La politica europea per la ricerca sta assumendo sempre più importanza sia per il crescente budget che le viene conferito, sia per il contestuale calo dei budget di alcuni paesi europei, come più di ogni altro l’Italia, sia anche, infine, per l’orientamento generale che ispira nel continente, in una vasta e critica area di intervento che va dalla formazione alla ricerca e innovazione. Il mondo della scuola, dell’università, degli enti di ricerca e gran parte di quello dell’innovazione ne risultano influenzati in misura ormai quasi determinante. Dunque, la sua analisi ravvicinata ha un interesse sociale di primaria importanza per lo stato attuale dell’Unione e per il futuro dei suoi cittadini.
L’attuale politica della ricerca europea è frutto di esplicite decisioni politiche, negoziate tra i paesi membri dell’Unione, ma anche il risultato di una stratificazione storica derivante dal percorso, non sempre lineare e tuttora incompiuto, dell’integrazione europea.
Lo strumento principale di finanziamento alla ricerca scientifica è costituito dai Programmi Quadro, attivi da più di un trentennio. Prima di allora, le Comunità Europee avevano per scopo la costruzione di mercati interni unici nei rispettivi campi. Nei Trattati di Roma, che nel 1958 gettavano le basi per la collaborazione europea, non si faceva riferimento ad alcuna politica comune nel campo della ricerca scientifica: fino alla metà degli anni Settanta qualsiasi intervento fu realizzato ad hoc, legato a specifici settori (come agricoltura, energia atomica, sviluppo dell’industria del carbone e dell’acciaio) e frammentato. Solo all’inizio degli anni Ottanta il Primo Programma Quadro (1984-1987) e l’inclusione di un articolo specificamente dedicato alla ricerca scientifica comunitaria nell’Atto Unico Europeo (1986), aprirono a una politica della ricerca scientifica europea coerente e giuridicamente fondata (Guzzetti 1995). Nel passaggio agli anni Novanta il quadro politico cambiò notevolmente, e l’Europa si impegnò nelle negoziazioni per completare il mercato unico e raggiungere, anzi, l’unità politica, con la stipula del Trattato di Maastricht del 1992. In questo periodo nei Programmi Quadro (Terzo, dal 1990 al 1994 e Quarto, dal 1994 al 1998) comparirono, accanto agli obiettivi strettamente economici, altri di carattere sociale e politico più generale, come l’occupazione e le riforme strutturali, e in particolare il miglioramento delle competenze e delle conoscenze dei cittadini europei.
Lo stesso dibattito economico subì una trasformazione: l’enfasi passò in quegli anni dalla competitività all’innovazione. Quest’ultima venne riformulata passando da una visione lineare (ricerca di base à ricerca applicata à sviluppo à produzione e distribuzione) a una sistemica, che riconosceva il contributo apportato dalla complesse rete di relazioni tra tutti gli attori del sistema (scienziati, ingegneri e industrie, ma anche governi e istituzioni pubbliche e private), e attribuiva grande importanza alle condizioni macroeconomiche, strutturali e di regolamentazione presenti. Ai politici dunque era richiesto non solo di sostenere lo sviluppo di nuove tecnologie, ma anche di creare le giuste condizioni “ambientali” per la realizzazione dell’innovazione. La Commissione Europea entrò nel dibattito nel 1995 con il Libro Verde sull’Innovazione, in cui il termine “innovazione” era inteso come
a synonym for the successful production, assimilation and exploitation of novelty in the economic and social spheres. It offers new solutions to problems and thus makes it possible to meet the needs of both the individuals and society. (Commissione Europea, 1995; grassetto nell’originale)
L’innovazione, qui, era dunque concepita come prevalentemente economica e si assumeva che le “nuove soluzioni” generate avrebbero migliorato ipso facto non solo le condizioni economiche, ma anche quelle più generali «degli individui e della società».
