Il coinvolgimento della Tunisia nelle rivolte del 2010, note come Primavere Arabe (Cantaro, 2012; Tlili, 2012), ha sorpreso gli osservatori: considerato un paese istituzionalmente stabile, religiosamente moderato, politicamente pacificato, la Tunisia non era associata alla possibilità di movimenti sociali tali da sovvertire le istituzioni governative, di fatto al potere da quando il paese aveva ottenuto l’indipendenza dal protettorato francese nel 1956, meno che mai di diventare un riferimento per i paesi vicini nei mesi immediatamente successivi agli eventi. È proprio in Tunisia, invece, che le rivolte sono scoppiate, tra il dicembre 2010 e il gennaio 2011, con una durata di meno di un anno – Ben Ali lascia il paese già nella prima parte del gennaio 2011 – e innescando un processo di transizione democratica, per quanto accidentato (per un’analisi più ampia delle rivolte e delle loro conseguenze cfr. Sebastiani, 2014).
La possibilità che in questo processo trovino risposta le istanze dei rivoltosi – riassumibili nello slogan “pane, libertà e dignità” – è estremamente fragile e non solo perché l’esperienza tunisina è isolata rispetto agli altri paesi dell’area coinvolti in vario modo da cambiamenti politici e di regime. L’economia del paese, infatti, stenta a decollare, soprattutto dopo che i recenti attacchi dei gruppi jihadisti al museo del Bardo di Tunisi e alla spiaggia di Sousse hanno compromesso il settore turistico, innestandosi su un quadro già compromesso dalla incapacità del governo di Ennahda di guidare l’agognata crescita sociale ed economica del paese. Nello stesso tempo, la visibilità, legata, anche a eventi violenti, dell’islam più estremista, rischia di mettere in pericolo quello che, secondo molti analisti, è stato finora l’unico vero risultato delle rivolte, l’apertura dello spazio pubblico alla libertà di parola e di espressione, a livello sia istituzionale che sociale.
All’interno di questo spazio pubblico ri-aperto, uno dei dibattiti più vitali ha riguardato gli elementi e le caratteristiche identitarie e di appartenenza di un paese, liberato da narrazioni eterodirette e centralizzate, che avevano nel tempo finito per monopolizzare la definizione del suo carattere e della sua cultura politica, sociale e religiosa. L’articolo propone alcune riflessioni preliminari relative a tale dibattito e alle proiezioni della Tunisia del futuro a esso collegate, sottolineando, in particolare, il ruolo che nelle immagini che ne derivano hanno elementi del passato remoto, rielaborati attraverso un doppio processo di invenzione della tradizione (Ranger e Hobsbawm, 1987) e di selezione delle tracce del passato ai fini della costruzione di una rinnovata memoria sociale (Jedlowski, 2000). Le osservazioni che seguono si basano sui risultati iniziali di una ricerca più ampia realizzata in diverse zone della Tunisia, sia rurali che metropolitane – Tunisi, Enfidha, Bicetre e Tozeur – coinvolte e influenzate in modi e gradi differenti dalle politiche dei governi precedenti e dalle rivolte del 2010-2011 e dalle loro conseguenze. L’indagine è stata realizzata tra il gennaio e il febbraio 2015, dopo pochi mesi dalle elezioni politiche e presidenziali vinte dal partito Nida Tunes (Chiamata alla Tunisia) e dal suo candidato e fondatore Beji Cadi Essebsi, un periodo nel quale, quindi, il dibattito sulla Tunisia del futuro era particolarmente cogente. Essa ha coinvolto circa 40 persone, tra cui rappresentanti di partiti politici e di ONG, accademici, artisti, attivisti dei diritti umani, che, attraverso interviste semi-strutturate, hanno espresso il proprio sentire rispetto all’esperienza rivoluzionaria, ai suoi risultati e aspettative per il futuro del paese. L’età degli intervistati è eterogenea, con una media di 30-35 anni, un elemento importante nella valutazione degli elementi di continuità e di discontinuità discorsiva sotto il profilo generazionale.
