fra trent’anni città e ambienti di vita deriva da quanto si immagina e si è capaci di concretizzare adesso. Una sostanziale mutazione si può ancora fare, vi sono idonee energie attive in questa direzione. Se però manca un convinto riscontro politico, altre questioni prevalgono, le questioni a breve termine offuscano. In questo caso il futuro a trent’anni qui non sarà che il riflesso di un futuro costruito altrove.
Anche se il torpore prevarrà ancora, questo stato di incoscienza non può durare a lungo. La fiducia nel futuro non pervade dovunque. Nel 2015, intervenendo al convegno Urbanity a Mantova, Zygmunt Bauman ha osservato che tuttora «vacilla negli individui la fiducia in sé stessi, negli altri e nelle istituzioni e ciò ci frustra e ci rende impotenti nel pianificare progetti di vita a medio-lungo periodo». Il cambio di rotta non si avrà fra trent’anni, ma a tempi più lunghi: è indispensabile e quindi indubbio. Allora quanto si auspica, o si prevede entro il 2050, sarà attuato entro la fine di questo secolo o all’inizio del XXII. Inimmaginabili i progressi tecnologici.
Da sessant’anni accelera la corsa al Quarto Ambiente e ormai delinea sorprese; a breve i robot diventeranno obsoleti, s’intravedono prime macchine che capiscono, embrioni di autocoscienza. Il futuro con orizzonti diversi interpreta tenui segnali: più che mai, rischia di sconfinare nella fantascienza. È incerto. Per gli storici del futuro, gli antichi siamo noi. Potremmo essere quelli che generarono la svolta: abbandono delle ottiche settoriali, diffusione della visione sistemica, mutazioni di mentalità. Per questo città e ambienti di vita cambieranno rotta durante il XXI secolo.
Bibliografia
- Ferri G.L., La fine del secolo XX, Vallardi, Firenze, 1906.
- Grinberg E., Le projet Voiture-Ville, «le Carré Bleu», vol. 40 n. 3, 1988.
- Pica Ciamarra M. (a cura di), Città futura, CUEN, Napoli, 1988.