Al cambio di millennio, però, un nuovo concetto chiave si affermò come mainstream nella politica europea: l’ambizione a realizzare una società (e specialmente un’economia) “della conoscenza”. Il nuovo orientamento era stato promosso dall’osservazione dei progressi in settori scientifici ad alta intensità di conoscenza come informatica, biotecnologie e, almeno in prospettiva, nanotecnologie: le novità provenivano tuttavia soprattutto da fuori Europa, mentre scienza e tecnologia europee erano considerate deboli riguardo alla loro capacità di tradurre velocemente gli eccellenti risultati scientifici in nuovi prodotti, processi e servizi (il cosiddetto “paradosso Europeo”, già evidenziato dal Libro Verde). D’altro canto, la riflessione teorica sull’evoluzione della società contemporanea verso una società basata sulla conoscenza era presente da alcuni decenni nel dibattito sociologico, anche se con sensibilità sociali più forti e con caratteristiche più complesse di quanto appaia nella ricezione della teoria nei documenti delle policies europee.
Verso la fine degli anni Novanta, l’Europa dedicò molti sforzi al potenziamento del cosiddetto “triangolo della conoscenza” – ricerca, educazione e innovazione. Nel 1999, con la Dichiarazione di Bologna, fu creata un’Area Europea dell’Educazione Superiore all’interno della quale gli standard educativi fossero confrontabili, mentre l’anno successivo fu lanciata la proposta di una European Research Area (Commissione Europea, 2000) per superare la frammentazione del sistema di ricerca europeo tramite la costituzione di reti dei centri d’eccellenza e incentivando la coerenza fra loro degli schemi di finanziamento nazionali e comunitari.
La nuova strategia europea per il primo decennio del Millennio fu lanciata al Consiglio Europeo di Lisbona nel marzo 2000:
The Union has today set itself a new strategic goal for the next decade: to become the most competitive and dynamic knowledge-based economy in the world capable of sustainable economic growth with more and better jobs and greater social cohesion. (Consiglio Europeo, 2000; grassetto e corsivo nell’originale).
Lo strumento pratico con cui trasformare l’Europa in una «economia basata sulla conoscenza» fu individuato nell’obiettivo di giungere entro il 2010 a destinare il 3% del PIL complessivo europeo ad attività di ricerca e sviluppo, due terzi del quale provenienti dal settore privato (Consiglio Europeo, 2002).
Tuttavia, se nel marzo 2000 il Consiglio Europeo poteva contare sul «miglior contesto macroeconomico di tutta una generazione» (Consiglio Europeo, 2000), di lì a poco il crollo della “new economy” e l’incrinarsi delle condizioni economiche in seguito alle crisi finanziarie avrebbero peggiorato le aspettative, e richiesto una rielaborazione completa della strategia di Lisbona. Una serie di analisi economiche furono commissionate a diversi High Level Expert Groups, con il compito di valutare la realizzazione della strategia di Lisbona: grande ne è stata l’influenza sull’evoluzione successiva della politica europea della ricerca. Esaminiamoli dunque più da vicino.
Il primo di questi report, commissionato nel 2003 a un gruppo di esperti guidato dall’economista belga André Sapir, identificava nella crescita la base non soltanto per lo sviluppo economico europeo, ma anche per l’integrazione degli stati membri e per il posizionamento strategico nel Mediterraneo e nel mondo (Sapir et al., 2003). E diagnosticava inoltre:
The Group views Europe’s unsatisfactory growth performance during the last decades as a symptom of its failure to transform into an innovation-based economy.
L’anno successivo un altro gruppo di esperti coordinati dall’ex primo ministro olandese Wim Kok presentava la valutazione di medio termine della strategia di Lisbona, un’analisi di carattere ora spiccatamente economico in cui identificava alcune aree di urgente intervento: la società della conoscenza, il mercato interno, il clima per le imprese, il mercato del lavoro, la sostenibilità ambientale (Kok et al., 2004).
Nel 2006, il Report Aho completava la transizione dall’approccio integrato politico-socio-economico, tipico dei pronunciamenti della seconda metà degli anni Novanta e dell’inizio del millennio, all’orientamento marcatamente economico-pragmatico: per l’Europa l’obiettivo principale non era già più quello di costruire una “società della conoscenza”, quanto quello di «creare un’Europa dell’innovazione»:
This report presents a strategy to create an Innovative Europe. Achieving this requires a combination of a market for innovative goods and services, focussed resources, new financial structures and mobility of people, money and organisations. Together these constitute a paradigm shift going well beyond the narrow domain of R&D and innovation policy (Aho et al., 2006).
