Le ideologie sono libertà mentre si fanno, oppressione quando sono fatte
J.P. Sartre (1948)
Innovazione: facta e futura
Questo studio è rivolto all’idea della città del futuro come città sostenibile, nella quale istanze culturali e politiche quali rigenerazione, riqualificazione e riuso urbano sostenibile sono assolutamente prioritarie. Guarda anche al passato di una città ideale come la pòlis, in cui, momento straordinario della storia dell’occidente, si è potuta realizzare la più compiuta forma di organizzazione spaziale, che segue quella di oikos e precede quella di heimat. Con un carattere spaziale del tutto innovativo, la pòlis è insieme la prima organizzazione dello spazio in forma di luogo e il luogo sociologicamente definito da una natura locale, precisa e fisico-spaziale (Bonomi, 2004, p. 14). Ma il presente studio è altresì rivolto ai processi di innovazione in atto nella costruzione e immaginazione delle città che la sociologia è in grado di analizzare; essa lo fa con strumenti che possiamo considerare preliminari all’azione politica presente e futura, e semmai usando la tecnica come strumento della politica.
L’innovazione è un problema che riguarda il nostro futuro non meno del presente, essendo basata su assunti etici altrettanto che politici. Essa dunque non è mero argomento di interesse della tecnologia e delle sue applicazioni, ma riguarda da vicino il nostro fare, ovvero anche le scelte che condizionano il nostro agire. E non va disgiunta dalla responsabilità sociale tanto nelle questioni di interesse pubblico quanto in quelle di interesse privato. Il discorso vale per tutte le forme di comunicazione, dalla tecnologia alla salute, alla sostenibilità, sicurezza e salubrità dei luoghi in cui viviamo e lavoriamo. Se il progresso è di certo un aspetto che rimanda al futuro, dobbiamo essere avvertiti, ci ricorda Barbara Adam, che non ogni tipo di progresso contribuisce a costruire il futuro (cfr. Adam e Groves, 2007): a volte, infatti, il futuro non si lega a quello che chiamiamo progresso, ma, molto di più, alla questione della responsabilità. Siamo abituati a vivere la paradossale situazione di un futuro che è insieme aperto (futura: tutto ciò che ancora non è accaduto) e di un passato inteso come conoscenza funzionale, fatta com’essa è di facta (ciò che è già accaduto: cfr. de Jouvenel, 1967). L’impressione è che lo sforzo maggiore compiuto dalla Adam si indirizzi a farci comprendere che vi è un urgente bisogno di conoscere quelli che essa chiama “futuri prodotto del nostro fare” (“produced futures of our making”), che consistono nel nostro sempre rinnovato impegno con i future presents, relativi, invece, alla responsabilità sociale.
Tutti i nostri sforzi per prevedere il futuro sono indirizzati ad assoggettarlo ai nostri desideri, proiezioni, volontà di potenza: come se esso costituisse un territorio vuoto da conquistare o colonizzare. Possiamo ravvisare proprio qui uno dei motivi per cui responsabilità e conoscenza sono sempre meno connesse, mentre la non-conoscenza sta diventando, ancora secondo la studiosa britannica, il tratto dominante dell’innovazione basata sulla tecnologia. Per questo motivo, mentre l’innovazione aumenta, ovvero mentre, ad esempio, i progressi tecnologici nella biomedicina trasformano le identità sociali nate da nuove forme di associazione politica, favorendo nuovi circuiti di capitale, è in moto, in parallelo, un processo contrario: la crescita inarrestabile dell’incertezza e dell’indeterminatezza che ha fatto emergere l’accresciuto bisogno di responsabilità sociale e individuale nel costruire il futuro. È per questo, ancora, che l’innovazione è diventata soprattutto un problema di ordine etico e la base principale per l’azione presente e futura anche nella costruzione della pòlis del futuro. E c’è da domandarsi che cosa effettivamente possa insegnare un architetto che non si confronti ogni giorno con le intricate regole e gli eventi che si intrecciano con lo sviluppo urbano, nella relazione tra la città e il suo habitat. Come misurare, ad esempio, l’impatto ambientale dell’innovazione sul suolo urbano senza prendere in considerazione i necessari strumenti analitici che egli ha in mente? L’architetto ha il dovere di esplorare tutte le possibilità di contatto tra i propri approcci interpretativi ed altri approcci, al fine di fare una propria analisi iniziale di un sistema urbano: senza dimenticare il fine ultimo di ridisegnare e migliorare quello stesso sistema per le generazioni future.