La ri-apertura dello spazio pubblico nella Tunisia post-rivoluzionaria
L’evidenza e la conseguenza più immediata delle rivolte tunisine è stata la riappropriazione dello spazio pubblico da parte di quelli che Mejri and Haji (2013) chiamano i dittatoriati, un neologismo che indica un insieme di persone eterogeneo per caratteristiche e posizioni sociali, economiche, culturali, accumunate dall’essere state nel tempo schiacciate ai margini della sfera pubblica dal regime centrale, che, organizzate in “non movimenti sociali”[1], avevano per la prima volta avuto la possibilità di esprimere pienamente le proprie soggettività. L’espressione di queste ultime ha trovato forme e declinazioni diverse, dal punto di vista simbolico e fisico, riproducendosi attraverso network spesso informali, al di là e al di fuori delle narrazioni dominanti ed eterodirette, che riducendo l’area al binomio oppositivo islam e modernità, legittimavano discorsivamente il potere degli stati neo-patriarcali post-coloniali (in particolare si vedano le forme artistiche di espressione e di riappropriazione della sfera pubblica come l’hip-hop di cui parla Filali Ansary, 2012, o lo street painting descritto da Korody, 2011. Per un quadro più ampio cfr. Allam, 2013). Tale potere è tradizionalmente fondato su una linea egemonica, che trasla e proietta il potere di Dio sui suoi credenti, del governante sui suoi sudditi, del padre sulla sua famiglia (Moghadam, 1992). Come rileva Sharabi, tra Dio e credenti governanti e governati e tra padri e figli ci sono solo relazioni verticali, attraverso le quali si esercita un potere assoluto trasmesso, nella società e nella famiglia, attraverso un consenso forzato basato sul rituale e la coercizione. La capacità di controllo e la pervasività del potere del governo, secondo Sharabi, è ribadita continuamente dall’azione dei suoi apparati di sicurezza interna, i mukhabara, definiti «l’aspetto più avanzato e funzionale dello stato neo-patriarcale»: «Nella pratica sociale, i cittadini ordinari non solo sono arbitrariamente deprivati di alcuni dei loro diritti fondamentali, ma sono virtualmente prigionieri dello stato, oggetto della sua violenza capricciosa e onnipresente… Da molti punti di vista, non è altro che una versione modernizzata del sultanato patriarcale classico» (Sharabi, 1988).
Proprio gli assi costitutivi del potere degli stati neo-patriarcali sono stati l’obiettivo primario di quella che Sebastiani (2014) definisce “la riconquista dello spazio pubblico” tunisino, un’invasione che ha determinato la costruzione di un nuovo spazio di libertà di parola e di espressione, una libertà che ha una dimensione istituzionale – riconosciuta dagli articoli 31 e 32 della nuova costituzione, e sancita dal riconoscimento della ONG Freedom House, che nel 2012 per la prima volta ha classificato la Tunisia tra i paesi “parzialmente liberi” – ma soprattutto una connotazione quotidiana, sociale, di continuità rispetto alle istanze della rivolta e che, attraverso un linguaggio unico, fatto di tradizioni passate, sentimenti presenti, aspirazioni future, permette la messa in discussione di simboli e significati.
Non è un caso, quindi, che uno dei discorsi più pervasivi abbia riguardato, e riguardi ancora oggi, l’identità del paese, le caratteristiche sociali, religiose e culturali, considerate rilevanti e legittime per il futuro della Tunisia. Nel contesto post-rivoluzionario, l’elaborazione della identità tunisina, di una strada specificamente tunisina al progresso religioso e sociale, procede, infatti, proprio attraverso le crepe aperte nelle narrative degli stati neo-patriarcali, decostruendo il significato di religione, politica e relazioni familiari e generazionali, fino ad allora non discutibili e dati per scontati.
Prima non potevi parlare di alcuni temi, non potevi parlare di religione, di problemi sociali, di politica, di temi tabù come la sessualità, diciamo… c’era sempre questa volontà di controllare la parola e il lavoro degli artisti (Belassad, Tunisi).
Ora tutti vogliono parlare, i figli contro i padri, tutti contro il governo! Tutti devono dire la propria su tutto. Qui sta una dimensione invisibile della rivoluzione: i tunisini hanno rotto un tabù, non hanno più paura di criticare il padre nella famiglia e nello stato… di fatto il padre non esiste più (Mourad, Tunisi).
