Al fermento ideologico che scosse l’Europa del diciannovesimo secolo si deve la produzione di numerosi saggi e manifesti politici; tra questi contenitori di inedite ricette per trasformare il mondo si nascondeva un ideale, quello della panarchia, a lungo dimenticato o posto ai margini del discorso filosofico-politico.
Tra le teorie che l’Ottocento ha visto fiorire le più celebri sono quelle del cosiddetto socialismo utopistico: l’imprenditore industriale gallese Robert Owen sperimentò la sua idea di socialismo di tipo associazionistico nella fiabesca comunità di New Harmony in Indiana, nel 1826. Il riformatore francese Charles Fourier escogitò una struttura sociale fondata su “falangi” (piccole comunità autonome) la cui particolarità era da individuarsi in una divisione del lavoro molto flessibile e dalla collettivizzazione dei suoi frutti. In un’inclinazione ancora più libertaria, l’attivista russo Michail Bakunin girò l’Europa in lungo e in largo per diffondere il suo ideale antistatalista, in cerca di un’occasione per far scoccare la scintilla rivoluzionaria; egli poneva al centro del suo discorso le masse contadine, bistrattate e nel migliore dei casi ignorate dalle élite locali.
Ma il padre dell’anarchia russa si scontrò con un altro gigante dell’Ottocento, Karl Marx, che vedeva nel proletariato industriale delle grandi periferie il seme per un rovesciamento dell’ordine costituito; furono lui, le sue idee e i suoi epigoni ad uscire in qualche modo “vincitori” dalla competizione che aveva preso vita nel laboratorio di sperimentazione ideologica che era l’Europa di quel tempo. I suoi scritti influenzarono generazioni di politici, dai primi partiti socialdemocratici fino a quelli che furono poi definiti “marxisti-leninisti”.
In quegli anni di grandi teorizzazioni ed esperimenti, nel multilinguistico Belgio due economisti avevano concepito una forma di anarchia ancora più radicale di quella di Bakunin o del rivoluzionario ucraino Nestor Machno: la panarchia. Non concepita come una semplice risposta all’anarco-comunismo, ma un prerequisito fondamentale per rendere l’uomo libero di auto-governarsi e scegliere quali regole seguire, questa disperata richiesta di libertà assoluta ebbe poco seguito anche tra i teorici più libertari. La teoria panarchica postula che ogni persona fisica dovrebbe essere libera di autodeterminare la propria vita politica; il monopolio esercitato dallo stato territoriale e i doveri nei suoi confronti sono considerati illegittimi, perché non sono stati accettati volontariamente dai cittadini. Il panarchico concepisce l’esistenza dello stato come una condizione da superare per raggiungerne una di non-territorialità, in cui i soggetti da ogni angolo della terra possono essere liberi di autogovernarsi o sottoscrivere un contratto che li renda soggetti unicamente alle regole del governo da loro scelto.
La panarchia è un’ideologia, ma anche il paradigma fondativo di un modo inedito di intendere la politica che, se trasposto dal mondo delle idee a quello reale, rivoluzionerebbe radicalmente l’intero ordine internazionale. Tuttavia, l’effettiva realizzazione di tale dottrina resta dubbia, in particolare da un punto di vista pratico. Se nella prefazione dell’antologia di recente pubblicazione Panarchia (De Bellis, 2017) la panarchia viene considerata una delle possibili soluzioni per domare le tensioni dovute al crescente multiculturalismo della nostra società, molteplici ostacoli a una sua applicazione rimangono evidenti.
Nel saggio Mille piani. Capitalismo e schizofrenia scritto a quattro mani dal filosofo francese Gilles Deleuze e dallo psicanalista Felix Guattari nel 1980, si fa cenno al fenomeno della deterritorializzazione in riferimento alla soggettività umana nel mondo capitalista “sviluppato”. Estendendo il concetto al campo della sociologia, questo descrive una contemporaneità di relazioni umane le quali hanno perso il loro legame con il locale, con il territorio in cui i soggetti si trovano fisicamente, ed ha allargato la propria dimensione sul più ampio e astratto livello globale. È anche partendo da questo concetto, e da quello più generico di globalizzazione culturale, che la panarchia può assumere un certo fascino.
L’adozione dei principi fondanti dello Stato-nazione moderno viene fatta risalire alla Pace di Vestfalia del 1648, l’evento storico con cui si poneva fine alle ostilità trentennali che avevano sconvolto l’equilibrio territoriale del continente europeo. Tuttavia, con i trattati firmati nella regione nord-orientale tedesca si posava solo l’ultima pietra di una costruzione che andava avanti da secoli, attraverso conflitti militari che accentravano sempre più poteri e ricchezze in territori delimitati. In particolare con la celebre espressione cuius regio eius religio, originaria della Pace di Augusta del 1555, si garantiva ai sovrani potere assoluto sulla fede dei loro sudditi e i territori che essi abitavano: rex in regno suo est imperator. Dal punto di vista delle relazioni internazionali, gli stati si riconoscevano reciprocamente come soggetti dal pari peso giuridico ai quali non era permesso interferire nei rispettivi affari interni.
Oggi i sostenitori della panarchia insistono sulla attuale crisi dello Stato-nazione vestfaliano per offrire la teoria come paradigma del “nuovo mondo” che verrà. Negli ultimi quarant’anni strumenti finanziari come obbligazioni, azioni e derivati hanno assunto una sempre maggiore importanza a scapito della cosiddetta economia reale, caratterizzata da investimenti sul territorio e compravendita di beni fisici; questo fenomeno, chiamato finanziarizzazione dell’economia, ha assicurato una maggiore indipendenza e libertà di movimento ai capitali e, di conseguenza, ha causato un ridimensionamento dei poteri statuali nel settore economico; nello stesso tempo, l’intensificazione dei flussi migratori ha modificato e continua a modificare la composizione etnica di stati o interi continenti, come nel caso europeo, mettendo alla prova le capacità di convivenza di culture differenti. Gli statici confini delle cartine politiche, dunque, fanno posto a quelli più fluidi e meno visibili dell’economia e della cultura, rendendo le dinamiche interne dipendenti da fattori extra-statali ed extra-territoriali che fanno capo a sviluppi non influenzabili in modo diretto: il reggente non è più in grado di imperare su tutti gli aspetti che riguardano il suo regno (Chomsky, 2015). Offrendo la possibilità di auto-governo ai cittadini, la panarchia vorrebbe garantire loro l’indipendenza da forze che non controllano e porre un argine alle tensioni generate dalla supremazia culturale che la “maggioranza etnica” di un determinato territorio esercita sulle minoranze. Ai panarchici va riconosciuto il merito di aver teorizzato un’alternativa politica allo stato vestfaliano, sempre più indebolito dalle forze globalizzanti. Tuttavia, come vedremo in seguito, l’applicazione della panarchia risulta difficile da immaginare, ed è quindi molto importante ricercare ulteriori strade che possano risultare convincenti non solo sulla carta, ma anche all’atto pratico.