Agire etico e responsabile. La modernizzazione ecologica
Se è vero che l’innovazione non controllata e spinta dalla tecnologia può produrre non-conoscenza, allora diventa molto probabile che quello che stiamo progettando sia solo un futuro apparente. Un po’ quello che, ancora la Adam (2007) chiama “prendere il futuro” anziché costruirlo. E come suggeriva Karl Mannheim (1929) quando si riferiva all’utopia come all’“ideologia del non ancora”, così la studiosa afferma che la comprensione dei paradossi è un passo importante verso modi alternativi di costruire il futuro. Immaginare e disegnare le città del futuro, in particolare, richiede insieme memoria e dimenticanza (Rossi, 1989), utopia e senso della realtà. Ma, quando ci si confronta con la responsabilità sociale, ci si scontra nello stesso tempo contro una specie di amnesia sociale (Connerton, 2009), di memoria corta e mancanza di considerazione per gli effetti a lungo termine che emergono all’interno delle strutture istituzionali. Assuefatti come siamo ad un “futuro presente”, per ricorrere di nuovo alla terminologia di B. Adam, non facciamo che proiettare la nostra vita e i nostri pensieri verso le più seducenti e promettenti tecnologie, come se fossero tutto ciò che vale nella vita; senza accorgerci, per altro, che quella sfera della conoscenza che produce progresso e futuro può generare anche una miriade di pericoli, come un vaso di Pandora. Questo si deve innanzi tutto al fatto che siamo abituati a convivere con la paradossale situazione di un futuro insieme aperto ma anche determinato e con un passato cui ci riferiamo come alla nostra utile conoscenza funzionale (si diceva sopra, costituita da facta). Lo sforzo di chi progetta la società (dell’architetto come del politico e del sociologo) dovrebbe piuttosto dirigersi, insomma, verso “presenti futuri” (future presents: cfr. Adam, 2007) che hanno a che fare con la responsabilità sociale e, di conseguenza, con la creazione dell’identità delle città attraverso la costruzione della non meno prescindibile identità dei suoi abitanti. Sulla scorta di teorie come quella della razionalità comunicativa (Habermas, 1984), del disembedding (Giddens, 1990) e della società del rischio (Beck, 1992) si possono mettere a fuoco alcune caratteristiche legate ai processi di costruzione di responsabilità sociale relativi alle città. Se la modernità ha dimenticato la memoria come fondamentale condizione della comprensione storica (“No memory, no meaning” come sosteneva Terdiman, 1993, p. 9), le città contemporanee hanno perso la memoria culturale (Connerton, 2009); questo accade anche perché, come asserisce Beck (1992) il passato non ha più il potere di determinare il presente, rimpiazzato dal futuro come “causa” dell’esperienza e dell’azione contingenti. Un sistema sociale che ha perduto il proprio passato (Jameson, 1991) diventa un sistema solipsistico, in cui l’individualismo oltrepassa la condizione dell’uomo marginale denunciata da Park (1915) o dello straniero di Simmel (1908) inteso come parte integrante di una società, anche se all’oscuro dei modi e meccanismi di relazione intersociali, e si lancia nel vuoto di rapporti affettivi e sociali analizzato da Bauman (2003) quale tratto caratterizzante della modernità liquida.