La definizione di questa identità collettiva è dinamica e fluida, è una costruzione all’interno della quale diviene rilevante la «capacità degli individui di identificarsi e di differenziarsi dagli altri» (Melucci, 1993). In questo processo, che, proprio per le sue caratteristiche, può essere definito di identizzazione (ivi) due sono gli assi narrativi centrali: il futuro politico e l’appartenenza religiosa.
Tracce del passato remoto e futuro politico della Tunisia
L’immaginazione del futuro politico, e, quindi, economico, sociale e culturale della Tunisia, si basa prevalentemente sul recupero di elementi di un’identità passata, considerata politicamente o religiosamente primigenia del paese. Nelle interviste, la scelta degli elementi costitutivi di tale identità passa attraverso il recupero emotivo e simbolico dell’esperienza governativa precedente a Ben Ali, quella di Habib Burghiba, che aveva guidato la Tunisia dall’indipendenza al 1987, quando era stato deposto proprio da Ben Ali con il cosiddetto colpo di stato medico (l’ottuagenario Bourghiba viene infatti deposto da Ben Ali suo primo ministro, perché dichiarato inabile al governo, considerata la sua avanzata età).
Questo processo discorsivo emerge in modo chiaro dall’analisi che, come sottolineato, ha avuto luogo subito dopo l’affermarsi del partito Nida Tunes e di Essebsi alla guida del paese. Teoricamente Nida Tunes è un partito nuovo, nato solo nel 2012, dopo le rivolte, con lo scopo dichiarato di unire le forze moderniste, laiche e democratiche in un movimento di unità nazionale che si opponesse al governo degli islamisti in carica. L’intento politico del partito era, quindi, intercettare i voti degli elettori che nell’ottobre 2011 non avevano sostenuto Ennahda, ma si erano dispersi tra diversi piccoli partiti incapaci di fronteggiarne l’ascesa elettorale. Tale intento si rispecchia nella composizione eterogenea di Nida Tunes, che unisce soggettività con storie politiche non solo differenti, quanto spesso conflittuali, dalla sinistra laica, ai liberali progressisti, a vecchi sostenitori del neo-destur di Burghiba, a sindacalisti, a ex-membri dell’RCD (Rassemblement Constitutionnel Démocratique) la dissolta compagine di Ben Ali.
La presenza di esponenti dell’RCD è giustificata da Nida Tunes attraverso l’argomento dall’esperienza che questi avevano dimostrato nel guidare il paese, dimostrata dai loro risultati, sul piano sociale, economico e culturale, esperienza che contrastava con l’inadeguatezza dimostrata dei membri di Ennahda, che, perché a lungi esiliati o in carcere, pativano le conseguenze di una lunga assenza dalla gestione della cosa pubblica. Una volta eliminate quelle parti del vecchio regime che si erano dimostrate corrotte o troppo legate a Ben Ali e alla sua famiglia, Nida Tunes poteva, quindi, lecitamente ri-appropriarsi della legittimità storica derivante dall’incarnare le stesse forze che erano state in qualche modo “madri della nazione” (proprio la presenza di vecchi politici ha sostenuto il rifiuto della chiamata di Essebsi da parte di altre compagini politiche). Nello stesso tempo l’opposizione islam laico/ islam estremista, sosteneva la riproposizione di un discorso che tradizionalmente aveva legittimato all’esterno e all’interno il potere tunisino, riconoscendo anche l’esistenza di una peculiare sensibilità religiosa specificamente tunisina. Nel suo discorso di insediamento, ad esempio, Essebsi, al contempo, critica il governo precedente per aver dato spazio ai salafiti e cita il Corano, sottolineando che l’islam disconosce la presenza di un clero, e quindi di persone uniche legittimate a parlare nel nome della religione, e che uno stato che agisce come guardiano religioso non risponde né alla tradizione, né alle necessità dei musulmani tunisini.
Il quasi novantenne Essebsi incarna questo intento: egli è stato Primo Ministro nel secondo governo di transizione tunisina, ma anche Ministro dell’Interno, della Difesa e degli Affari Esteri in vari momenti tra il 1965 e 1986, quando non assume più incarichi governativi prendendo le distanze dalle scelte di Ben Ali. Discepolo di Burghiba, la sua storia politica sembra, quindi, lontana dai richiami rivoluzionari al cambiamento e dalla stessa composizione sociale delle rivolte, giovane e a-politico. Eppure proprio la sua eredità storica lo legittima politicamente, trasformandolo in alcuni casi, quasi in un super-eroe capace di guidare la Tunisia verso il futuro.
