Il termine ‘startup’ è utilizzato sia per indicare la fase di sviluppo iniziale di un’attività imprenditoriale, sia uno specifico modello economico e organizzativo nato in Silicon Valley (Salamzadeh, 2015; Marwick, 2013). Quando si fa riferimento alla seconda accezione, immediatamente tornano alla mente immagini di giovani e appassionati imprenditori digitali che sviluppano prodotti altamente innovativi il cui obiettivo è migliorare la vita delle persone. Le narrative mainstream veicolano l’estatica di questi soggetti come smart, cool e self-confident. Il team è l’essenza stessa della startup. Eric Ries (2010) la definisce come «un’istituzione umana progettata per creare un nuovo prodotto o servizio in condizioni di estrema incertezza. […] Una startup è maggiore della somma delle sue parti; è un’impresa profondamente umana»[i].
La startup opera in un contesto dove molte delle variabili che determinano il successo dell’attività imprenditoriale sono sconosciute, per questo motivo sono necessarie ingenti risorse economiche che spesso i giovani imprenditori non possiedono. Gli angel investor, gli incubatori e i venture capitalist intervengono in specifiche fasi del ciclo di vita di una startup per sostenere lo sviluppo dell’attività imprenditoriale (Blank e Dorf, 2012). In cambio del capitale investito acquisiscono una percentuale variabile delle quote della startup che saranno poi rivendute tramite un’IPO o un’acquisizione sul mercato privato. Il financial gain degli investitori deriva dal differenziale del valore finanziario tra il momento di acquisto delle quote e quando queste sono nuovamente cedute. Gli investitori, quindi, non sono interessati ai profitti generati dalle vendite, ma alla valorizzazione delle quote da loro possedute. Come afferma Tim O’Reilly (2019), le strategie di blitzscaling sono orientate a costruire aziende che generano surplus finanziario. La startup si configura come un artefatto finanziario orientato ad una mera speculazione (Luise, 2019). L’economia startup è infatti descritta come una betting economy. Gli attori finanziari investono in un portfolio di startup scommettendo che una di queste li ripagherà dei potenziali investimenti fallimentari nelle altre società.
La logica di tale agire economico va rintracciata nella sovrapposizione tra i processi di finanziarizzazione dell’innovazione e l’apparato culturale dell’ideologia californiana (Barbrook e Cameron, 1996). Le retoriche entrepreneurs are everywhere, fail fast, fail often, change the world e the competition is for looser emergono come forme sincretiche tra principi organizzativi ed elementi costituti dell’identità dello startupper di successo. Le narrative secondo cui un’idea brillante combinata a un’efficace execution innesca processi di disruption omettono il ruolo centrale dei capitali finanziari nello sviluppo dell’impresa. Buona parte del lavoro dello startupper, soprattutto nella fase di early-stage, si riduce nel partecipare alle business competition. Creare una storia accattivante sul proprio business per formare potenziali startupper di successo esibendo le proprie doti comunicative, determina l’accesso al capitale finanziario in quella che si configura come una pitch economy (Chapple, Pollock e D’Adderio, 2021).
Tuttavia, le metriche di crescita presentate nei pitch sono solo delle stime potenziali. Per avere dei benchmark di riferimento affidabili, i venture tendono a finanziare rielaborazioni di prodotti e servizi già esistenti. Questa prassi produce una normalizzazione dell’innovazione perché a essere premiate non sono le idee di business radicalmente divergenti. Lo stesso effetto distorsivo si produce quando a essere sovvenzionate sono le startup che cavalcano gli hype tecnologici. Le narrazioni sui potenziali sviluppi di nuove tecnologie attirano l’attenzione degli investitori e incrementano il valore della startup (Elder-Vass, 2021; Geiger e Gross, 2017). Queste pratiche hanno un effetto profondo sull’innovatività che viene sussunta nella dimensione finanziaria slegandosi dal suo valore d’uso.