Poiché le trasformazioni tecniche ed economiche che si realizzano nelle città sono assai più rapide di quelle culturali, come notavano i coniugi Robert e Helen Lynd (1929) già negli anni Venti in America, gli individui che vivono nelle città medie e grandi faticano a costruire e a mantenere proprie reti culturali, nella forma di vere e proprie subculture volte a cementare le identità. Le responsabilità sociali che i pianificatori urbani si assumono sono perciò crescenti, come la complessità delle realtà socio-culturali che essi si trovano a riorganizzare: non tenerne conto rappresenta sempre di più un punto di partenza falso e aleatorio. E’ per questo che si sviluppa una teoria della modernizzazione ecologica, che cerca di porre rimedio ai guasti della politica ambientale degli ultimi tre decenni del secolo scorso. La velocità dei mutamenti tecnologici ed economici viene così compensata da una gestione ambientale responsabile, che adotti meccanismi produttivi più puliti e con minor intensità tecnologica (processo di super-industrializzazione), implementando insieme rigorose regole ambientali e sviluppando integrate strategie di gestione che coinvolgano procedure, processi produttivi e regolamentazioni. La teoria contempla inoltre che si effettui un’attenta analisi delle debolezze e delle opportunità, individuando le aree deboli e costruendo specifici piani di emergenza edilizia (Lerch, 2007).
Per illustrare meglio questi aspetti teorici, citerò ora alcuni casi importanti di architettura partecipata, alcuni legati al presente ma alcuni già apparsi decenni fa in Europa. Un caso eclatante appare quello di Barcellona e della sua rigenerazione grazie al progetto dell’Ensanche (Eixample) dell’ingegner Ildefons Cerdà, alla fine del XIX secolo, con un piano che conferì alla città catalana un impianto urbano unitario, studiato per pianificare una giusta e controllata espansione della città al di fuori delle mura, demolite nel 1854.
A seguito di ricerche e analisi molto meticolose, Cerdà concluse che alti tassi di mortalità a Barcellona erano direttamente correlati ad un aumento della densità di popolazione, in particolare nelle aree destinate alla classe operaia. Nella sua proposta, egli sosteneva la necessità di un piano omogeneo che avrebbe offerto le stesse condizioni sanitarie per tutte le classi sociali. Il piano di Cerdà, forse influenzato da pensatori sociali utopici, si è evoluto in un disegno formato da una griglia di elementi ripetuti tutti uguali tra loro. La griglia omogenea avrebbe evitato di ricadere in una gerarchia legata ai valori immobiliari dei terreni e avrebbe generato un progetto più democratico di riqualificazione e rigenerazione urbana. Attraverso questo eccellente progetto, Cerdà tentò di rispondere a tutte le esigenze sociali e urbane esistenti nella città di Barcellona, concependo, già al suo tempo, lo spazio pubblico e il suo recupero e rigenerazione come una strategia per modificare l’area metropolitana, superando gli steccati dell’utopia con la capacità di realizzare progetti (Mazzoleni, 2009).
