Immaginari post
Le riflessioni che ho sviluppato negli ultimi anni distribuendole in vari scritti, laddove trovavano ospitalità – anche su Futuri, naturalmente! – partivano dall’idea che il passaggio di secolo fra l’Ottocento e il Novecento, e quello di millennio fra il Secondo e il Terzo mostrassero robuste omologie; che tenendo conto delle forti trasformazioni nell’organizzazione del sistema economico (il fordismo fra XIX secolo, la digitalizzazione fra il II e il III millennio) che li hanno caratterizzati, i due transiti siano stati entrambi momenti di profonda crisi individuale e collettiva, e che le somiglianze e analogie fra i due periodi storici potessero essere esplorate ricorrendo a quelle aree del “sistema mimetico” (Pecchinenda, 2016) con cui cerchiamo di dare senso al nostro essere nel mondo e al mondo stesso costituite dalle forme della narrazione: letteratura, cinema, serialità televisiva.
L’obiettivo che mi ero posto consisteva nel descrivere il percorso in parallelo del mutamento sociale complessivo e dei processi di individualizzazione nel loro intreccio e movimento reciproco cercando una sponda di questi nei romanzi, nei film, nelle serie tv. Fino a sfiorare il dibattito allora nascente su quali sarebbero stati i tratti della figura che si sarebbe avvicendata all’umano nato con l’Umanesimo, l’eventuale postumano, sia come sostituzione all’umano, sia come integrazione dell’umano con le tecnologie digitali – fino all’ingresso nella fase attuale, che, forse con un po’ di presunzione, mi viene da battezzare “condizione digitale”, a indicare una fase di spostamento dalla “condizione umana” definita con e dalla Modernità.
Le mie riflessioni su chi avrebbe sostituito (stia sostituendo) l’umano dell’Umanesimo – l’Uomo vitruviano di Leonardo da Vinci (Fattori, 2018a) – dipingevano un individuo ripiegato su se stesso, rancoroso e diffidente, disilluso, che ha perso i suoi ancoraggi e ne cerca di nuovi, spesso nella sfera dell’invisibile (cfr. Camorrino, 2018), le propaggini attuali delle fantasticherie New Age (cfr. Fattori, 2018b) o in un privato sempre più geloso e blindato, al netto delle scorribande sui social e nelle chat… Oggi, col senno di poi direi che questa ipotesi risulta da aggiornare, tenendo conto, appunto, di quanto l’ingresso definitivo nel digitale, e la sua espressione fenomenica più palese, la vita online, abbia ulteriormente indirizzato il mutamento sociale, e le singole identità.
Un periodo storico, infatti, la cui apparente “leggerezza”, “disinvoltura” – quasi una replica della “gaia apocalisse” viennese di cui scriveva Hermann Broch nel suo saggio su Hugo von Hofmannstahl (1981) – nascondeva un crollo generalizzato delle promesse delle narrazioni liberali e un corrispondente aumento e accentramento delle ricchezze per le élite economico-finanziarie (cfr. Gallino, 2011). Una fase storico-sociale in cui prolifera, sulla scorta del successo del termine “postmoderno”, il “post”: postverità, postpolitica, postdemocrazia, poststoria – e naturalmente postumano (cfr. Lucci, 2016; Fattori, 2020b), a indicare, attraverso l’inadeguatezza del vocabolario, il vuoto di senso già segnalato da autori come Charles Taylor (2009) e John Carroll (2009), oltre che Peter Berger e Thomas Luckmann (2010). E – forse – il sorgere di un erede dell’uomo umanista che esalta al massimo i tratti dell’individualizzazione, ma ne svilisce la dimensione etica ed empatica, seppur limitata già al suo sorgere all’umano-maschio-bianco-occidentale[1].