L’economia startup produce un’innovazione improduttiva tipica delle economie di rendita o criminali (Baumol, 1990). La bassa redditività di chi opera attraverso le piattaforme, l’espropriazione macchinica dei dati personali tramite social media, il consumo di risorse ambientali e le strategie di elusione fiscale sostenute da un’intensa attività di lobbying sono esempi dell’orientamento al taking e non al making dell’economia startup (Moore, 2017). L’appropriazione di risorse tangibili e intangibili dalla sfera del reale sostiene processi di valorizzazione finanziaria che si svincolano dalla reale utilità delle innovazioni prodotte. Si configura un’economia in cui le aziende faticano a raggiungere la sostenibilità economica ma registrano capitalizzazioni record anno dopo anno.
L’irrational exuberance delle valutazioni finanziarie
Nel primo trimestre del 2021, le attività di dealmaking, exit e le raccolte fondi sono continuate su livelli record superando i risultati del primo trimestre del 2020 che si era già rivelato un anno record. Secondo i dati raccolti da PitchBook (2021a), l’investimento in startup americane nel 2020 è stato di 166 miliardi di dollari, cinque volte superiore a quello del 2010. L’ultimo decennio, infatti, si è caratterizzato per una crescente disponibilità di nuovo capitale. Questo processo ha inizio con la crisi del 2008, quando i tassi di interesse vicini allo zero hanno spinto gli investitori finanziari verso attività più rischiose, come il venture capital, al fine di garantirsi rendimenti superiori alla media. Al crescere della disponibilità di risorse finanziarie ha corrisposto una diversificazione della tipologia di investitori. I primi tre mesi del 2021 hanno registrato il record di partecipazione dei non-traditional VCs o tourist investors in attività di investimento.
La disponibilità di capitali e la presenza nell’ecosistema startup di nuovi attori finanziari hanno sostenuto la propensione a chiudere fondi di investimento sempre più grandi. I mega-fund pari o superiori a 1 miliardo di dollari chiusi nella prima quota trimestrale del 2021 sono stati 13 e rappresentano quasi il 50% di tutto il capitale raccolto nell’ecosistema del venture capital americano (Pitchbook-NVCA, 2021). Anche il ciclo di raccolta dei fondi si è ridotto passando da circa 3-4 anni a 18-12 mesi (Temkin, 2021). La dimensione crescente dei fondi genera accordi di investimento sempre più grandi. I mega-deal sono cresciuti in frequenza e volume rispetto all’anno precedente. Nel 2020 gli accordi superiori a 100 milioni di dollari hanno raccolto la quota complessiva di 76,6 miliardi di dollari. Un trend in crescita, poiché nel solo primo trimestre del 2021 ci sono stati 167 mega-deal per un totale di 41,7 miliardi di dollari investiti (Pitchbook-NVCA, 2021). Inoltre, si è notevolmente ridotto il tempo tra i diversi round di investimento.
Secondo il Financial Times (2021) le operazioni di grandi dimensioni chiuse nella fase avanzata di vita di una startup sono il preludio a una potenziale strategia di exit. I dati sembrano confermare questa ipotesi. Tra il 2015 e il 2020 il numero delle IPO per le venture capital-backed companies variava da 9 a 21 per ogni singolo trimestre, mentre nel primo trimestre del 2021 sono già 50 (Pitchbook-NVCA, 2021). Osservando il mercato delle IPO in modo più ampio, nel primo trimestre 2021 sono state quotate sul mercato pubblico americano 398 società rispetto alle 37 dell’anno precedente, tre quarti di queste erano Spac (Financial Times, 2021). Questo è l’acronimo che indica le special purpose acquisition company, veicoli finanziari che raccolgono capitali dagli investitori attraverso una quotazione con l’obiettivo di fondersi con una società target per velocizzarne il processo di IPO, come nel caso di una startup. Goldman Sachs (2021) ha calcolato che le IPO generate dalle Spac rappresentano il 50% di tutte le quotazioni pubbliche del mercato americano nel 2020. Dall’inizio di quest’anno il capitale raccolto dalle Spac attraverso le IPO è stato di 97 miliardi di dollari, una quota superiore a tutto il 2020 che ha raggiunto gli 83 miliardi di dollari PitchBook (2021b).
