Le infinite declinazioni del futuro sono un tema di indubbio interesse. Una riflessione scientifica su di essi è, però, relativamente recente. Questo potrebbe stupire, se non considerassimo che si tratta della più recente (e forse più controversa) scaturigine della più vasta riflessione sul concetto di tempo. Oggetto, quest’ultimo, della meditazione teologica, filosofica, scientifica, artistica, in una parola, umana, nei secoli. Una riflessione ancora oggi viva e tutt’altro che giunta ad una conclusione. Il tempo è tema presente già nella mitologia greca, sulla quale si strutturano tutti gli archetipi alla base del pensiero occidentale; ai filosofi presocratici dobbiamo l’intuizione del rapporto del tempo con lo spazio (si pensi al paradosso di Zenone). Forse, se fosse stata recepita la lezione di Elea, oggi sarebbe più semplice immaginare lo spazio-tempo einsteniano. Sappiamo che nelle culture antiche prevaleva una concezione del tempo di tipo circolare (sopravvissuta ai giorni nostri), legata ai ritmi della natura che sempre si ripetono, e che i primi accenni a noi pervenuti di una concezione di tipo lineare del tempo, che introduce la dimensione del futuro nel concetto di tempo – e nella civiltà umana – si trovano nella Torah (Eliade, 1956; Sue, 2001; Davies, 1996). La concezione lineare del tempo sarà ereditata dalle successive grandi religioni monoteiste, il cristianesimo e poi l’islamismo. È nota la riflessione di Sant’Agostino[1], che descrive mirabilmente la difficoltà di definire “cosa sia” il tempo, sfuggente ma così presente nell’esperienza di tutti – ed interiorizzato al punto che non si può dubitare della sua esistenza. Se per Agostino il tempo trova la sua connotazione nel contesto delle azioni umane, molti secoli dopo Immanuel Kant, nell’Estetica trascendentale (1781), pone tempo e spazio al di fuori della percezione sensibile: si tratta di forme pure dell’intelletto, e solo attraverso di esse è possibile la conoscenza sensibile.
La questione si complica ulteriormente da quando la riflessione scientifica diviene autonoma rispetto alla filosofia ed alla teologia. Fondamentale il contributo della termodinamica, in particolare per la distinzione (basata sul concetto di entropia) posta da tale scienza tra processi reversibili e processi irreversibili. Dalla fine del XIX secolo, si può parlare di un salto paradigmatico rispetto alla fisica newtoniana, grazie alla scoperta delle strutture dissipative, che rendono la “freccia del tempo” un elemento imprescindibile per tutte le successive generazioni di studiosi (Prigogine e Stengers, 1999); per non parlare dello spazio-tempo di Einstein, che mette in discussione il tempo come entità autonoma. Il breve excursus non esaurisce la storia della riflessione umana sul tempo, ma aiuta ad affrontare meglio la domanda: se l’umanità riflette su cosa sia il tempo praticamente da millenni, perché ha tardato così tanto a ragionare sui “futuri”?
La mia risposta chiama in causa, in modo sui generis, un concetto sociologico, ovvero quello di “etnocentrismo” (Sumner, 1906): in grandi linee, la tendenza a valutare culture “altre” esclusivamente attraverso i propri parametri culturali. Ora, considerare “strano” che nelle culture del passato (nostra compresa) un’idea di futuro in termini di progresso, in quanto spazio di azione e decisione sia arrivata molto tardi, equivale ad essere “etnocentrici temporali”. Equivale a presupporre (erroneamente) che il futuro sia sempre stato concepito nello stesso modo di oggi e a dimenticare che ogni cultura funziona come una “lente concettuale”: quello che oggi noi vediamo e che per noi è vero (=il concetto di futuro come spazio d’azione) per un antico romano, per un pensatore del Rinascimento, così come per un filosofo dell’Illuminismo non era tale. Di fatto, la concezione a tutt’oggi diffusa va fatta risalire al tempo della Rivoluzione Industriale; sono le “magnifiche sorti e progressive” sulle quali ironizza Giacomo Leopardi ne La ginestra o il fiore del deserto (1835, verso 51). Non a caso, in questo stesso periodo la riflessione sulla società si fa scienza empirica, con la nascita, in Francia, della sociologia. Non deve, a maggior ragione, stupire l’ulteriore ritardo del passaggio dalla concezione di futuro “unico e monodirezionale” a quella di futuro come ventaglio di possibilità: dal futuro ai futuri. Concezione, peraltro, non necessariamente considerata da tutta la comunità intellettuale come moltiplicazione delle possibilità di intervento e di azione: non lo è nella riflessione postmoderna che si ispira alla filosofia esistenzialista – in particolare, a Nietsche, o a Martin Heidegger.