A questo si è agganciato l’emergere della nuova condizione quotidiana – e identitaria – connessa al progressivo integrarsi con la dimensione online del nostro essere-nel-mondo. Nel primo decennio del Terzo millennio, a farvi da sfondo e da innesco, ad aprirlo sconfessando definitivamente qualsiasi credenza nella forza inarrestabile del progresso, a fare quindi da pietre tombali sui corpi disfatti delle grandi narrazioni della modernità, due eventi: l’attacco alle Twin Towers di New York dell’11 settembre 2001 e la crisi economica globale esplosa a partire dal 2008. Su questo quadro, con la potenza di un gigantesco maglio, si è abbattuta la pandemia di covid-19. Un “fatto sociale totale”, per usare le parole di Marcel Mauss (2002)[2]; o anche una “situazione marginale su scala planetaria” (Camorrino, 2021) nel suo estendersi all’intero globo, nel condizionare la totalità della nostra vita quotidiana, nell’accelerare i mutamenti in corso – e nel renderceli però evidenti, come attraverso una lente di ingrandimento (Fattori, 2020b).
Gli aspetti del mutamento sociale già in atto, ma catalizzati e nello stesso tempo messi in piena luce dalla pandemia, a esser breve e rimandare all’ampia letteratura già disponibile[3], potrei riassumerli nei termini di una ulteriore accelerazione del sistema economico egemone in termini di finanziarizzazione, accentramento, sussunzione alla finanza della produzione di beni e servizi – e smaterializzazione delle relazioni sociali e “industriali” – sulla scia dell’avanzare della digitalizzazione. Una prospettiva molto simile a quella evocata da Jacques Attali in un saggio del 2007: in sostanza, un “medioevo prossimo venturo” distopico e oscuro, esteso all’intero pianeta.
Da Prometeo a Sisifo
Un fatto notevole è che venti anni prima di Attali, Carlo Formenti, introducendo il suo Prometeo e Hermes (1987), scriveva, ragionando sul suo tempo, di
Stagione dell’Armageddon, della guerra fra i contrari: prima di esaurire le loro opposizioni, i valori della modernità inscenano l’ultima zuffa. Barbarie del politico […] Barbarie dell’economico e del sociale […] Barbarie del pensiero […] Epoca della smaterializzazione […] Fine della storia […] Epoca della neutralizzazione del senso […] Fine della cultura del progetto […] Epoca delle utopie realizzate. Il postmoderno è ad un tempo radicalizzazione e compimento del programma moderno: il soggetto porta a termine la sua emancipazione affrancandosi dai Valori che tale emancipazione hanno legittimato. Il soggetto debole indossa come abiti le strutture (responsabilità, ruoli, personalità, caratteri) che ingabbiavano il soggetto forte (1987)[4].
Del testo di Formenti sono notevoli alcuni elementi. Prima di tutto, l’accenno alla “smaterializzazione”: lo studioso anticipa ciò che circa un decennio dopo sosterrà Jean Baudrillard in Il delitto perfetto (1996). I due autori scrivevano dei media tradizionali, certo, ma anche dell’avvio delle dinamiche di integrazione e rimediazione fra le tecnologie analogiche e quelle digitali (cfr. Tirino, Fattori, 2021), già guardando al peso che il digitale stava assumendo (cfr. Perrella, Strino, 1980). Ancora, l’accenno all’apparire sulla scena del sociale di un “soggetto debole”, dotato di una identità cangiante, mutevole – come anni dopo scriverà Zygmunt Bauman, liquida (1995; cfr. anche Pecchinenda, 2008a).
Proseguendo nel suo ragionamento, citando Carl Gustav Jung e i suoi archetipi e riflettendo sull’analogo rapporto che corre da un lato fra segno e parola e dall’altro fra simbolo e immagine, richiamando la “neutralizzazione del senso” che vedeva affermarsi, Formenti proponeva “una metamorfosi: da Prometeo a Hermes”: dal primato dei segni “al mondo dei simboli, dell’autonoma produzione di senso da parte delle immagini”, e citava Gilbert Durand e la sua definizione di immaginario per confortare il suo ragionamento. Un appello, quasi, alla “metamorfosi” che auspicava.