Ma è la stessa banca di investimenti che mette in guardia dalla possibile bolla finanziaria derivante dalla recente listing-mania del settore tecnologico. Le aziende che si sono quotate nel 2020 lo hanno fatto ad un prezzo doppio rispetto ai due anni precedenti. Il rischio è che aziende sottoperformanti o in perdita si quotino in borsa per sfruttare il trend delle crescenti valutazioni dovuto alla grande disponibilità di capitali generando una più complessiva sopravvalutazione del mercato startup.
Secondo il professore Jay Ritter (2021) dell’Università della Florida, l’83% delle società quotatesi nel mercato pubblico americano nel 2018 erano in perdita. Questa percentuale è superiore a quella registrata prima dello scoppio della bolla delle dot-com (81%) nel 2000. La controversa IPO di WeWork del 2019 ne rappresenta un caso simbolico. La startup fondata da Adam Neuman, Rebeka Neuman e Miguel McKevley che fornisce spazi di lavoro condivisi, nei suoi nove anni di vita è cresciuta rapidamente comprendendo 528 sedi in 111 città e 29 paesi. Tuttavia, la società aveva registrato un rosso di 700 milioni di dollari nei primi sei mesi di quell’anno e di circa 1,9 miliardi di dollari nel 2018. I dubbi degli operatori finanziari coinvolti nello sbarco in borsa hanno fatto precipitare il valore della IPO da 47 miliari a meno di 15.
La difficoltà nel raggiungere la sostenibilità economica è un tema che coinvolge numerose piattaforme. Dopo una deludente IPO, i manager di Uber hanno dichiarato che la piattaforma potrebbe non raggiungere mai la redditività (Franklin, 2019). Nel 2020 Deliveroo ha registrato una perdita di 309 milioni di dollari. Al momento della sua quotazione, le azioni della piattaforma sono crollate del 30% a causa dei dubbi degli investitori sulla reale possibilità di generare profitti e per le controversie sul rispetto dei diritti dei rider (Shead, 2021). Proprio la volontà del segretario del lavoro Marty Walsh di ridefinire le categorie lavorative con cui identificare i rider ha prodotto una perdita finanziaria combinata di oltre 20 miliardi di dollari per Uber e Lyft (Lee, 2021). Anche l’ecosistema startup italiano vive delle stesse contraddizioni. L’analisi della redditività media delle startup iscritte al registro imprese istituito nel 2012 si attesta sull’1,7%. Un valore inferiore al ROI medio delle imprese di capitale attive nel settore delle pulizie (8,6%) e della ristorazione (16%) (Arvidsson e Luise, 2019).
La crescita esponenziale degli investimenti nel settore startup è in controtendenza con le performance economiche delle piattaforme. L’assenza di sostenibilità è sostenuta solo dalla promessa di guadagni futuri: è la produzione discorsiva sul possibile successo che giustifica il valore finanziario della startup e non i guadagni generati nel mercato consumer.