Senza andare lontano, Barcellona resta anche in tempi recenti un caso emblematico di buone pratiche legate all’architettura responsabile, attenta a produrre partecipazione attiva e inclusione sociale. Il progetto per la riqualificazione del quartiere La Mina, condiviso con gli abitanti come parti attive, rappresenta un altro caso importante di recupero di un’area degradata e ad alto tasso di criminalità. Ponendosi come obiettivo l’inclusione delle minoranze etniche, di cui il 20% di origine gitana, il progetto arriva a vincere nel 2000 il “Premio Nacional de Urbanismo del Ministerio de Vivienda”. Con queste premesse, la città di Barcellona ha continuato ad avviare processi di riqualificazione della città; 22@Barcelona è il progetto di realizzazione di un distretto produttivo all’insegna dell’innovazione, dove attività produttive e commerciali si integreranno in modo armonioso e funzionale. Si tratta di uno dei più ambiziosi in Europa, basato sul sostegno all’imprenditorialità, che mira a creare una Silicon Valley catalana, con la costituzione di cinque cluster in settori strategici per la Spagna (media, tecnologie mediche, ICT, energia e design) in cui offrire un ambiente di qualità per lavorare, vivere e studiare. La sigla 22@ richiama l’antica nomenclatura urbanistica, 22A, con cui in Spagna un tempo si identificavano i vari lotti di terreno ad uso industriale; a causa della concentrazione di industrie era nota come motore economico della regione fra il XIX e il XXI secolo, perdendo tutta la prosperità e l’attrattività dopo il trasferimento delle stesse nelle zone periferiche. Il nuovo nome rappresenta in modo simbolico il fatto che l’intero processo di trasformazione dei 200 ettari di terreno in disuso che compongono l’area sarà basato sull’innovazione e vedranno un’armoniosa compresenza di edifici ad uso residenziale e terziario, ampie aree verdi e spazi dedicati in modo specifico all’industria delle nuove tecnologie e della conoscenza (De Bonis Patrignani, 2012, p. 69).
La diffusione di metodi di ecologia della cultura e di idee per trovare soluzioni sostenibili, riducendo l’impatto ambientale relativo alle aree edificate, ha per altro seguito anche in Italia. Le periferie stesse, quelle di cui l’architetto Renzo Piano scrive che hanno bisogno di essere “riparate” da una nuova generazione di giovani capaci e responsabili, sono forse quelle che incarneranno la città del futuro, e non solo in Italia. Scrive l’architetto (Piano, 2014):
Le periferie sono la città del futuro, non fotogeniche d’accordo, anzi spesso un deserto o un dormitorio, ma ricche di umanità e quindi il destino delle città sono le periferie. Nel centro storico abita solo il 10 per cento della popolazione urbana, il resto sta in questi quartieri che sfumano verso la campagna. Qui si trova l’energia. I centri storici ce li hanno consegnati i nostri antenati, la nostra generazione ha fatto un po’ di disastri, ma i giovani sono quelli che devono salvare le periferie. Spesso alla parola “periferia” si associa il termine degrado. Mi chiedo: questo vogliamo lasciare in eredità? Le periferie sono la grande scommessa urbana dei prossimi decenni. Diventeranno o no pezzi di città? Diventeranno o no urbane, nel senso anche di civili? … Il nostro è un Paese di talenti straordinari, i giovani sono bravi e, se non lo sono, lo diventano per una semplice ragione: siamo tutti nani sulle spalle di un gigante. Il gigante è la nostra cultura umanistica, la nostra capacità di inventare, di cogliere i chiaroscuri, di affrontare i problemi in maniera laterale…Servono idee anche per l’adeguamento energetico e funzionale degli edifici esistenti. Si potrebbero ridurre in pochi anni i consumi energetici degli edifici del 70-80 per cento, consolidare le 60mila scuole a rischio sparse per l’Italia. Alle nostre periferie occorre un enorme lavoro di rammendo, di riparazione. Parlo di rammendo, perché lo è veramente da tutti i punti di vista, idrogeologico, sismico, estetico. Nelle periferie non c’è bisogno di demolire, che è un gesto d’impotenza, ma bastano interventi di microchirurgia per rendere le abitazioni più belle, vivibili ed efficienti. In questo senso c’è un altro tema, un’altra idea da sviluppare, che è quella dei processi partecipativi. Di coinvolgere gli abitanti nell’autocostruzione, perché tante opere di consolidamento si possono fare per conto proprio o quasi che è la forma minima dell’impresa. Sto parlando di cantieri leggeri che non implicano l’allontanamento degli abitanti dalle proprie case ma piuttosto di farli partecipare attivamente ai lavori. Sto parlando della figura dell’architetto condotto, una sorta di medico che si preoccupa di curare non le persone malate ma gli edifici malandati. Nel 1979 a Otranto abbiamo fatto qualcosa di molto simile con il Laboratorio di quartiere, un progetto patrocinato dall’Unesco per “rammendare” il centro. Un consultorio formato da architetti condotti potrebbe essere un’idea per una start up. Nelle periferie non bisogna distruggere, bisogna trasformare. Per questo occorre il bisturi e non la ruspa o il piccone.