La parabola europea che era iniziata con le Comunità Economiche, e si stava ora sviluppando in una società della conoscenza, ritornava sui suoi passi e proponeva una “Europa dell’innovazione” intesa, evidentemente, in senso strettamente economico.
La politica europea della scienza del futuro
Nonostante le raccomandazioni dei gruppi di esperti, la strategia di Lisbona fu dichiarata un “fallimento” nel 2009 dal primo ministro della Svezia, paese che di lì a poco avrebbe ricoperto la presidenza di turno del Consiglio Europeo (Reinfeldt e Borg, 2009). Si iniziò pertanto, anche sulla scorta delle indicazioni apparse nei report, a preparare la nuova strategia per la ricerca europea, che sarebbe stata lanciata nel 2014 tramite un nuovo Programma Quadro che prometteva di rappresentare «una rottura col passato».
Horizon 2020 è definita sul sito web della Commissione Europea come «lo strumento finanziario di attuazione di una “Unione dell’Innovazione”, iniziativa bandiera della strategia Europa 2020 volta ad assicurare la competitività globale dell’Europa» (Commissione Europea, 2014b). Il programma vene presentato, quindi, in un frame ormai esclusivamente economico. Ancora più esplicito è il video prodotto dalla stessa Commissione per descriverne in tre minuti i principi (Commissione Europea, 2014a). D’altronde, sappiamo bene, la comunicazione rivela sempre più di quello che si vorrebbe espressamente comunicare. Nel video la conoscenza è definita come «una valuta», che bisogna essere abbastanza furbi da volgere a nostro favore, e il problema è accelerarne il trasferimento «dal laboratorio al mercato, più velocemente di quanto chiunque possa mai avere sognato in Europa». Per giunta, il naturale miglioramento della qualità della vita risultante direttamente dallo sviluppo economico e tecnologico è nel video rappresentato come una famiglia felice attorno al carrello del supermercato. Per eliminare ogni dubbio sul significato del termine “mercato”.
Anche laddove non è palesato, si intuisce chiaramente l’arrivo nelle politiche europee di una cultura orientata al New Public Management, per altro una novità risalente agli anni Ottanta del secolo scorso. Le perplessità sollevate dal dibattito teorico in letteratura e dalle stesse sperimentazioni in giro per il mondo nel corso dei decenni precedenti dovrebbero suscitare qualche cautela in più riguardo la sua applicazione, che viene imposta dall’alto alle istituzioni della conoscenza (scuole, università, enti di ricerca). Sarebbe auspicabile qualche supplemento di analisi scientifica per assicurare l’efficienza promessa e, ancora più, l’efficacia divenuta ormai indispensabile per il buon funzionamento di una società della conoscenza, soprattutto se la intendiamo come democratic science-based society, e non come un (super)mercato di gadget tecnologici.
In effetti, la concezione performativa che impregna di sé le policies non è solo affetta da un vistoso riduzionismo economicistico, ma propone anche una visione anti-intellettualistica che schiaccia la conoscenza su una dimensione dell’utile immediato, non solo trascurando la partecipazione attiva dei cittadini alle scelte più rilevanti ma addirittura minando le basi della scienza, ovvero la ricerca di base i cui traguardi e tempi sono incerti per definizione. Quelli che un tempo erano i valori orientativi delle policies tipici della modernità – il progresso della conoscenza e delle condizioni di vita – vengono sostituiti progressivamente da un’innovazione esogena avvolta in un’aura magica e ineluttabile, la cui realizzazione si traduce nella sua passiva quanto ossequiosa adozione. Stride questa sorta di misticismo dell’innovazione con il praticismo antintellettualistico che riscontriamo nell’approccio alle politiche scientifiche; ma forse non più di tanto, trattandosi a ben riflettere di due speculari riduzionismi.
