Grandi cambiamenti e (presunte) conseguenze sullo scenario politico europeo
Già poche settimane dopo il febbraio 2020, non pochi osservatori cercarono di tracciare i percorsi di cambiamento che si sarebbero verificati come conseguenza della diffusione della pandemia Covid-19. Un esercizio a tratti ardito, ma che comunque ha consentito, da un lato, di prendere consapevolezza della portata della pandemia, dall’altro, di sforzarsi a immaginare effettivamente cosa si sarebbe verificato, sulla scia del mantra allora prevalente, secondo cui «nulla sarà più come prima». Effettivamente, gli scenari delineati sono stati davvero molti e piuttosto variegati[1]. Con questo contributo, cerchiamo di fissare l’attenzione su due aspetti in modo particolare: il presunto «ritorno» delle élite, a partire soprattutto dall’importanza che hanno avuto gli «esperti» nel definire i percorsi del decision making nazionale e internazionale, e l’altrettanto presunto declino delle forze populiste, sia al governo, sia all’opposizione.
Sono due ambiti che hanno diversi punti in comune e che sembrano essere il primo la causa del secondo: ossia la riaffermazione delle élite avrebbe potuto determinare la crisi dei partiti populisti che trovano uno dei cardini della loro (articolata e sfuggente) proposta politica proprio nella critica diretta e feroce al potere dei «pochi». Com’è evidente, la correlazione non è affatto dimostrabile in maniera immediata e nasconde anche dei tratti di superficialità. Tuttavia, consente di avanzare qualche utile riflessione, da intendersi come un approfondimento rispetto alle considerazioni relative agli scenari sul futuro dell’Unione europea già argomentati in precedenza (Bruno e Campati, 2021).
Un ritorno auspicato?
Come noto, specialmente durante i primi mesi della gestione pandemica, si è assistito a una rivalutazione delle competenze e quindi un’attenzione del tutto peculiare è stata riservata al ruolo imprescindibile delle élite epistemiche all’interno del processo decisionale (Pamuk, 2021). Ma, non appena la tensione è scesa, la fiducia nei confronti dei «competenti», in particolare dei medici, ha subito un calo rispetto alle vette altissime dei primi sei mesi del 2020, anche a causa delle (inevitabili) contrapposizioni che si sono verificate all’interno della comunità scientifica su quali dovessero essere le decisioni da assumere. Indubbiamente, però, il dato da rilevare è che Covid-19 ha consentito di far emergere – soprattutto davanti all’opinione pubblica – il nesso tra rappresentanza e competenza come uno degli elementi tipici della democrazia liberale, che è infatti uno degli equilibri, faticamente raggiunto, che ne consente, per così dire, il funzionamento (Campati, 2020). Lo shock della pandemia ha riattivato inoltre un sistema delle élite che comprende non solo la sfera dei medici e del personale sanitario. Se si pensa ad alcuni contesti specifici, come quello italiano (Campati, 2022), l’emergenza ha messo alla prova le élite economiche, soprattutto per quanto riguarda la fase iniziale, ma anche, in seguito e ancora oggi, durante la fase della cosiddetta «ripresa»; un ulteriore esempio è quello delle élite sociali che hanno trovato l’occasione di un loro riscatto, dopo decenni durante i quali sono state accusate di essere poco incisive e soprattutto governate da logiche corporative e autoreferenziali. Ciò non significa che l’antico e conflittuale rapporto che la società (non solo italiana) ha con le sue élite si sia d’un tratto risolto, anzi, forse sono diventate più emblematiche alcune linee di frattura, ben evidenti da alcuni anni[2]. Però è indubbio che si è verificata almeno una parziale inversione di tendenza rispetto al mantra dell’«uno vale uno».