Smart cities
La visione di Renzo Piano si accorda perfettamente con quella delle smart cities, basate sulla rilettura dei tradizionali paradigmi neoclassici della crescita urbana e dello sviluppo economico: qualità della vita e partecipazione dei cittadini al governo della città divengono obiettivi raggiungibili grazie a investimenti in capitale umano e sociale insieme alle infrastrutture di comunicazione tradizionali (trasporti) e moderne (ICT) che alimentano una crescita economica sostenibile (De Bonis Patrignani, 2012, p. 12). Il nuovo paradigma di governance partecipativa utilizza il concetto di Smart City come punto di incontro tra new economy di fine secolo e green economy attuale, fondata sull’ininterrotto sviluppo dell’ICT che, da strumento di rilancio dell’economia della conoscenza diventa propulsore dello sviluppo sostenibile delle città. Questo processo viene realizzato attraverso l’attuazione di una molteplicità di politiche e strategie per favorire una transizione graduale da un sistema dissipativo delle risorse naturali ad uno più efficiente, dinamico, circolare, in grado di perseguire la crescita e il benessere dei cittadini puntando su capacitazione come condizione di libertà (Sen e Nussbaum, 1993) e relazioni sociali.
Prima di abbracciare i temi dello sviluppo sostenibile, il pensiero smart si era dotato di una propria struttura concettuale con il modello della tripla elica, che descrive i processi di innovazione a partire dall’ingegneria dei sistemi, individuando una relazione a rete costituita da rapporti di reciprocità tra quelli che sono i responsabili della conoscenza e della sua capitalizzazione in un ambiente urbano complesso e le esigenze di differenziazione e integrazione. In questo approccio le tre “eliche” sono rappresentate da: imprese che creano valore, amministrazione locale che norma gli standard, università e centri di ricerca che producono il capitale intellettuale. Recentemente un gruppo di ricercatori del Politecnico di Torino (Dipartimento di Scienze, Progetto e Politiche del territorio) ha arricchito questo modello introducendo la società civile come quarta elica del processo urbano, che adotta le soluzioni emergenti e agisce determinando, anziché subendo, le interazioni tra governo, industria e mondo della ricerca. Secondo questo approccio, il successo di una città dipende in modo particolare dalle sinergie che si vengono a creare tra gli attori coinvolti (De Bonis Patrignani 2012, p. 13).
Questa visione italiana completa il percorso verso una Smart City intesa come laboratorio per la sostenibilità, in cui le reti intelligenti rappresentano il sistema nervoso di un organismo, ovvero dell’ecosistema urbano: dall’improduttiva autoreferenzialità dei precedenti modelli basati sulla supremazia dell’ICT si passa a concepire la tecnologia come vettore di funzioni e relazioni, per abilitare uno sviluppo virtuoso più rispettoso dell’ambiente e dei suoi abitanti. In altre parole, la città intelligente che vorremmo si realizzasse nel futuro dovrebbe incoraggiare uno sviluppo economico sostenibile e promuovere un’alta qualità della vita facendo ricorso soprattutto alla migliore risorsa, quella del capitale umano e sociale (Aa.Vv., 2014). In un mondo che si avvia ad avere 9 miliardi di abitanti nel 2050, trasformare le città rendendole sostenibili, efficienti e belle, nonché più umane, diventa un compito imprescindibile.