La selezione degli elementi del passato nell’organizzazione di tale narrazione è confermata nelle interviste, dove il diniego dell’esperienza di Ben Ali è più netta. Malgrado molte delle persone intervistate siano state coinvolte, in gradi e momenti differenti della loro vita, con l’RCD, o istituzioni a esso vicine, tutte negano o minimizzano questa appartenenza, con l’argomento retorico che “era inevitabile”, “lo erano tutti”[2]. Le persone incontrate mostrano una difficoltà più generale nel dichiarare apertamente quale fosse il proprio partito o la propria opinione politica prima delle rivolte: quelle che ora appartengono a partiti di opposizione tendono a evidenziare la propria militanza in sindacati o organizzazioni non governative, quelle che invece appartengono o sostengono Nida Tunes, rivendicano il loro legame con il neo-Destur di Burghiba, eclissando discorsivamente che quest’ultimo si fosse di fatto trasformato nel nucleo centrale dell’RCD. Ben Ali e il suo partito sono costruiti come se rappresentassero una breve pausa all’interno di un percorso più ampio, un momento in cui, esperienze estranee alla autentica tradizione e cultura politica del paese se ne erano appropriate. Anche Ibrahim, del Fronte Popolare, partito di opposizione, dice:
Nida Tunes ha sfruttato la macchina politica dell’RCD, basata sull’esperienza di Burghiba. Non possiamo dire che sono in continuità con Ben Ali, sono…beh, sono sempre stati desturiani, sono stati critici verso Ben Ali.
Quanto alla vittoria di Essebsi e alla sua distanza dalle istanze rivoluzionarie e dalla composizione generazionale delle rivolte, spiega Moazzen, un professore di scuola a Tunisi:
Per comprendere l’oggi, devi analizzare il passato. I più giovani non sono ancora pronti a essere attivi in politica, perché non sono stati formati, preparati alla politica. Alla fine le persone hanno votato per una persona che supera la terza età! C’è qualcosa di nostalgico nei tunisini: se pensi a qualcosa di successo…tu pensi a Bourghiba. Ed è questo il motivo per cui… Essebsi oggi è molto vicino all’immagine di Burghiba, soprattutto nella comunicazione non verbale, guarda i suoi occhiali, i suoi movimenti, il suo modo di comunicare. Quando lo guardi, ti senti rassicurato, vedi un’immagine che ti ricorda il potere, il carisma, la capacità, lo stato forte capace di costruire l’identità e il futuro della Tunisia.
La rivendicazione della continuità con un presidente restato al potere per circa 30 anni, creando un governo mono-partitico, può essere dunque letta come una contraddizione, una restaurazione, rispetto alle richieste della rivoluzione, ma anche come un richiamo che segue la logica dell’identità e dei simboli. Burghiba è stato, infatti, anche il padre della nazione, capace di disegnare e diffondere, a volte imporre, l’unica idea del futuro del paese che i tunisini abbiano conosciuto, e di trasformarla in istituti pratici che nel tempo sono diventati parte della definizione stessa della Tunisia, come l’approvazione nel 1956, del Codice dello Statuto Personale, la Majalla, e delle sue innovazioni nel campo del diritto di famiglia (tra queste, l’abolizione della tutela matrimoniale – wali –, l’obbligo di registrazione del matrimonio presso lo stato civile, il divieto di poligamia e di ripudio unilaterale, la ridefinizione delle regole di adozione, con l’equiparazione dei figli naturali a quelli adottivi. Cfr. Aluffi Beck Peccoz, 2006; Donini e Scolart, 2015). Un leader che si richiamava egli stesso a un progetto precedente, originario, quello riformista iniziato dal ministro Khayr Al-Din alla metà del XIX secolo, quando ancora la Tunisia era, pur autonoma, sotto il controllo dell’Impero Ottomano, un progetto ispirato a una modernizzazione economica, culturale, sociale e istituzionale, accompagnata dal riferimento ai principi religiosi (Hourani, 1992). Un progetto che nella costruzione pubblica discorsiva sembra aver incontrato due interruzioni, il protettorato francese e il governo di Ben Ali, ma che dopo la rivolta può finalmente ricominciare.