I cittadini, ancorché contabilizzati in un servizio pre/post-vendita, sono in realtà all’origine di una creatività non solo imprevedibile dalle stanze del policy making, ma anche trainante dello sviluppo delle tecnologie (communities of practice, knowing communities). È così che lo stesso processo di innovazione diviene un fantasma semplicistico, rappresentato da un irrealistico modello lineare, destituito ormai di ogni fondamento scientifico. Sarebbe da chiedersi che cosa sia rimasto dello spirito di quel Manoscritto di Ventotene che individuava la necessità di porre le basi affinché «le libertà politiche potranno veramente avere un contenuto concreto e non solo formale per tutti, in quanto la massa dei cittadini avrà una indipendenza ed una conoscenza sufficiente per esercitare un efficace e continuo controllo sulla classe governante» (Spinelli e Rossi, 2006). Democrazia e conoscenza erano già allora chiaramente individuati quale binomio essenziale per un’Europa «libera e unita».
Lo spirito di Lisbona che aleggiava dietro al concetto di knowledge-society, come abbiamo visto, è andato offuscato da derive che non sono meramente lessicali, ma profondamente culturali. Ecco che abbiamo, dunque, lo scivolamento verso la knowledge-economy, focalizzata sulla pronta e immediata valorizzazione monetaria di una nuova conoscenza, ridotta a commodity, piuttosto che promossa come common good. È dunque il suo mercato a stabilirne il valore, nei tempi e nei modi del (turbo)capitalismo contemporaneo, piuttosto che una governance democratica. Anche il concetto di information-society, d’altra parte, presenta i suoi rischi di riduzionismo, poiché tende a ridurre la conoscenza a bits trasferibili da luogo a luogo, da operatore a operatore, da macchina a macchina. Il mondo umanissimo dei significati viene, allora, “messo in parentesi” e le logiche pratiche che strutturano il cambiamento sociale cadono in un’ombra che li sottrae alla partecipazione dei cittadini per consegnarli alle logiche del business informatico lasciato al laissez-faire. E la clausola odierna dell’Unione dell’Innovazione, la carta d’identità con la quale l’Europa intende presentarsi dinnanzi a se stessa e al mondo, esalta tutte queste tendenze riduzionistiche, riducendo l’innovazione, ovvero il processo sociale entro la quale l’invenzione individuale trova la sua realizzazione, all’opera di un innovatore sorto spontaneamente e verso il quale la società (lo Stato, innanzi tutto) non deve far altro che assecondarne l’opera. La formazione dei cittadini diviene l’avviamento professionale ricco solo di skills immediatamente spendibili in un mondo del lavoro attuale quanto caduco, sotto i colpi della medesima innovazione che si vorrebbe invece dispiegare. La scelta politica generale, più o meno esplicita, è già fatta: lo Stato è ridotto a “Stato minimo”, e la Società, ovviamente, “non esiste”. Non è dunque un caso che il budget europeo assegnato alla scienza sociale venga drasticamente ridotto; i progetti scientifici vengano stretti nelle logiche di un ‘servizio sociale’ ridotto al ruolo di assecondamento delle logiche dominanti, alla logica di “oliare la macchina”. E farlo in fretta.
Il frame dell’urgenza e lo short-termism
Uno dei tratti più forti, e politicamente rilevanti, che accompagnano la transizione da Europa della conoscenza a Unione dell’Innovazione, preparata dai report di valutazione della strategia di Lisbona, è l’accentuarsi del senso di urgenza: se il report Sapir, pur insistendo sulla necessità di aumentare la crescita economica, soltanto poche volte ne dichiarava l’impellenza (Sapir et al., 2003; pp. 4, 112, 115, 133), il successivo affermava già nell’introduzione (Kok et al., 2004):
The Lisbon strategy is even more urgent today as the growth gap with North America and Asia has widened, while Europe must meet the combined challenges of low population growth and ageing. Time is running out and there can be no room for complacency. Better implementation is needed now to make up for lost time
per poi argomentare:
Should the 2010 deadline be lifted? Again no. The 2010 deadline is important for signalling and reinforcing the urgent need for action. Setting a new, later deadline would imply that the situation is now less urgent and thus would be wrong.