Il futuro come regime di valore
La metrica del burn rate serve a misurare quanto capitale la startup sta bruciando per plasmare un potenziale scenario economico e sociale all’interno del quale si garantisce una posizione di monopolio. Soltanto in questo regime economico l’azienda è in grado di generare profitti. Peter Thiel (2014) sintetizza questo approccio con la frase competition is foor looser (“la competizione è per i perdenti”). La startup non deve competere con altre società nel mercato, perché ciò comporterebbe un’inutile dispendio di risorse. Il co-founder di PayPal suggerisce invece di lavorare alla creazione di monopoli in cui l’azienda sostituisce il mercato. I capitali sostengono la promessa di una futura redditività che, tuttavia, non si realizza. Ciò ha spinto il venture capital Chamath Palihapitiya, tra i primi dipendenti di Facebook, a definire il modello startup come un enorme schema Ponzi[ii]: «Siamo, non fate errori… nel mezzo di un enorme tipo di schema Ponzi multivariato […] Vi è stato detto di crescere, quindi state crescendo […] Non farò più parte di questa farsa, penso che sia pericolosa. A un certo punto l’idea di crescere, crescere, crescere a tutti i costi condurrà all’esaurimento delle risorse» (Rodriguez, 2018, traduzione dell’autore).
A sostenere questo modello sono le narrative sui potenziali scenari economici prodotti dai guru della Silicon Valley. Storie, teorie e discorsi che orientano l’azione economica degli attori coinvolti nell’ecosistema attraverso le fictional expectation che, creando nessi causali, colmano il divario tra il presente e il possibile futuro successo (Beckert, 2013). Questi immaginari hanno una grande forza performativa e allo stesso tempo modellano la realtà. Laddove un immaginario è operazionalizzato e istituzionalizzato con successo, questo trasforma gli elementi narrativi in relazioni economiche (Jessop e Oosterlynck, 2008). Meccanismi che Elon Musk governa in modo efficace. Nell’aprile 2019 il fondatore di Tesla ha affermato che entro il 2020 un milione di robotaxi completamente autonomi avrebbero iniziato a circolare per le strade degli Stati Uniti. Questa visione futura ha indotto gli investitori a comprare circa tre miliardi di dollari di azioni Tesla in un momento in cui l’azienda era in forte crisi. Tuttavia, alla fine del 2020 non era stato costruito nemmeno un robotaxi (Mitchell, 2021). Attraverso tali narrative, Musk è riuscito a convincere i nuovi finanziatori che entro un anno il mondo dei trasporti sarebbe completamente cambiato, ha prefigurato un mondo possibile nel quale il suo servizio di robotaxi avrebbe dominato il mercato garantendosi una posizione da monopolista. Come in uno schema Ponzi, ha promesso alti ritorni agli investitori che non si sono mai realizzati. Questo però ha permesso al fondatore di Tesla di capitalizzare un’ingente somma che ha garantito la sopravvivenza della sua azienda.
Le imagined economy (Beckert, 2016) operano come collective calculative device (Callon, 1998) attraverso i quali è possibile riconoscere il valore d’uso delle tecnologie sviluppate dalle startup. Ciò consente a specifiche forme organizzative ed economiche di agire in un contesto altamente incerto come quello dell’economia startup. Se in un potenziale futuro vivremo tutti in smart city in cui ogni spostamento sarà garantito da veicoli autonomi, investire in una società che sviluppa robotaxi sembra una scelta sensata e potenzialmente remunerativa. Tale visione, sostenuta dalla produzione discorsiva sulla sua credibilità e realness, ha un effetto positivo sulle quotazioni delle società (Geiger e Gross, 2017; Elder-Vass, 2021). I potenziali futuri operano quindi come regimi di giustificazione (Boltanski e Thévenot, 2006) del valore finanziario della startup e dell’azione economica.
Ancora prima che nei mercati finanziari e consumer, la creazione del monopolio avviene attraverso la colonizzazione dell’immaginario futuro. Ma poiché i futuri sono molteplici e confliggenti, la capacità di controllare e orientare queste narrative diventa un asset principale nell’ecologia comunicativa. Questo è il ruolo svolto dai frame makers (Beunza e Garud, 2007) così come mostra lo studio della produzione discorsiva dell’ecosistema startup italiano su Twitter[iii]. Analizzando la struttura del network (fig. 1), si nota che i diversi cluster sono prevalentemente composti da account riconducibili a imprenditori di successo, affermati incubatori internazionali, riconosciuti investitori e attori istituzionali che in una logica di cooperazione-competizione contribuiscono alla costruzione delle narrative sui future present (Luhmann, 1976).