In Prometeo e Hermes colpiscono due aspetti, per certi versi in opposizione fra loro.
Prima di tutto colpisce il senso di déjà vu del discorso di Carlo Formenti, il che ci induce a oscillare fra varie considerazioni: i nostri ragionamenti attuali sono solo il frutto di uno pigro adagiarsi su un già detto? di uno sposare analisi datate (e inattuali)? O, piuttosto, assumendo come premessa che la crisi è una condizione permanente della modernità, dobbiamo ricordare come questa sia il vero motore e carburante del capitalismo e della “forma culturale” (Willis, 1978) che gli appartiene? Quindi dell’immaginario nella sua totalità, se consideriamo quest’ultimo come “rappresentazione individuale e collettiva e creazione psicosociale: quella che consideriamo come «realtà» è infatti una costruzione fondata su immagini, miti, simboli investiti di senso” (Grassi, 2012), come “l’insieme aperto e assai vasto di immagini, idee, valori, tradizioni, e altresì fantasie, immaginazioni, pre-visioni, che costituiscono la parte, sia emersa che sommersa, sia conscia che inconscia, della cultura reale e potenziale di una comunità o gruppo umano”. Esso è quindi storico, esattamente come è riferito al futuro, al tempo che verrà (Frezza, 2021), tanto da poter impersonare “la natura stessa del reale” (Marzo, 2019)?
In fondo, se individuo e società sono parti di uno stesso processo, in stretta co-produzione fra loro, così immaginario e società coincidono, sono il prodotto e il motore della costruzione collettiva del reale. E questo reale, quello che oggi abitiamo, è il risultato di una crisi epocale – che dobbiamo dire nutre se stessa e si nutre di se stessa da almeno quarant’anni – che noi cogliamo in pieno facendone la nostra condizione di vita. E su cui le dinamiche accelerate e messe in piena luce dalla pandemia – su tutte l’isolamento e la virtualizzazione delle relazioni sociali (istruzione, lavoro, affetti) – hanno esaltato la mutazione antropologica che stiamo vivendo.
Colpisce altresì la distanza enorme, l’opposizione fra quanto auspicava Formenti e il percorso compiuto dal mutamento sociale negli (ormai) quasi quarant’anni fra il suo libro e l’oggi. Più che in Hermes, Prometeo si è tramutato in Sisifo: condannato anch’egli a un destino di reiterazione del dolore e della disperazione, imprigionato ad un compito che non prevede riscatto né scopo… Figure del simbolico, del Mito, comunque, Prometeo, Hermes, Sisifo. In questo Carlo Formenti ha avuto, forse inconsapevolmente, ragione: dentro l’immaginario, i miti – magari alternandosi, o meglio, sostituendosi l’uno all’altro – continuano a proporci figure che ci parlano, dando corpo alle nostre rappresentazioni. Così il titano Prometeo, che è stato il mito per eccellenza della modernità, simbolo della potenza della scienza e della tecnica – della ragione, alla fin fine – piuttosto che da Hermes, il dio della comunicazione e della seduzione, ma anche dell’inganno e del furto, viene usurpato da Sisifo, maestro anche lui nell’ingannare e nel rubare, ma che, essendo solo un uomo, subisce una punizione feroce, umiliante, senza appello. Non si può più “immaginare Sisifo felice”, come chiedeva a metà del Novecento Albert Camus (2017) nel pieno del disastro della Seconda guerra mondiale: ha perso la sua sfida con gli Dei.
E la routine infinita delle giornate del lockdown da covid-19 ha sbattuto spietatamente in faccia a moltissimi di noi questa curvatura della vita quotidiana. Lasciandoci soli a specchiarci in una rappresentazione della condizione umana già immanente, ma dispiegata con la pandemia in tutta la sua evidenza. E abbandonandoci in mezzo al guado di una transizione antropologica epocale, che riguarda direttamente la nostra sicurezza ontologica, condotta nei non-spazi delle piattaforme digitali e nell’integrazione con i device portatili: quale spazio occupiamo quando siamo online? dove siamo? e che rapporto intratteniamo con lo smartphone? è ancora una protesi del nostro corpo? o piuttosto ne è diventato un organo?