I paradigmi di pianificazione urbana del futuro dovranno tener conto non solo del dilagare delle città, ma anche del loro contrarsi. In questo senso, l’esempio dello Stato federale della Sassonia Anhalt, in Germania, è riuscito, dal 2002, ad adottare strategie contro il degrado e l’abbandono delle città. In tal modo ci appare finalmente l’originalità del nuovo paradigma adottato dalle città tedesche dell’IBA (Internationale Bauausstellung) capaci di diventare più piccole grazie ad un prudente equilibrio tra demolizione e compressione da una parte, e abilità degli abitanti nel fare invenzioni artistiche a garanzia della vitalità dell’ambiente umano. Un’attenzione particolare è stata rivolta al recupero dei terreni abbandonati o non sfruttati (Brachflächen, brownfields) secondo le statistiche notevolmente aumentati in Germania dal 1993: le indagini condotte nei primi anni della decade dal 2010 stimano infatti la superficie totale dei siti inutilizzati tra i 150.000 e i 176.000 ettari. Ad illustrare chiaramente l’importanza attribuita al riciclo del territorio urbano tedesco, i dati di un sondaggio eseguito nel 2006 dall’Istituto Federale per la Ricerca sulla Costruzione Affari Urbani e Sviluppo territoriale tra più di 600 comuni. Quello che è emerso è che più di 63.000 ettari di terra sonno potenzialmente disponibili per una riqualificazione urbana che non richiede ampie misure preparatorie.
Appunti per una conclusione
Da quanto si è potuto analizzare sin qui, sembra proprio che, stando alle teorie di Kuhn sulle rivoluzioni scientifiche (1962), siamo in presenza di un vero paradigma in grado di analizzare la realtà e di proporre strumenti per risolvere problemi, favorendo insieme lo sviluppo culturale di una società in cui alcuni elementi-chiave siano posti al centro di politiche locali e nazionali. Il riferimento è quindi alle città del futuro e alla loro programmazione, studiate attraverso la lente di un nuovo paradigma, in grado di riassumere gli elementi sin qui presi in considerazione. Questo nuovo strumento euristico ne ricomprende in sé almeno due: quello delle 3T di Richard Florida (2002) e quello delle 3C di Maurizio Carta (2007). Il primo, come è noto, coniuga talento, o la capacità delle comunità locali di attrarre e trattenere i migliori cervelli; tecnologia, non solo come insieme di innovazioni, così come la capacità di trasferire le idee, le competenze e le conoscenze in prodotti da vendere sul mercato; e infine tolleranza, ovvero apertura della società nei confronti delle cosiddette differenze culturali (immigrati, omosessuali, minoranze etniche, ecc.). E si direbbe che quest’ultimo fattore sia di gran lunga il più importante dei tre, in quanto garantisce la formazione di un sistema sociale aperto. Da parte sua, Carta (2007) avanza un’originale proposta, che alla triade di Florida ne accosta un’altra, costituita da cultura, comunicazione, cooperazione. La cultura intesa come l’identità del luogo e l’insieme di elementi storico-artistici; la comunicazione come la capacità di supportare la trasmissione di informazioni ai cittadini e di fornire protezione dal degrado attraverso la tecnologia; la cooperazione, quale collaborazione tra i diversi gruppi sociali e, in questo caso, accettazione della “diversità”. Facendo buon uso di questo nuovo strumento scientifico, il mito della città del futuro cesserebbe di apparire come tracotante e fuori smisura, da una parte, oppure nella sua dimensione utopistica, dall’altra, e si ridimensionerebbe invece a partire dall’esperienza storica concreta, secondo i migliori auspici dell’antropologo Marc Augé (2012).
Per approfondire:
- Vv., Designing the Urban Future: Smart Cities, Scientific American, 2014.
- Augé M., Futuro, Bollati Boringhieri, Torino, 2012.
- Adam B. e Groves C., Future Matter: Action, Knowledge, Ethics, Brill, Leiden & Boston, 2007.
- Bauman Z., Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2003.
- Beck U., La società del rischio, Carocci, Roma, 2000.
- Beck U., Un mondo a rischio, Einaudi, Torino, 2003.
