La storia del Mediterraneo è stata, fino a poco tempo fa, la storia di un declino, la storia dello spostamento dei traffici e della centralità economica e geopolitica sulle sponde dell’Atlantico e della parallela costruzione dell’arretratezza dei vinti nella storia dei vincitori. La stessa visione unitaria è stata perlopiù abbandonata in favore di studi parziali e specifici (Tabak, 2008), messa apertamente in discussione metodologicamente o addirittura capovolta in favore della “visione dal mare” della nuova talassologia (Horden e Purcell, 2006.). Noi siamo interessati piuttosto alla dimensione globale del Mediterraneo come hub, uno tra gli altri, di una rete planetaria di relazioni materiali, simboliche e politiche e seguiremo un approccio indisciplinato, indispensabile per comprendere la consustanzialità dei processi culturali, economici, politici e mediatici. Quello che ci muove è il riconoscimento che negli ultimi anni si registra un rinnovato, crescente interesse per l’area mediterranea, dovuto soprattutto alla ritrovata centralità nei traffici globali. Infatti, con l’ascesa dei paesi asiatici e il consolidamento dell’egemonia cinese nei settori della produzione e distribuzione su scala globale l’importanza dell’atlantico è calata, almeno in senso relativo, e si è cominciato a guardare sempre più, con appetito, all’oriente. In questa ottica, il Mediterraneo assume una nuova posizione come via privilegiata per l’accesso dei traffici in arrivo dall’Asia per approdare sulle sponde di tre continenti: Asia, Africa ed Europa.
Nei discorsi che circolano nel dibattito pubblico, nei media mainstream, nella pubblicistica nazionale e nella comunicazione istituzionale, l’immagine del Mediterraneo è stata sino ad ora scolpita sul suo passato idealizzato, culla della civiltà e origine della modernità. Nonostante questa rappresentazione mitologica ed autocelebrativa del mar Mediterraneo, le scienze politiche e sociali hanno sovente guardato al “modello mediterraneo” come attraversato da disfunzioni e inefficienze: tra il capitalismo Renano regolato della Germania occidentale e il liberalismo anglosassone dipinto ne Capitalismo contro Capitalismo dell’istituzionalista Micheal Albert (1991), quello mediterraneo sembra caratterizzato da disfunzioni istituzionali e organizzative che ne frenano il decollo economico. Alle varietà di capitalismo e alla relativa modellistica qui contrapponiamo una visione sistemica e globale in cui i territori dell’Europa meridionale sono pienamente inseriti nelle catene del valore della ristrutturazione permanente neoliberale attraverso specifiche specializzazioni di produzione, distribuzione e consumo. Come considerazione preliminare, riteniamo che sia la stessa costruzione dell’Unione Europea, con la sua definizione di paesi virtuosi e la costituzionalizzazione dei principi economici di competizione e rigore budgetario ad aver fatto sì che i paesi del mediterraneo fossero significati come improduttivi, corrotti e spendaccioni. Da questa prospettiva, la crisi dei debiti sovrani del 2010 e la sua gestione autoritaria ha solo esplicitato latenti discorsi stereotipizzanti su cui le asimmetrie di potere nell’Unione Europea si sono costruite.
La rinnovata centralità dello spazio mediterraneo e le rappresentazioni del sud Europa come l’altro di una Europa del nord frugale e produttiva sono, a nostro avviso, processi destinati a intrecciarsi sempre di più nel gioco competitivo europeo e globale. Come proveremo ad argomentare, l’essenzializzazione delle popolazioni (bianche) euro-mediterranee, la disciplina della finanza e il tentacolare espandersi della logistica globale sono processi consustanziali destinati ad intrecciarsi inesorabilmente nei prossimi anni. Siamo consci e consapevoli di un lungo e fondamentale dibattito sulla rimozione dell’extra-Europeo dalla storia del Mediterraneo, una tendenza che caratterizza la visione coloniale della storia mondiale, così come delle prospettive filosofiche radicali del pensiero meridiano che hanno provato a decostruire il quadro epistemico dominante. Noi piuttosto proviamo a guardare alle dinamiche centro, semi-periferia e periferia all’interno dell’Unione Europea con un approccio simile a quello della cultural political economy (Sum e Jessop, 2015) in cui lo studio della semiosis è fondamentale per capire i processi di trasformazione socioeconomici. In altre parole, il nostro intento è quello di guardare all’intersecarsi di dinamiche culturali, geopolitiche ed economiche per investigare come diverse articolazioni del Mediterraneo europeo emergano all’interno di contingenti e contestuali strategie di potere. La storia che raccontiamo ha come protagonisti formazioni sociali e professionali bianche Europee. Voglia dunque perdonarci il lettore per la parzialità dell’analisi che proponiamo e il nostro sguardo esclusivamente eurocentrico che, per ragioni di spazio e di argomento, non può discutere dei rapporti coloniali dell’Unione Europea con il bacino meridionale del Mediterraneo.