L’ islam tunisino originario e la definizione dell’identità tunisina
Centrale in questo progetto della Tunisia del futuro è il richiamo all’appartenenza religiosa, della religiosità tunisina, sollecitata a più riprese soprattutto durante i tre anni di governo di Ennahda.
È stata Ennahda a creare una questione identitaria in Tunisia. Dal 2011 hanno cominciato a polarizzare il discorso pubblico su questioni molto lontane dalle preoccupazioni tunisine, come le specificità culturali e i comportamenti religiosi. Prima non avevamo mai messo in discussione il nostro essere musulmani (Saida, Bicetre).
Se l’elezione di un partito religioso nel panorama socio-politico tunisino è giustificato come una forma di riconoscimento per i suoi militanti che nel tempo avevano non solo contrastato il governo di Ben Ali, ma ne erano stati duramente perseguitati, le sue aperture a gruppi salafiti[3], segno anche dell’incapacità di gestire le conseguenze dell’apertura della sfera pubblica religiosa anch’essa finalmente libera dal controllo del governo centrale, ha messo in discussione i limiti e i significati del religioso tunisino.
La Tunisia non ha bisogno di estremismo. Siamo tutti musulmani, non abbiamo nessun problema su questo. Se guardi alla poligamia. La poligamia nel Maghreb non è mai stato un vero problema. Normalmente non c’è poligamia, siamo il Maghreb non il Mashreq. La poligamia non è nella nostra tradizione (Othman, Bicetre).
La questione della poligamia è un argomento retorico privilegiato nella rivendicazione della propria identità islamica “moderata”, un’identità originaria, antica, che viene semplicemente recepita dal Codice dello Statuto Personale burghibiano, ma che risale al X secolo, alla elaborazione di un islam tunisino primigenio, la versione zeituniana, nome che si lega alla storica Università Islamica di Kairouan.
In Tunisia, la religione vera è l’islam zeitouniano, che è molto differente da quello wahhabita. Tradizionalmente noi non siamo contrari ai festival religiosi, non siamo contrari ai sufi o ai marabut come lo sono i wahhabiti. Non siamo per un islam letteralista, perché ci basiamo sulla comprensione degli obiettivi della Rivelazione. Questo è il motivo per cui la poligamia è stata facilmente bandita da Burghiba. Informalmente era, infatti, già stata bandita. Nel XIII secolo, un califfo abbaside sposato con una donna a Kairouan voleva sposare anche un’altra donna. Chiese quindi al qadi e al mufti ed essi dissero: «Una volta che tu sei sposato secondo la versione tunisina, non puoi risposarti». Qui è l’islam moderato che è inerente, è originale tunisino. Burghiba ha sfruttato un terreno sociale già pronto (Alaya, Tunisi).
Anche in questo caso esiste un progetto autentico che ha trovato una prima concretizzazione istituzionale durante Burghiba, e che in quanto tale è, necessariamente, il percorso della Tunisia. In questo percorso l’estremismo non può trovare spazio, è una delle forze estranee da respingere, da isolare, per permettere al paese, attraverso il suo passato di procedere verso il proprio futuro. Di conseguenza, il governo di Ennahda stesso, ma, si noti, mai le rivolte, per il fatto di aver aperto a esperienze non originarie, viene quindi circoscritto, ridotto ad una parentesi, a una interruzione momentanea:
Questa esplosione islamista non appartiene alla storia della Tunisia e gli islamisti non sono stati parte della rivoluzione. Le persone hanno votato per loro perché essi erano stati tradizionalmente perseguitati dal regime di Ben Ali, dalla sua dittatura militare. Le loro famiglie sono state perseguitate e isolate e questo ha contribuito a far crescere una certa solidarietà nei loro confronti. Le persone si fidano di loro perché sono religiosi, ma religiosamente sono lontani dalla nostra cultura e tradizione… Ennahda ha cercato di introdurre nella costituzione un articolo che dice che l’Islam è la religione di stato. Noi, Tunisini, abbiamo combattuto per questo: l’islam è la religione del popolo, la nostra tradizione, come dice l’articolo 1. Ma lo stato non ha mai avuto nessuna religione in Tunisia (Saida, Bicetre).
