A me si confà unicamente il giorno seguente al domani.
C’è chi è nato postumo […]
Nelle cose dello spirito si deve essere onesti fino alla durezza,
per poter anche soltanto sopportare la mia serietà, la mia passione.
Si deve essere addestrati a vivere sui monti…
(Nietzsche, 2015)
Ma è Musil che più di ogni altro ha compreso
l’inaudita forza della distanza che l’essere postumo permette
[…]
L’essere postumo illumina a fuoco gli eventi più segreti.
(Cacciari, 1980)
Una specie che riesce a creare artificialmente la propria immortalità,
e che cerca di trasformarsi in mera informazione,
rimane una specie umana?
(Baudrillard, 2007)
Se le cose andranno così, anche nel prossimo futuro,
si può pensare allora non a un’immortalità di massa…
bensì a un’immortalità selettiva, e quindi,
in un certo senso, meritocratica.
(Boncinelli, Sciarretta, 2005)
L’individuo può comprendere la propria esperienza
e valutare il proprio destino
soltanto collocandosi dentro la propria epoca.
(Wright Mills, 2014)
Traiettorie
Pensare al futuro, cercare di immaginarlo. Operazione sempre a rischio: di smentita, di beffa. Concentrarsi su una – o più – filosofie del futuro per delimitarlo e, come è compito della filosofia, articolarne un’etica, può essere altrettanto defatigante e scoraggiante. In più, la filosofia è sempre un discorso su qualcosa: eventi, fenomeni, oggetti. E in quanto “discorso su”, è un prodotto umano, un fenomeno sociale, come ciò di cui si occupa. E, poiché prodotto umano, è oggetto anch’essa della sociologia (che a sua volta, peraltro, è un prodotto altrettanto umano, storicamente e socialmente determinato, più specificamente, è il discorso della modernità su se stessa), il cui compito è studiare i fenomeni sociali.
Da sociologo, piuttosto che avventurarmi senza averne dimestichezza con gli strumenti della filosofia nei territori del futuro possibile mi propongo (propongo) di offrire alcune esplorazioni con gli attrezzi che maneggio – non pretendo bene, ma con una certa qual pratica: quelli della sociologia – di questi scenari ipotetici, i cui panorami sono fatti degli oggetti di riflessione di svariate aree della ricerca rivolta al futuro, come il “postumano”, il “transumano”, l’“Intelligenza Artificiale”, ma anche delle direzioni che hanno intrapreso queste stesse aree di riflessione, anch’esse prodotto del nostro presente, un presente – postmodernità, alta modernità, tarda modernità – che sembra offrirci, o imporci, incertezze, disorientamento, disimpegno.
Abbiamo quindi tre categorie di oggetti. Ipotetici alcuni, come il senziente[1] postumano, transumano, o artificiale che verrà; reali altri, come le retoriche divulgative e/o giornalistiche su questi oggetti, nei termini in cui sono entrati nel lessico (e nel senso) comune e i discorsi su questi stessi oggetti che si intrecciano nel dibattito scientifico, almeno nel campo della filosofia, della sociologia, dell’informatica.
In questo senso, la comunità scientifica si comporta (o dovrebbe compartsi) in maniera diversa dall’uomo comune, anch’egli continuamente impegnato a immaginare il proprio futuro. Se la scienza pensa in termini di prospettive complessive e a medio-lungo termine, cercando di inferire dallo stato delle cose, sulla base di modelli teorici, tendenze e prospettive generali, l’uomo comune è più interessato alla vita quotidiana, e al suo destino individuale, nell’ambito della dimensione “locale” in cui si svolge la sua vicenda personale. Come scrive Alfred Schütz, il fondatore della sociologia di approccio fenomenologico,
Come ho detto, l’uomo, nella vita quotidiana, trova in ogni dato momento un fondo di conoscenza a disposizione che gli serve come schema di interpretazione delle sue esperienze passate e presenti e determina anche le sue anticipazioni delle cose che verranno. (Schütz, 2013)
Sono, però, tutti, frutto del proprio tempo, di questo tempo che viviamo. Siamo tutti determinati storicamente e socialmente dal nostro Zeitgeist. Che, nel nostro caso, è sempre più impregnato di una specifica “forma culturale”, concetto definito dall’etnografo Paul Willis come l’insieme delle
… modalità attraverso le quali gli oggetti materiali – documenti, manufatti, prodotti industriali, capi d’abbigliamento o anche artefatti – sono assemblati in un insieme di risorse simboliche cui si attinge nel corso della vita quotidiana. In questa accezione, la forma culturale consiste in una specifica modalità di stare al mondo, una modalità in cui i fenomeni culturali sono usati per spiegare ed esemplificare le relazioni socioculturali tra diversi attori e sistemi della società. (Tirino, 2020)
Un calco, insomma, che dà forma alla relazione che abbiamo col mondo circostante, alla nostra Weltanschauung. Questa “forma culturale” è quella che si è affermata attraverso l’egemonia del digitale.
