È indubbio che l’emergenza Covid-19 abbia svelato, ancor più drammaticamente, alcune debolezze dell’architettura dell’Unione europea. A un’inziale e tempestiva reazione delle sue principali istituzioni – di cui l’ingente stanziamento di risorse economiche è la risposta più evidente – è seguita anche la presa d’atto che un reale coordinamento su alcune questioni strategiche non è ancora del tutto presente. Per esempio, per quanto riguarda la produzione, l’approvvigionamento e la distribuzione dei vaccini sono riemersi – talvolta in maniera neppure troppo velata – gli egoismi nazionali, i quali d’altronde ci ricordano, al loro periodico manifestarsi, come il processo di integrazione sia sempre aperto e di intensità variabile. Da molti punti di vista, la crisi pandemica può essere allora considerata come una cartina al tornasole per valutare il reale stato di salute delle istituzioni europee o, per lo meno, per cercare di avviare una riflessione più ponderata su alcuni aspetti che le caratterizzano, specialmente quelli che una retorica stantia e un atteggiamento pregiudizievole continuano a presentare in termini esclusivamente negativi e come inevitabili conseguenze di un sistema sovranazionale mai del tutto realizzato.
Uno di questi è certamente quello relativo all’antica polemica sulla tecnocrazia europea[1]. Il presente contributo cercherà di analizzarlo in relazione alle tendenze illiberali che ormai caratterizzano diversi paesi del mondo (Mounk, 2018) e che, nel Vecchio Continente, hanno un tratto distintivo proprio nella critica violenta nei confronti dell’élite tecnocratica di Bruxelles, che opererebbe in maniera illegittima perché svincolata da qualsiasi elezione popolare. Per molti versi, è una critica scontata perché effettivamente l’architettura dell’Unione europea è figlia di un’iniziativa promossa «dall’alto» che non prevede che ci debba essere un vincolo stretto tra l’attività istituzionale e il consenso dei cittadini.
La gestione dell’emergenza Covid-19 rappresenta un’importante occasione per tentare di elaborare una risposta efficace da contrapporre proprio alla retorica «illiberale» sull’illegittimità delle decisioni tecnocratiche, per trasformare quello che viene presentato come un limite dell’architettura europea nel perno di una contro-narrazione capace di enfatizzare e valorizzare il ruolo della competenza all’interno del policy-making europeo, specie nell’ottica di quella che si va delineando sempre più come una vera e propria geopolitica dell’expertise (Bruno, 2020b; 2020c). Pertanto, le prossime pagine inquadreranno le problematicità relative all’inclinazione illiberale che alcuni Stati europei hanno assunto negli ultimi anni (e che la gestione della pandemia ha ulteriormente accentuato) e metteranno in luce come la narrazione basata sulla scissione concettuale tra democrazia e liberalismo determini effettivamente – più o meno consapevolmente – un’enfasi della dimensione tecnocratica dell’Unione europea (cfr. Mudde, 2021). Quindi, cercheranno di evidenziare – anche attraverso il richiamo a esperienze extra-europee – come la gestione Covid-19 avrebbe potuto rappresentare l’occasione per l’Unione europea di fondare una contro-narrazione basata sulle competenze scientifiche e tecniche da porre alla base di un soft power capace di plasmare l’ordine geopolitico del futuro.