Come scrivono Fabio D’Andrea e Valentina Grassi (2019),
Nella nostra epoca, al volgere di millennio, la Rete come insieme di reti interconnesse è la rappresentazione più fedele dell’esperienza che abbiamo del mondo in cui viviamo: ciò comporta senza dubbio un mutamento paradigmatico del quale ancora probabilmente non sono chiari gli immensi risvolti, strutturali e relazionali, a livello macro, meso e micro. E certamente l’immagine, intesa come immagine visiva, ma soprattutto come immagine mentale simbolica, ha un ruolo centrale nella costruzione e nella fruizione di tutti i prodotti digitali: la società è iper-connessa al e dal suo immaginario…
È superfluo notare che il quadro, già egemone all’epoca in cui D’Andrea e Grassi scrivevano, precede di pochissimo la pandemia, che ha accelerato ed estremizzato i fenomeni in corso, e ci ha collocati ancor più dentro gli spazi che si aprono fra il qui-ed-ora-1 delle nostre postazioni di studio, lavoro, svago, e il qui-ed-ora-2 di ciò che intravvediamo oltre gli schermi delle nostre piattaforme, integrati nello stesso tempo sempre più al nostro smartphone. E tralascio qui tutte le possibili osservazioni – e gli interrogativi – sulle conseguenze della digitalizzazione sul lavoro, sull’istruzione, e sulle altre istituzioni della modernità.
In sintesi, l’ambiente che abitiamo (e quindi noi) è cambiato, a causa della sua (della nostra) progressiva integrazione con gli spazi digitali. Il transito verso il postumano – qualsiasi cosa voglia dire – si sta svolgendo sotto i nostri occhi, e sta imbastendo un altro passaggio di stato. Tutto ruota, credo, attorno al grumo di senso (e di ricerca dello stesso) che riguarda un tema su cui l’intero Novecento si è già interrogato, e su cui continuiamo a riflettere: la relazione fra umano e tecnica, quindi tra natura e cultura come una delle tante articolazioni del dualismo che caratterizza da millenni la riflessione occidentale. Rinvio anche qui ai grandi del pensiero che ci hanno preceduti, e propongo un punto di partenza radicale: se l’individuo e la società sono un’unica entità; se l’immaginario è “la natura stessa del reale” (Marzo, 2019), allora, analogamente, se l’umano è diventato tale nel momento in cui ha individuato e usato il primo oggetto che ha immaginato come protesi, allora l’umano è tecnica e la tecnica è nella sua natura – è la sua natura[5].
Ciò che indichiamo come “natura” è una costruzione sociale – come ciò che identifichiamo con “cultura”, peraltro: esiste, piuttosto, un sistema di relazioni che connettono fra loro noi umani e gli oggetti che ci circondano. La nostra “circostanza”, nel senso che dà al termine José Ortega y Gasset:
Vita individuale, immediatezza, circostanza, sono nomi diversi per una stessa cosa: quelle parti della nostra vita da cui non si è ancora estratto lo spirito che racchiudono, il loro logos.
E poiché spirito, logos, non sono altro che «senso», connessione, unità, tutto l’individuale, l’immediato, il circostante sembra casuale e privo di significato.
Dovremmo considerare che tanto la vita sociale come le altre forme di cultura ci Si offrono sotto l’aspetto della vita individuale, dell’immediato (2014).
Ecco, questa potrebbe essere una chiave per tentare di superare l’impasse e le aporie che popolano il “dibattito” sul transito verso e sull’ingresso dentro la “circostanza” digitale alla quale peraltro già eravamo avviati, e che con il covid-19 sta conoscendo una significativa, severa, accelerazione.
Se riflettiamo sulle vicende degli ultimi decenni, possiamo distinguere l’affermarsi della dimensione digitale in due fasi.