E se nel Novecento, il secolo in cui la modernità è entrata nella sua fase matura, la forma culturale che ha informato la società occidentale è stata quella prodotta dal sistema cinema-metropoli-fabbrica (Abruzzese, 1973), quella dominante oggi è fondata sulla “supremazia del codice”, come si esprimeva Jean Baudrillard già quasi quaranta anni fa (1976), sulla capacità che ha avuto la logica della digitalizzazione di farsi “forma culturale” egemone, fondata sul numerico, sul discreto, sulla confrontabilità fra le cose nei termini del loro riferimento a modelli astratti, colonizzando dapprima l’organizzazione della produzione, grazie alle macchine “a controllo numerico” (Perrella, Strino, 1980), espandendo poi il suo calco alla comunicazione in generale, congiungendosi perfettamente con la logica del valore di scambio, e trasformandola poi nella forma con cui sempre più interpretiamo, traduciamo la nostra relazione con il mondo, sociale e naturale (Fattori, 2015). O, come scrive magistralmente Mark Fisher:
Il potere del realismo capitalista deriva in parte dal modo in cui il capitalismo sussume e consuma tutta la storia pregressa: è un effetto di quella «equivalenza» che riesce ad assegnare un valore monetario a qualsiasi oggetto culturale, si tratti di icone religiose, pornografia, o Il Capitale di Marx. (Fisher, 2017)
Questo passaggio, silente e “morbido”, ci ha proiettati in un mondo che fatichiamo a definire, un mondo “post”, per alcuni stagnante e deprimente, che vede la morte per dissoluzione delle grandi utopie moderne; per altri l’occasione, grazie allo stesso digitale, alle tecnologie del virtuale, di compiere un balzo verso una dimensione nuova, ultraumana, forse.
Io credo che siano qui le radici delle narrazioni intorno al postumano e al transumano (Fattori, 2019), con varie mescolanze e incroci fra le due opzioni. Il luogo dove si esercita la ricerca su questi fenomeni è il territorio del neoterico (Fattori, Fucile, 2013). Siccome su postumano, transumano e via dicendo la letteratura è generosamente ricca (cfr. tra i tanti Abruzzese, 2011; Fattori, 2017; Fattori, 2019; Paura, 2017) e abbondiamo di definizioni, propongo di tagliar corto e individuare in questi oggetti un eventuale nucleo di tratti comuni, da accettare come oggetto delle analisi teoriche che si sono sviluppate da parte di filosofi, sociologi, fisici, matematici: per esempio, senzienti che sostituiranno/si aggiungeranno all’umano. Enti che potrebbero aver affermato il riscatto di tutte le minoranze finora oppresse in vari modi dal maschio dominante occidentale, e/o che potrebbero aver superato l’umano occidentale nei termini di una integrazione, di una fusione profonda con le tecnologie digitali, lasciando da parte per ora tutto ciò che non è umano, o addirittura vivente, come nelle riflessioni più estreme dei critical life studies e delle flat ontologies (Weinstein, Colebrook, 2017; Bryant, 2011; Harman, 2017).
Se andiamo in profondità, finiamo per trovare in tutte queste retoriche – da quelle più legate all’organico a quelle che celebrano la prospettiva dell’artificialità tecnologica – l’idea, l’aspettativa, la speranza dell’emergere di un ente, di un senziente etico, che spazzi via tutte le gerarchie e le differenze negli elementi che compongono la realtà. Cosa che, in buona sostanza, contraddice i fatti, e/o che si fonda sull’ipotesi (tutta da dimostrare) che si imponga una nuova etica che, alla fine, riguarderebbe personaggi come il Dr. Manhattan dei Watchmen, o, all’altro estremo, neoumani o altri senzienti frutto di una radicale “ecologia della mente” (cfr. Fattori, 2019; 2020).