Nel 2006 il report Aho spingeva il frame dell’urgenza ancora più in là:
Europe and its citizens should realise that their way of life is under threat but also that the path to prosperity through research and innovation is open if large scale action is taken now by their leaders before it is too late (Aho et al., 2006; grassetto nell’originale).
Chiaramente, in tempi di latente crisi (la crisi vera e propria sarebbe cominciata solo nel 2008), può apparire naturale infondere un senso di urgenza alle proprie argomentazioni. Ma si tratta solo di un’arma retorica, i cui effetti sono ben noti agli studi storico-umanistici e delle scienze politico-sociali. Il frame dell’urgenza risulta particolarmente funzionale a sospendere gli approfondimenti sulle policies, specialmente se non di natura tecnica, a favore di un approccio più “pragmatico” e solo apparentemente neutro:
There is a large gap between the rhetoric of a political system that preaches the knowledge society and the reality of budgetary and other priorities that have shown little shift in preparing to engage with it. Our emphasis is on remedies not diagnosis but we must also recognize the magnitude of the problem. There are many indicators both of insufficient effort to innovate and of the consequences of not doing so… (Aho et al., 2006).
Ma lo short-termism (Cerroni, 2012) è un artificio retorico molto pericoloso, perché limita lo sguardo prospettico vero il futuro, oscura la memoria del passato e fa perdere la profondità dell’innovazione: il presente finisce per essere vittima sacrificale degli ingranaggi più consolidati.
Nella clausola “rimedi, non diagnosi”, slogan indubbiamente di una certa efficacia retorica, si coglie persino un’eco della più riduzionistica lettura di un famoso passaggio marxiano, ben al di là di una sua corretta interpretazione, in base alla quale si tratterebbe di cambiare il mondo invece che di conoscerlo. Ma noi ci ostineremmo a volerlo conoscere e, se del caso, cambiarlo. I rimedi vanno sempre posti sotto il giudizio dell’analisi. E allora, continuiamo la nostra analisi dei report.
Per la verità, altri ne furono sviluppati negli stessi anni su iniziativa della stessa Commissione, con contenuti e impostazioni assai differenti, ma non fu data loro la stessa visibilità e contribuirono in maniera trascurabile a influenzare le politiche. Ad esempio, si possono considerare il report Strauss-Kahn et al. (2004), incentrato sulla formulazione di una nuova “visione” trainante per l’Europa – di tenore quindi molto meno pragmatico ma più politico e a lungo termine –, o il report Taking European Knowledge Society Seriously (Felt et al., 2007), commissionato per far luce sul – presunto, come dimostrerà il report – disagio dei cittadini nei confronti della scienza. Quest’ultimo, tra le altre cose, offriva un avvertimento riguardo all’utilizzo strumentale della retorica dell’urgenza, come profondamente legata a un modello di sviluppo competitivo in cui la partecipazione dei cittadini alle decisioni non trova alcun posto:
The economics of technoscientific promise is associated with a diagnosis that we are in a world competition and that Europe will not be able to afford its social model if it is not in the race. Given the cumulative effects of technological development, there is a strong sense of urgency: those who are late won’t have any place; there is only place for winners. There is no role for civil society other than as a collection of prospective customers. This view is not specifically European; as the USA National Science Foundation report on Converging Technologies (June 2002, Rocco & Bainbridge 2004) phrases it: “we must move forward if we are not to fall behind”.
All’interno dello stesso frame dell’urgenza, si capisce come non sia dato tanto valore alla programmazione politica a lungo termine, quanto invece a misure in grado di ottenere effetti immediati o comunque in un breve lasso di tempo. Così si giunge, in Horizon2020, a qualificare la velocità di trasferimento “dal laboratorio al mercato” come una delle caratteristiche più brillanti del nuovo programma, come è iconicamente mostrato nel video di presentazione del programma (Commissione Europea, 2014a).