Un primo periodo, un’alba, in cui l’intero “dispositivo” che andava sviluppandosi era percepibile come separato da noi. Dalle macchine a controllo numerico di uso industriale, al Web 1.0, ai primi esempi di realtà “virtuale” come Second Life, attraverso cui abbiamo sperimentato un primo livello di relazione con il digitale: il livello della “simulazione”, dell’“iperrealtà” di cui scriveva Jean Baudrillard, fino a una fase di esplorazione, familiarizzazione, “confidenza” col Web (giochi online, webzines, canali social).
Un secondo periodo – quello in cui siamo – una vera e propria aurora digitale (Attimonelli e Susca, 2020), avviatasi con la nascita degli smartphone e proseguita con la diffusione – ancora recentissima! – della vita online quotidianizzata, stimolata e resa necessaria dal confinamento in casa, che nata come necessità di studio e/o lavoro, si è espansa anche agli ambiti delle relazioni con gli amici, i parenti lontani, sostituendo, anzi rimediando le vecchie conversazioni telefoniche, aggiungendo all’oralità l’immagine, e facendoci sperimentare una nuova condizione: essere qui-e-ora e lì-e-ora, a contatto diretto, “a vista”, con i nostri interlocutori, conducendoci in un nuovo, inedito continuum spazio-temporale, prossimo all’ubiquità. Una nuova “circostanza”, una condizione digitale la cui ecologia è ancora ampiamente da esplorare, ma che comunque allarga la relazione umano-ambiente a nuove regioni, di vita e di senso.
Non è una casualità se negli stessi anni hanno accelerato la ricerca e la riflessione sulla relazione fra ciò che “sentiamo” come soggettività, individualità e ciò che percepiamo come mondo esterno, sulla scorta delle neuroscienze e dell’evoluzione delle cosiddette “intelligenze artificiali”. Come non è casuale la comparsa all’interno delle narrazioni – sia audiovisive sia stampate – di interrogativi sulla natura della “coscienza”. Gli spazi della vita online, le tecnologie dell’integrazione organico-artificiale, le ricerche delle neuroscienze sul funzionamento della coscienza (che peraltro rischiano di imporre «nuove concezioni antropologiche – come quella dell’uomo neuronale […] – che lasciano intravedere un possibile ritorno all’idea di un determinismo che si impone alla volontà individuale» [Pecchinenda, 2018]) si rispecchiano e nutrono quindi un’intera area dell’immaginazione narrativa: basti pensare al romanzo Zero K di Don DeLillo (2016), o alle serie tv Black Mirror (2014-2019)[6] e Westworld (2016 –).
Anzi, proprio nella seconda di queste due serie ricompare, di soppiatto, la condizione di Sisifo: nella reiterazione ad infinitum delle vite dei “residenti” di Westworld, chiusi nei ruoli imposti da una sceneggiatura che ripete sempre se stessa, e di cui sono inconsapevoli. Il che impone una domanda: Sisifo è consapevole, o meno, di ripetere sempre la stessa operazione? O gli dèi, in un momento di pietà, gli hanno concesso la smemoratezza? È forse questa la condizione per la sua felicità? Quella auspicata da Camus?
Proverò a delineare qualche tratto, del “nuovo” Sisifo, che vada oltre la dimensione disgregata e residuale, implosa e strepitante dell’individuo contemporaneo cui accennavo sopra, usando come chiave la narrazione audiovisiva, nelle forme della “neoserialità” (Fattori [a cura di], 2019).