In effetti, la riflessione sullo spazio del religioso nella Tunisia post-rivolte, si è nutrita anche dei dibattiti che hanno accompagnato l’approvazione della nuova costituzione tunisina e, in particolare, di quegli articoli che più sembravano metterne in discussione e doverne definire l’identità, come il rapporto tra religione e stato e quello tra uomo e donna, dibattiti animati che si sono tradotti in forme di mobilitazione e manifestazioni con l’intento dichiarato di tutelare e rimarcare principi acquisiti che si vedevano minacciati. La forza e la pervasività sociali di tali mobilitazioni si sono concretizzate in una recessione dalle posizioni originarie da Ennahda: così, a esempio, nonostante precedenti dichiarazioni di segno contrario, ogni riferimento alla shari‘a è stato eliminato dal testo, così come la definizione di complementarietà di genere è stata sostituita da un pieno riconoscimento dell’eguaglianza tra uomini e donne (art. 20 della Costituzione Tunisina; l’articolo è rafforzato anche dall’art. 45 che impone allo stato di garantire le ari opportunità tra uomo e donna e di adottare «Misure necessarie per combattere la violenza contro le donne». Sulle mobilitazioni rispetto ai tentativi di inserimento della nozione di complementarietà nel testo costituzionale vedi Brésillon, 2012).
Riflessioni conclusive
Il processo di transizione tunisina è lungi dall’essere concluso e, per quanto il riconoscimento della sua unicità si sia tradotto di recente nel conferimento del premio Nobel per la Pace 2015 al quartetto per il dialogo nazionale tunisino – formato dal Segretario Generale dei Sindacati dei lavoratori, Houcine Abbassi, dalla Presidente dell’associazione degli imprenditori Wided Bouchamaoui, dal Presidente della Lega per i diritti umani Abdessattar Ben Moussa, e dal Presidente dell’Ordine degli avvocati Fadhel Mahfoudh – «per il contributo decisivo alla costruzione di una democrazia pluralista in Tunisia dopo la rivoluzione dei Gelsomini del 2011», proprio il suo isolamento e la fragilità di processi ancora in fase di consolidamento determinano la sua continua messa in discussione da parte di forze contrastanti, interne ed esterne. In particolare gli attentati del Bardo e di Sousse, le incursioni di gruppi jihadisti, più meno legati al Daesh, l’adesione, spesso negata, a quest’ultimo di giovani tunisini come basisti locali o foreign fighters, oltre a aver spezzato il settore turistico, una fonte economica importante per il paese, sottolineano le contraddizioni di un percorso lungi dall’essere completato. L’articolazione del discorso sull’identità collettiva della Tunisia, la costruzione della sua rinnovata memoria sociale, la selezione delle tracce e delle tradizioni del passato utili alla costruzione di un percorso futuro il più possibile “autentico”, “organico”, in senso post-gramsciano, alla società del paese, è, dunque, ancora in divenire, e si lega indissolubilmente ai passaggi politici, economici, culturali e istituzionali del presente.
Per approfondire:
- Allam K.F., Avere vent’anni a Tunisi e al Cairo. Per una lettura delle Rivoluzioni Arabe, Marsilio, Venezia, 2013.
- Aluffi Beck Peccoz R., Persone, famiglia, diritti, Riforme legislative nell’Africa Mediterranea, Giappichelli, Torino, 2006.
- Bayat A., Life as politics. How ordinary people change the Middle East, Stanford University Press, Stanford, 2013.
- Brésillon T., Tunisie: pour les islamistes, la femme est «complémentaire», 3 agosto 2012: http://blogs. rue89.com/tunisie-libre/2012/08/03/tunisie-pour-les-islamistes-la-femme-est-complementaire-228134.
- Cantaro A., Da dove Vengono e dove Vanno le “Primavere Arabe”. Ermeneutica dei conflitti, in G. D’Ignazio, N. Fiorita, S. Gambino, F. Raniolo, A.Ventura (a cura di), Transizioni e democrazia nei Paesi del Mediterraneo e del vicino Oriente, Edizioni Periferia, Cosenza, 2014.
