Il futuro non è più quello di una volta.
Paul Valéry
Il vissuto quotidiano si organizza, in massima parte, intorno a coordinate esistenziali che si impongono in modo del tutto irriflesso. La potenza nomizzante delle reti simboliche a cui diamo nome di “società” deriva proprio da questo peculiare carattere non-problematico: in parole povere, ci appare naturale un mondo che – in ultima analisi – è interamente prodotto della cultura. In questo modo l’esperienza umana può dispiegarsi senza sprofondare, ad ogni piè sospinto, nell’abisso intollerabile del caos primigenio e dell’angoscia senza nome. Ognuno di noi abita dunque un universo che, per quanto passibile di un numero indefinito di interpretazioni, resiste dall’essere incessantemente revocato in dubbio. Ad esempio, se dobbiamo rivolgerci a un nostro caro – e al limite, se ci abbandoniamo a una conversazione interiore – non ci interroghiamo circa l’esistenza effettiva dell’oggetto cui rivolgiamo l’intenzione della nostra coscienza giacché esso per noi esiste e basta e, come tale, acquisisce uno statuto di realtà – per così dire – insindacabile: nostra madre è nostra madre; noi siamo noi; su questo non ci piove. È vero, d’altra parte, che questa “area di sicurezza” non può dirsi integralmente impermeabile a destabilizzanti infiltrazioni disgregatrici allorché alcuni eventi traumatici – che la fenomenologia definisce “situazioni marginali” – giungono a determinare lacerazioni dei quadri della realtà ordinaria: la morte, la malattia, il sogno squarciano il velo che la società – ben prima della nostra venuta in terra – accuratamente è venuto disponendo sul mondo. La persistenza dell’opacità e dell’integrità[1] di tale velo costituiscono per noi, poveri mortali, il sigillo della “sicurezza ontologica” (Giddens, 1999).
A ogni buon conto, una dimensione del tutto interiorizzata che irreggimenta l’essere-nel-mondo assurgendo a massimo principio ordinatore dell’esperienza umana, è certamente la modalità di percezione dello spazio e del tempo. A ben vedere, difatti, la struttura stessa della realtà – per come essa si impone alla nostra coscienza – si configura come un’architettura particolare di elementi spazio-temporali: l’edificio sociale che noi chiamiamo realtà prende forma, a voler semplificare, a seconda della disposizione di tali mattoni culturali. Un’analisi delle trasformazioni della percezione sociale dello spazio esula dagli obiettivi di questo breve articolo di converso, una sintetica introduzione ad un’indagine sociologica sul tempo, – poiché in fin dei conti qui si parla di “futuro” – si rivela indispensabile per una adeguata comprensione del tema cui questo saggio è dedicato.
Può essere utile, onde comprendere un tema così complesso, rinviare ad un esempio etimologico. Difatti, lo slittamento semantico che interessa in special modo alcuni concetti particolari, si dà come un prezioso indicatore delle più ampie trasformazioni socio-storiche, poiché queste, dialetticamente, investono i rispettivi universi discorsivi. Si pensi al termine “rivoluzione”. In origine esso designava, in ambito astronomico, il moto sempiterno ed eguale di un corpo celeste intorno alla medesima orbita: il massimo rivolgimento, in questo caso, si identificava nell’eterno ritorno dell’eguale. In seguito a capitali eventi socio-politici – è in questo caso imprescindibile il rimando alla Rivoluzione francese – tale concetto ha patito lo stesso destino che oggi si incarica di definire: il significato ha registrato – congiuntamente all’ancien régime retto dagli aristocratici e dalla Chiesa – un radicale capovolgimento. Viene infatti promulgata, insieme all’ascesa della classe borghese, la riforma della gerarchia dell’essere, quindi del vocabolario e – ciò che più interessa in questa sede – dell’organizzazione psico-sociale del flusso temporale. Non è certo un caso se ogni rivoluzione che voglia dirsi degna di questo nome pretende una ristrutturazione del Tempo per mezzo della fondazione di un nuovo calendario.