Passaggi di testimone
La tensione fra consapevolezza della perdita del senso e tentativi di elusione della morte che avvolge l’umano contemporaneo è ben viva e presente nell’immaginario, e si “rimedia” sia nella ricerca scientifico-tecnologica – e para-tale, basti pensare al “transumanesimo” – sia nelle narrazioni: nel romanzo, nel cinema, nelle serie tv. Ed è su questo secondo dominio dell’immaginario, quello narrativo, che qui vorrei concentrarmi, non solo per dar conto di come manifesti lo Zeitgeist in cui siamo immersi, ma anche per operare una breve ricognizione – appena accennata più sopra – di alcune tappe salienti di un percorso che ha coinvolto le identità (sociali e individuali), gli apparati (produttivi e di distribuzione e consumo), le merci estetiche (audiovisive e a stampa), negli ultimi due decenni e di cui queste ultime hanno – esplicitamente o meno – offerto spunti e sostanza di riflessione.
La fiction (in tutti i suoi formati e supporti) diventa il veicolo principale di circolazione degli interrogativi posti dalla nuova condizione che sembra emergere, dentro la neoserialità nel suo complesso (cfr. Fattori, 2019), quella con “contenuti di pregio” (Lotz, 2017), come elemento di quei processi che hanno investito l’intero sistema di produzione di fiction, connessi alla digitalizzazione, alla riorganizzazione dei rapporti fra cinema e televisione, all’emergere di una nuova figura spettatoriale (cfr. Tirino, 2020; Tirino e Fattori, 2021). Un fenomeno, credo, si è imposto sugli altri, a determinare il panorama della narrazione dell’immaginario: la transmedialità, a fare da metafora del nostro essere sempre più “a cavallo fra due mondi”, quello “naturale” e quello digitale. Vale perciò la pena di approfondire meglio il fenomeno.
Scrivendo del cinema in un testo recentissimo quanto lucido – ma guardando necessariamente anche ai processi che hanno coinvolto tutti gli altri media – Gino Frezza afferma: «Il transmedia è un universo narrativo-immaginativo che trapassa fra e corre su vari media, tale da possedere un carattere fortemente, decisamente, sistematico» (Frezza, 2021), laddove per “transmedia” bisogna intendere quel fenomeno per cui
i singoli media operano in forme né separate le une dalle altre né in una specificità intangibile o inscalfibile, bensì quali parti di un ecosistema. Dentro il quale, ciascuno dei media occupa uno spazio di produzione e di significazione che non resta isolato ma concorre a trasformare l’insieme: intanto che ogni singolo medium si traduce e si incrocia nelle forme e nei modi degli altri, il sistema intero, a sua volta, si rende una complessa dimensione del reale, permeata dalla correlazione integrata – ossia dalla transmedialità costitutiva – di ciascun medium rispetto agli altri. (Frezza, 2021)
E ancora,
La nozione di transmedialità deve essere precisamente riferita a ogni processo concernente il passaggio/trasferimento/scambio di forme e di contenuti culturali da una piattaforma espressiva a un’altra, da un medium all’altro, ma anche, e soprattutto, tale nozione vuol dire: mescolare i media fra di loro, farli interagire in modo significativo, in una operazione che regoli i media l’uno con l’altro, e li contempli nella loro parità espressiva in un processo di comunicazione integrata. (Frezza, 2021)
La transmedialità emerge e si impone anche all’esterno degli apparati cine-televisivi, investendo tutti i supporti e i formati della narrazione anche perché l’intero blocco degli apparati connessi all’audiovisivo a partire dal passaggio di millennio ha conosciuto una profonda trasformazione. Achille Pisanti, in un lavoro ancor più recente, descrive con limpida precisione questo passaggio di stato, il frutto di una decisa devolution:
Con il termine devolution intendo il decentramento dei poteri produttivi e distributivi, che fino ad allora erano appartenuti ai network generalisti, e che da ora in poi vengono dirottati verso la moltitudine di canali tematici di nicchia: cable, pay, ecc. (Pisanti, 2022)
La serie Westworld ne rappresenta un traguardo evolutivo che ha come predecessori film come Blade Runner (1982) per il disegno delle identità dei nostri gemelli artificiali e The Truman Show (1998) per la “nidificazione” di mondi l’uno dentro l’altro (quello dei personaggi dentro quello dei loro creatori dentro quello di noi spettatori, reso dallo scambio continuo fra i punti di vista dei vari agenti nella narrazione) e per il dialogo che si instaura fra il protagonista e il suo creatore, come nel Truman Show nello scambio finale fra Truman (il protagonista del film e del reality dentro il film) e Christof (il registra creatore del reality), ma ancor di più come negli scambi di battute fra Maeve Millay e il suo sceneggiatore Lee Sizemore “dentro” Westworld: “Sono morta un milione di volte. Cazzo, sono brava in quello. Quante volte sei morto tu?” (07×01).