Figura 1 – Studio della produzione discorsiva dell’ecosistema startup italiano su Twitter
Dall’analisi degli account che compongono i cluster emerge l’assenza delle startup. Questo dato può essere spiegato da due fattori. Il primo riguarda la mole di lavoro a cui gli startupper sono sottoposti. Un giovane imprenditore lavora mediamente 10-12 ore al giorno e nei momenti più cruciali anche 18, fatto che implica l’impossibilità di prendere parte in modo costante al discorso sull’economia startup. La comunicazione delle startup è, infatti, dedicata prevalentemente alle attività di marketing. Il secondo elemento riguarda il potere comunicativo di questi attori. Società di venture, incubatori, imprenditori di successo ricoprono una posizione dominante nell’ecologia comunicativa e ciò consente di veicolare in modo più efficace il loro messaggio. Ne emerge che, da un lato, le startup sono l’oggetto della discussione ma non contribuiscono alla narrazione di sé, mentre dall’altro lato gli attori più rilevanti provano a capitalizzare la costruzione del regime di valore dell’economia startup attraverso specifiche narrative sul futuro. Questo frame discorsivo consente di giustificare le valutazioni record raggiunte dalle big-tech. Quindi, non appare irrazionale ricevere elevati round di finanziamento anche se si è in perdita perché la sostenibilità economica va raggiunta in un potenziale futuro che deve essere creato innanzitutto narrativamente e poi istituzionalizzato. Inoltre, non destano sorpresa le frasi del founder di SoftBank Masayoshi Son che afferma ‘Io deve sentire la forza’ quando è il momento di decidere se investire miliardi di dollari in startup, o le parole di Adam Neuman il quale affermava che il valore finanziario della sua compagnia è basato sull’energia spirituale del ‘We’.
Tuttavia, esiste un momento di rottura in cui la credibilità di questi futuri sono messi alla prova ed è l’IPO. Una società che decide di quotarsi in borsa deve presentare agli organi preposti i registri contabili. Quando gli operatori del mondo finanziario scoprono che le società tecnologiche valutate miliardi di dollari non generano profitti, le valutazioni crollano. Questo è il momento in cui due diversi regimi di valore confliggono. Per gli attori economici che operano all’interno del regime di giustificazione dell’economia startup, le valutazioni finanziarie appaiono plausibili perché radicate in un futuro che è percepito e agito come reale nel presente. Tuttavia, quando gli stessi soggetti operano al di fuori di questo regime emergono i caratteri irrazionali di tali logiche. Quindi, i fallimentari IPO delle big-tech non possono essere spiegati prendendo in considerazione soltanto le metriche oggettive come asset, piano di sviluppo e performance economiche. Ma questi casi vanno riletti alla luce della più ampia crisi dell’immaginario della Silicon Valley e delle sue pratiche di misurazione del valore (Luise, 2019).