Nei Programmi Quadro possiamo notare negli ultimi anni una palese tendenza alla riduzione dello spazio e dell’ambizione degli obiettivi per la ricerca nelle scienze sociali e più in generale un trattamento mortificante della ricerca di base, libera di spaziare purché sia “innovativa” (Commissione Europea, 2014a), cioè funzionale. Quando il futuro si accorcia, lo spazio di cittadinanza si restringe.
Questione di cittadinanza
L’ondata di proteste degli anni Novanta nei confronti della governance europea, specialmente sui temi legati alla gestione dei rischi sanitari e ambientali (basti pensare alla crisi della mucca pazza o alle proteste riguardo alla regolamentazione degli OGM in Europa), diedero avvio a un dibattito riguardo al “calo di fiducia” dei cittadini nelle istituzioni europee e alla necessità di una riforma della governance europea nella direzione dell’inclusione dei cittadini. Il risultato fu il Libro Bianco sulla Governance del 2001, in cui furono affermati i principi di trasparenza delle decisioni, apertura delle istituzioni e maggiore coinvolgimento dei cittadini (Commissione Europea, 2001). La nuova apertura politica fu mantenuta nel Sesto Programma Quadro (2002-2006), in cui si evidenzia l’apertura di una linea di finanziamento specificamente dedicata a «cittadini e governance in una società basata sulla conoscenza» e un generale cambiamento della retorica con cui vengono caratterizzati gli abitanti europei, meno “utenti” o “consumatori” e più “cittadini”.
Nei report che abbiamo esaminato, tuttavia, l’impostazione del Libro Bianco viene progressivamente meno, in parallelo all’aumentare dell’impostazione tecnico-economica dell’analisi. I cittadini sono piuttosto considerati come “ostacoli” al processo innovatore, poiché cronicamente ostili al cambiamento, o non sufficientemente esperti per cogliere la gravità della situazione:
The need for reform has to be explained especially to citizens who are not always aware of the urgency and scale of the situation. ‘Competitiveness’ is not just some dry economic indicator that is often unintelligible to the man in the street; rather, it provides a diagnosis of the state of economic health of a country or a region. In the present circumstances, the clear message must be: if we want to preserve and improve our social model we have to adapt: it is not too late to change. In any event the status quo is not an option (Kock et al., 2004).
Il report Aho arriva ad auspicare un «cambio di paradigma che vada ben oltre lo stretto dominio delle politiche per ricerca, sviluppo e innovazione», che includa al proprio cuore la promozione di una «cultura che celebri l’innovazione»:
[Key steps to create lead markets: (…)] Foster a cultural shift which celebrates innovation and a desire to possess innovative goods and experience innovative services, such that Europe develops as a natural home for innovators (Aho et al., 2006).
Per creare tale cultura nei cittadini, il gruppo di esperti non esita a suggerire l’uso orientato – e potenzialmente manipolatorio – dei media:
[At the core of our recommendations is the need for Europe to provide an innovation-friendly market for the creative outputs of its businesses and to gear the Internal Market in this direction. This needs: (…)] a cultural shift which celebrates innovation, using the media and other means to encourage citizens to embrace innovative goods and services.
Tale mortificazione delle autonome capacità dei cittadini di contribuire all’impostazione del discorso pubblico non va certamente nella direzione auspicata dal Libro Bianco del 2001 e sfida gli stessi presupposti democratici dell’Unione. Un nodo fondamentale riguardo alla ‘costruzione’ degli atteggiamenti politici dei cittadini è senz’altro nelle politiche dei sistemi educativi, avvenuta anch’essa attorno al cambio del millennio, ma non è questa la sede.
Conclusioni
Le narrazioni politiche di fondo che abbiamo identificato nella science policy europea tramite l’analisi di alcuni significativi documenti costituiscono nodi critici per l’esercizio di una piena cittadinanza scientifica europea, evidenziando una tensione di fondo tra la volontà politica di coinvolgere i cittadini nel decision-making e quella di stabilire contenuti e metodi della politica scientifica il più possibile a monte dell’arena pubblica. Tali narrazioni contribuiscono a opacizzare il processo di decision-making europeo, e vanno, perciò, esplicitate onde ricondurre il fondamento dell’Unione Europea e delle politiche per il suo futuro nel campo dell’opzione politica, che è in potere solo dei suoi cittadini.