- Donini V. M. e Scolart D., La Shari‘a e il mondo contemporaneo, Carocci, Roma, 2015.
- Filali-Ansary A., The languages of the Arab revolutions, in “Journal of Democracy”, vol. 23 n. 2, 2012.
- Hourani A., Storia dei Popoli Arabi, Mondadori, Milano, 1992.
- Jedlowski P., Memoria, Clueb, Bologna, 2000.
- Korody N., The Revolutionary Art: Street Art Before and After the Tunisian Revolution, in “Independent Study Project (ISP) Collection”, n. 1134, 2011,
- Marks M., Youth Politics and Tunisian Salafism: Understanding the Jihadi Current, in “Mediterranean Politics”, vol. 18 n. 1, 2013.
- Mejri O. e Hagi A, La rivolta dei dittatoriati, Mesogea, Messina, 2013.
- Melucci A., Passaggi di senso e incerte frontiere, in A. Carbonaro e C. Facchini (a cura di), Biografie e costruzione dell’identità. Tradizione e innovazione nella riproduzione sociale, Franco Angeli, Milano,1993.
- Moghadam V., Modernizing women, gender and social change in the Middle East, Lynne Reinner, Londra, 1993.
- Parker, E., Tunisian Religious Tensions and the Emerging Bogeyman: Salafism, 15 giugno 2012: http://www.tunisia-live.net/2012/06/15/deconstructing-the-salafist-spectre/
- Ranger T. e Hobsbawm E.J. (a cura di), L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino, 1987.
- Sebastiani C., Una città, una rivoluzione. Tunisi e la riconquista dello spazio pubblico, Pellegrini, Cosenza, 2014.
- Sharabi H., Neopatriarchy: A Theory of Distorted Change in the Arab World, Oxford University Press, New York, 1988.
- Tlili M., Arab spring or arab winter? An update on the arab revolutions, New York University Press, New York, 2012.
[1] Secondo la definizione di Bayat (2013) i movimenti non sociali sono «azioni collettive di attori non collettivi» che «incarnano le pratiche condivise da un largo numero di persone ordinarie, le cui attività frammentate ma simili spingono al mutamento sociale, anche se raramente queste pratiche sono guidate da un’ideologia o da una guida riconosciuta o da un’organizzazione».
[2] L’unica persona intervistata ad aver ammesso immediatamente di essere stata membro attivo dell’RCD e di sostenerlo ancora idealmente è significativamente un uomo anziano, di più di 70 anni.
[3] Etimologicamente la parola salafita si riferisce ai musulmani sunniti che seguono l’esempio del Profeta e dei suoi primi seguaci, salaf. Il termine è stato utilizzato all’inizio del XX secolo per indicare le posizioni religiose di intellettuali modernisti come Jamal al-Din al-Afghani e Muhammad Abduh e, successivamente, di predicatori di ispirazione wahhabita che promuovevano un ritorno rigido al VII secolo non solo in senso spirituale, ma anche in senso sociale. Gruppi salafiti sono presenti in Tunsia fin dagli anni ’80, con almeno tre grandi correnti Salafiyya ‘Almiyya – tendenzialmente apolitica – Salafismo politico – che si esprime attraverso formazioni partitiche e Salafiyya Jihadiyya – l’ala che raccoglie più giovani, quella più attiva, spesso più violenta, e, di conseguenza, più visibile e mediatizzata (Marks, 2013). Quest’ultima si è, infatti, distinta per una serie di azioni di protesta altamente mediatizzate e spesso violente contro comportamenti ritenuti immorali: l’assalto alla sede di un canale televisivo e alla casa del suo proprietario, che avevano trasmesso il film animato Persepolis, dove è presente un immagine di Dio; l’aggressione all’università di La Manouba a due docenti, rei di aver negato l’ingresso a una ragazza che indossava il niqab, richiamandosi peraltro ai regolamenti universitari; le proteste al festival del cinema, contro l’eccessiva laicità dello stato; le incursioni contro locali che vendono alcolici. Rispetto a queste e ad altre manifestazioni violente, Ennahda è accusata di aver avuto un atteggiamento ambivalente o neutrale, fonte della gran parte delle critiche al partito. Vedi Parker, 2012.