La pandemia di Covid-19 e l’utopia startup: l’incontro tra due paradigmi economici e sociali
Le misure di lock-down adottate dai governi nazionali per contrastare la diffusione del virus di Covid-19 hanno imposto una chiusura generalizzata delle attività economiche e la loro riconfigurazione attraverso piattaforme come Upwork, Slack, Microsoft Team e Zoom. Anche le forme della socialità sono state ridefinite dai meeting online, i social media e le video datingapp. La pandemia ha offerto la visione di un nuovo paradigma abilitato dai servizi offerti dalle tech corp. L’esponenziale crescita dell’utilizzo delle piattaforme digitali non ha, però, influito significativamente sulle performance economiche di queste società. Nel 2020, nonostante il fatturato di UberEats e DoorDash sia più che raddoppiato (nel caso di DoorDash è quadruplicato), le due società hanno registrato perdite per centinaia milioni di dollari (Rana e Haddon, 2021). Stessa sorte per Deliveroo, che ha chiuso il bilancio con una perdita di 309 milioni di dollari. Anche Amazon ha visto ridursi i propri margini di profitto durante la pandemia. La società ha registrato per il suo servizio di e-commerce nel primo trimestre del 2020 vendite per 75 miliardi di dollari. Tuttavia, i costi di gestione e implementazioni delle norme di sicurezza anti Covid-19 per i propri dipendenti sono passati da 53 miliardi a 71 miliardi. Come conseguenza si è verificata una diminuzione dell’utile netto del 30% rispetto l’anno precedente (Lee, 2020). Nonostante questi dati, l’attività di quotazione delle aziende tecnologiche sul mercato pubblico, dopo una prima fase di incertezza dovuta allo scoppio della pandemia, è salita di oltre 510 milioni di dollari. Un aumento del 39% rispetto al 2019 (PitchBook, 2021).
Le valutazioni finanziarie, malgrado l’assenza di sostenibilità economica delle piattaforme, sono state sostenute dalla genesi di un nuovo modello di società pandemica che va inquadrato non solo come processo di adattamento al virus ma come pratica di future-making (Appadurai, 2013). Il futuro non emerge come il prodotto di momenti di eccezione e di emergenza ma è un elemento abituale di pensiero e pratica. Questa esperienza ha consentito di riformulare l’incertezza derivante da un evento “cigno nero” in rischi calcolabili al fine di organizzare l’azione economica e sociale in modo coerente verso uno specifico futuro post-pandemico.
La shut-in society è un modello socio-economico già presente in Silicon Valley. Da un lato ci sono designer, digital marketer e programmatori che sostituiscono la disordinata realtà dell’interazione umana attraverso lo smart-working e le piattaforme di food delivering e cleaning service. Dall’altro lato, fuori dalle mura dei loft e condo dei lavoratori della conoscenza, una moltitudine di lavoratori low-skilled che lavorano come indipendent contractor attraverso le piattaforme digitali. Questo modello produce una nuova forma di vita compatibile con quella emersa durante la pandemia. Le misure di contenimento del Covid-19 sembrano aver prodotto una sovrapposizione tra paradigmi economici e sociali promossi dalla visione tecno-utopica della Silicon Valley e il modello pandemico di shut-in society. Gli investimenti nelle tecnologie di foodtech, le attività speculative con crypto-token, il controllo algoritmico della sfera pubblica digitale, la creazione di trustless environment basati su tecnologie blockchain e l’utilizzo di software di data-driven policy per la gestione delle smart city hanno rafforzato la credibilità di questo futuro in cui la complessità della vita sociale è ridotta a una moltitudine di esistenze digitalizzate prevedibili e personalizzate. Dopo aver sofferto la mancanza di un modello sociale credibile, l’economia startup, grazie alla diffusione del virus, ne ha acquisito uno che sembra in grado di accompagnare la sua espansione futura.
Una crescita finanziaria che, però, è stata rallentata dall’arrivo del vaccino. Alla notizia dell’annuncio di Pfizer-Biontech, Amazon ha perso il 5,7%, Zoom il 15%, mentre società come Boeing, American Airlines e Airbus hanno recuperato tra il 10% e il 30% del proprio valore di mercato (Ròciola, 2020). La possibilità di immunizzare la popolazione mondiale ha rappresentato uno cambio repentino e radicale di immaginario. L’annuncio del vaccino offriva la possibilità di un rapido ritorno a una società pre-pandemica in cui era possibile, ad esempio, riprendere i viaggi di lavoro (da qui l’incremento del valore delle compagnie aeree) e non più partecipare a meeting online (da qui la perdita del valore di Zoom).