Parte di questo progetto di ricerca è stato finanziato dal Marie Curie Early Initial Training Network del Settimo Programma Quadro della Comunità Europea (numero di contratto PITN-GA-2011-289355-PicoSEC-MCNet). Le opinioni qui espresso sono quelle degli autori e non rispecchiano necessariamente quelle del Network e/o della Commissione Europea.
Per approfondire:
- Aho E. (a cura di), Creating an Innovative Europe – Report of the Independent Expert Group on R&D and Innovation appointed following the Hampton Court Summit and chaired by Mr. Esko Aho, Bruxelles, 2006.
- Borrás S., Science, technology and innovation in European Politics – Working Paper, Roskilde University, 2000.
- Borrás S. e Radaelli C.M., The politics of governance architectures: creation, change and effects of the EU Lisbon Strategy, in “Journal of European Public Policy”, vol. 18 n. 4, 2011.
- Caracostas P. e Muldur, U., Society, the endless frontier. A European Vision of Research and Innovation Policies for the 21st Century, Lussemburgo, 1998.
- Cerroni A., Il futuro oggi. Immaginazione sociologica e innovazione: una mappa fra miti antichi e moderni, Milano, Franco Angeli, 2012.
- Consiglio Europeo, Barcelona European Council 15-16.03.2002: Conclusions of the Presidency, 2002.
- Consiglio Europeo, Lisbon European Council 23-24.03.2000: Conclusions of the Presidency, 2000.
- Commissione Europea, Green Paper on Innovation, Bruxelles, 1995.
- Commissione Europea, Communication from the Commission to the Council, the European Parliament, the Economic and Social Committee and the Committee of teh Regions – Towards a European research area (COM(2000) 6 final), Bruxelles, 2000.
- Commissione Europea, European governance – A White Paper – COM(2001) 428 final, Bruxelles, 2001.
- Commissione Europea, Horizon 2020 video – General overview – European Commission, 2014: http://ec.europa.eu/programmes/horizon2020/en/news/horizon-2020-video-general-overview.
- Commissione Europea, What is Horizon 2020?, 2014: http://ec.europa.eu/programmes/horizon2020/en/what-horizon-2020.
- Felt U. (a cura di), Taking European Knowledge Society Seriously. Report of the Expert Group on Science and Governance to the Science, Economy and Society Directorate, Directorate-General for Research, Commissione Europea, Bruxelles, 2007.
- Guzzetti L., A Brief History of European Union Research Policy, Directorate-General for Research and Innovation, 1995.
- Jasanoff S., The Fifth Branch: Science Advisers as Policymakers, Harvard University Press, Cambridge (USA), 1994.
- Kok W. (a cura di), Facing the challenge – The Lisbon strategy for growth and employment, Report from the High Level Group chaired by Wim Kok, Bruxelles, 2004.
- Muldur U., Corvers F., Delanghe H., Dratwa J., Heimberger D., Sloan B., Vanslembrouck S., A New Deal for an Effective European Research Policy – The Design and Impacts, Springer, Berlino, 2006.
- Reinfeldt F. e Borg, A., EU:s tillväxtstrategi är ett misslyckande, “DN.se”, 1° giugno 2009: http://www.dn.se/debatt/eus-tillvaxtstrategi-ar-ett-misslyckande.
- Sapir A. (a cura di), An Agenda for a Growing Europe. Making the EU Economic System Deliver, Report of an Independent High-Level Study Group established on the initiative of the President of the European Commission, Bruxelles, 2003.
- Spinelli A. e Rossi E., Il manifesto di Ventotene, Mondadori, Milano, 2006.
- Stajano A., Research, Quality, Competitiveness – European Union, Springer, New York, 2009.
- Strauss-Kahn D. (a cura di), Building a Political Europe – 50 proposals for tomorrow’s Europe, Bruxelles, 2004.