In Westworld, infatti, i nostri doppi ripercorrono, per così dire, il percorso filogenetico del nostro immaginario, evolvendo da senzienti immersi in un mondo impregnato di “invisibile”, segnati da un “sé poroso” (Taylor, 2009), esposto allo sguardo dei loro “dei” (i programmatori) a individui dotati di un “sé riflessivo” (Giddens, 1999) che va oltre il “sé blindato” (cfr. Fattori, 2013), arrivando a un “sé diffuso”, capace di connettersi mentalmente non solo con le menti di altri replicanti, ma con gli universi digitali, piegandoli ai propri obiettivi e modificando la percezione del reale degli umani, come nella seconda stagione Maeve e nella terza Dolores.
In particolare Westworld, nelle sue sostanze, mette in gioco in modo radicale il conflitto fondamentale dell’umano: il rapporto fra la sicurezza ontologica e la morte. Se noi sentiamo che siamo/abbiamo un corpo, e che questa certezza deriva dall’avere una mente-che-sente-e-pensa, la nostra finitudine può essere neutralizzata possiamo abolire la morte salvando la mente, trasferendo il suo contenitore, il cervello, di volta in volta in corpi sempre nuovi? come succede in Westworld, o in Zero K, il penultimo – quando scrivo – romanzo di Don DeLillo (2016)?
Per Westworld vale in pieno ciò che scriveva Linda De Feo a proposito del cinema citando Edgar Morin:
La macchina da presa, spinta in tutti i sensi da un “flusso affettivo-magico”, crea le visioni in cui appare lo spettro corporale dello spettatore e in cui si dipanano processi psichici fondamentali che vengono esaltati dalla rappresentazione cinematografica: la “qualità implicita del doppio”. (De Feo, 2017)
Il “sé diffuso” che ho teorizzato, frutto della sempre più forte integrazione con la dimensione digitale, è il vero oggetto della transmedialità come metafora della nostra condizione presente – forse futura: un Sé, e un corpo, immanenti nel mondo, come le eroine di Westworld, ma contemporaneamente condannato a replicare sempre le stesse azioni, all’infinito, come le stesse eroine prima di liberarsi, e come il Sisifo della mitologia greca.
Bibliografia
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Note
[1] Si pensi alle argomentazioni di Georg Simmel a proposito dell’altruismo (oggi forse preferiremmo il termine “empatia”) in Simmel, 2011.
[2] Devo l’idea che alla pandemia di covid-19 sia attribuibile il carattere di “fatto sociale totale” a Pier Luca Marzo. Cfr. AIS Immaginario, 2020.
[3] Cfr. AIS Immaginario, Immaginari della pandemia, Festival della Sociologia di Narni, 2020, https://www.youtube.com/watch?v=TjkXhNqREE8&t=2712s; Affuso O., Parini E. G., Santambrogio A. (a cura di, 2020); Gamba F., Nardone M, Ricciardi T., Cattacin S. (a cura di, 2020); Marchetti M. C.; Romeo A. (a cura di, 2020); Fattori A. (2020a).
[4] Tranne il primo, corsivi miei.
[5] Alla fin fine, come scrive icasticamente Gianfranco Pecchinenda, “al di là del cosiddetto «Senso Comune»… la Natura non esiste” (Pecchinenda, 2015).
[6] Sulla serie anglosassone cfr. i ricchissimi Tirino e Tramontana (2018) e Attimonelli e Susca (2020).