Tuttavia, la pandemia ha aperto uno spazio di riflessione sulla necessità di gestire la complessità e le esternalità negative che sempre di più condizioneranno l’umanità nell’Antropocene. Gli immaginari utilizzati per dare un senso alle anomalie e alle incertezze operano all’interno di strutture di significato e frame già esistenti. Queste cornici determinano le possibilità di agire. In che modo i limiti della nostra capacità di immaginare non consente di rompere tale cornice per pensare e agire diversamente? Fino a che punto la visione di un potenziale nuovo modello può continuare a giustificare l’insostenibilità economica, sociale ed ambientale delle piattaforme digitali? Quali saranno gli effetti della riduzione delle misure di lock-down sulla finanziarizzazione dell’economia startup?
La necessità di una post-startup innovation
L’obiettivo dell’immunizzazione di massa è la ricostituzione delle forme sociali ed economiche pre-pandemia. Non sarà un semplice salto nel passato, ma si sperimenterà la convergenza tra tecnologie e modelli organizzativi emersi durante il lock-down con quelli preesistenti. A questo approccio di sperimentazione pratico e immaginifico si contrappongono le dinamiche finanziarie dell’economia startup. Al fine di sostenere il modello sociale della shut-in society e di rallentare il ritorno alle pratiche di consumo pre-pandemia che mettono a rischio la già precaria redditività delle piattaforme, gli investitori utilizzano i propri capitali per convincere i consumatori ad abbracciare lo stile di vita costituitosi durante la pandemia. Gli investitori delle app di food delivering stanno scommettono miliardi sul fatto che queste abitudini dureranno e stanno sostenendo questa visione attraverso il modello Venture2Consumer. Gli investimenti alle startup non sono utilizzati per lo sviluppo dell’azienda ma servono invece a trattenere i consumatori sulla piattaforma offrendo sconti e agevolazioni. Con l’obiettivo di mantenere alte le valutazioni finanziarie, gli investitori provano a far sopravvivere il modello di società pandemico.
Tale approccio, tuttavia, impone di ripensare al ruolo dell’economia startup come luogo privilegiato per lo sviluppo delle innovazioni che promettono di generare una sostenibilità economica, sociale ed ambientale. Il rifiuto delle logiche finanziarie di parte dei membri dell’ecosistema startup, la necessaria risposta ai cambiamenti climatici intrinsecamente locale ma ad alta intensità di capitale, le forme organizzative del platform cooperativism e i modelli alternativi di finanziamento offrono nuove soluzioni. Tuttavia, per superare la logica dell’innovazione improduttiva e la creazione di futuri solo come oggetti da consumare utili a incrementare il valore delle società, è necessario ripensare in modo più ampio le regole e le determinanti che governano il comportamento imprenditoriale dell’economia startup.
Per affrontare la complessità che ci attende abbiamo necessità di riconoscere, supportare e capitalizzare tutta l’innovazione prodotta dal basso che spesso gli attori istituzionali non riescono a riconoscere. Ri-focalizzarsi sul valore d’uso delle innovazioni prodotte dalle startup piuttosto che immaginarle solo come artefatti finanziari attingendo alle pratiche che emergono ai confini dell’ecosistema appare come la strada più faticosa da percorrere ma probabilmente l’unica in grado di aiutarci ad affrontare le sfide del prossimo futuro.
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Note
[i] Traduzione a cura dell’autore.
[ii] Questo schema di vendita truffaldina prende il nome dal suo ideatore, Charles Ponzi. Il modello economico su cui è costruito promette forti guadagni ai primi investitori a discapito dei nuovi che sono le vittime della truffa.
[iii] Lo studio si basa su di un dataset composto da 4.918 tweet in lingua italiana contenenti l’hashtag #startup. I tweet sono stati scaricati dal 21 marzo al 7 aprile 2019 utilizzando il software T-CAT, mentre la visual network analysis è stata condotta con il software Gephi.