- Bonomi A. e Abruzzese A., La città infinita, Bruno Mondadori, Milano, 2004.
- Carta M., Creative City. Dynamics, Innovations, Actions, ListLab, Barcellona,2007.
- Cerdà I., Teoria generale dell’urbanizzazione, Jaca Book, Milano, 1995.
- De Bonis Patrignani R., Progetto Padova Soft City WP1. Analisi del contesto Smart City nel mondo, Istituto Superiore Mario Boella, 31 luglio 2012.
- Giddens A., The Consequences of Modernity, Stanford University Press, Stanford, California, 1990.
- Habermas J., Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bologna, 1984.
- Jameson F., Postmodernism or, The Cultural Logic of Late Capitalism, Duke University Press, Durham, North Carolina,
- Jouvenel B. de, The Art of Conjecture, Basic Books, New York, 1967.
- Kuhn T.S., The Structure of Scientific Revolutions, University of Chicago Press, Chicago, 1992.
- Lerch D., Post Carbon Cities: planning for energy and climate uncertainty, a guidebook on peak oil and global warming for local governments, Post Carbon Press, Sebastopoli, 2007.
- Lynd R.S. e Lynd H.M., Middletown: A Study in Contemporary American Culture, Harcourt, Brace and Company, New York, 1929.
- Mannheim K., Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1957.
- Mayer A.N., “The Former East Germany: Is It Time for Red Nostalgia?”, http://www.newgeography.com/content/00646-the-former-east-germany-is-it-time-red-nostalgia
- Mazzoleni C., La costruzione dello spazio urbano: l’esperienza di Barcellona, Franco Angeli, Milano, 2009.
- Milligan S., “An Urban Revival in the Rust Belts”, U.S. News, 2 settembre 2014, http://www.usnews.com/news/articles/2014/09/02/an-urban-revival-in-the-rust-belt.
- Musco F., Rigenerazione urbana e sostenibilità, Franco Angeli, Milano, 2009.
- Park R., The city. Suggestions for investigation of human behavior in the urban environment, in “American Journal of Sociology”, vol. 20, marzo 2015.
- Piano R., “Rammendare le periferie”, Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2014.
- Renn A.M., The Urban State of Mind: Meditations on the City, Amazon Digital Services, 2013.
- Rossi P., Paragone degli ingegni moderni e postmoderni, Il Mulino, Bologna, 1989.
- Rossi P., Il passato, la memoria, l’oblio, Il Mulino, Bologna, 1991.
- Sartre J.P., Qu’est-ce que la littérature?, 1948; tr. it. Che cos’è la letteratura?, Il Saggiatore, Milano, 1960.
- Sen A.K. e Nussbaum M.C., The quality of life, Clarendon Press, Oxford, 1993.
- Simmel G., Soziologie, Duncker & Humblot, Lipsia, 2008.
- TED Conferences, City 2.0: The Habitat of the Future and How to Get There: TED Books, 20 febbraio 2013.
- Terdiman R., Present Past: Modernity and the Memory Crisis, Cornell University Press, Ithaca, New York, 1993.
- Verdi L. e Tessarolo M., Questioni di spazio. Cultura, simboli, comunicazione, cleup, Padova, 2007.
- Verdi L., The Arts and the Future City, in “World Futures: The Journal of Global Education”, vol. 64 n.1, 2008.
- Verdi L., “Urban Change and Urban Identity”, ESA Research Network Sociology of Culture Midterm Conference: Culture and the Making of Worlds, ottobre 2010, http://ssrn.com/abstract=1693103.
- Verdi L., Aesthetics in urban space: architecture and art for sustainable cities, in “Kultura I Spoleczenstwo (Social Space)”, Institute of Sociology, Rzeszów University, Polonia.
- Verdi L., Etica ed estetica nello spazio urbano. La professione dell’architetto e dell’artista, in “Galileo”, Collegio degli Ingegneri della Provincia di Padova, 2015.