A titolo di esempio, in una significativa antologia dedicata ai critical life studies, leggiamo cosa si immagina per postumano:
Questo libro si apre sul problema dell’essere postumo colta nell’epigrafe.[2] Come Friedrich Nietzsche sottolinea, per vivere postumi, e comprendere ed esser compresi mentre si sta dentro la prassi, si deve nello stesso tempo rimanere indifferenti alle “verità” acritiche […] ed essere impavidi nel porre quelle domande che spesso sono messe off limit da coloro che pretendono di dettare la linea su ciò che può essere chiesto o meno. Operando uno slittamento semantico verso l’inumano e il postumo. (Colebrook e Weinstein, 2017, traduzione mia)
Sul versante, invece, di una dimensione del postumano frutto di una ibridazione uomo-macchina, valga questo passaggio di un intervento del sociologo Mario Tirino sul cinema e le serie tv degli ultimi anni:
Mai come in questo momento storico risulta essere decisiva, per la comprensione dei rapporti sociali e la riformulazione dei rapporti identitari, la necessità di pensare “l’uomo oltre l’uomo” alla luce dell’evoluzione tecnologica e delle nuove forme biotecnologiche. Insomma, come ha intuito Rosi Braidotti, si tratta di pensare l’uomo partendo dal superamento della dicotomia natura/cultura. (Tirino, 2016)
Ma tutto ciò riguarda, nella sostanza – come Tirino sottolinea nel suo intervento[3] – l’immaginario, l’immaginazione narrativa. Qui, le frontiere dell’immaginazione narrativa, o della divulgazione giornalistica, o le riflessioni filosofiche si fondono nel dar vita a province dell’immaginario dove confluiscono – e vengono narrate – tutte le dimensioni dell’immaginazione del post e del transumano.
In realtà, le origini di queste narrazioni erano già nelle fantasticherie della setta degli “extropiani”, di cui lo studioso californiano Erik Davis, citando Mark Dery (1997), aveva dato una descrizione sardonica ed esaustiva già nel 1998:
Passando al setaccio le visioni sostenute da ossessivi programmatori, hacker e maniaci dei videogiochi, Dery si imbatte ripetutamente nella credenza piuttosto allarmante per cui «il corpo è un’appendice residuale non più necessaria per l’homo sapiens di fine ventesimo secolo – l’homo cyber». Forse la più zelante truppa di questa nuova banda di homo cyber è costituita da quei pompa-cervelli transumanisti e cyberlibertari conosciuti come extropiani… [G]li extropiani spendono moltissimo del loro tempo nel progettare futuri scenari neo-darwiniani, dominati da intelligenze artificiali, nanotecnologie e droghe sintetiche oltre che da teorie fisiche alternative e da massicce deregolamentazioni governative. Ma nel fare ciò, essi resuscitano quei modelli di identità e desiderio che ricordano il più trascendente dei misticismi, ed è questa loro simultanea dedizione alla fredda razionalità ed all’immaginazione speculativa che rende il loro tecnognosticismo il più avvincente tra le numerose varietà riscontrabili sotto l’ala digitale della New Age. Con lo stesso esuberante entusiasmo con cui un convinto Übermensch mostra i suoi muscoli cresciuti a steroidi, gli extropiani stanno pianificando il giorno in cui la tecnologia costituirà la finale via di fuga, quando le macchine ci libereranno per sempre dalla stretta della terra, dal corpo e dalla morte stessa. (Davis, 1999)
E il futurologo Roberto Paura nel suo La singolarità nuda si aggiunge a Davis (citandolo anche), in una lunga disamina delle caratteristiche del transumanesimo, arrivando a indicarne anche le – più che prevedibili – derive e seduzioni del sacro più tradizionale e istituzionale: le religioni organizzate, dalla chiesa cattolica al movimento mormone (Paura, 2017).
Segmenti
Per fare ordine e chiarezza, partiamo proprio dalla filosofia, e da colui che Colebrook e Weinstein evocano, Friedrich Nietzsche, che scrive:
C’è chi è nato postumo. Le condizioni alle quali mi si comprende – e mi si comprende, allora, per necessità – le conosco fin troppo bene. Nelle cose dello spirito si deve essere onesti fino alla durezza, per poter anche soltanto sopportare la mia serietà, la mia passione. Si deve essere addestrati a vivere sui monti – a vedere sotto di sé il miserabile ciarlare di politica ed egoismo-dei-popoli, proprio del nostro tempo. Si deve essere diventati indifferenti, non si deve mai domandare se la verità sia utile, se essa diventi per qualcuno una fatalità… Una predilezione della forza per quei problemi per cui oggi nessuno ha il coraggio; il coraggio del proibito; la predestinazione al labirinto. Un’esperienza di sette solitudini. Nuove orecchie per nuova musica. Nuovi occhi per il più lontano. E una nuova coscienza per verità restate fino a oggi mute. E la volontà dell’economia in grande stile; mantenere compatta la propria forza, la propria esaltazione… Rispetto di sé; amore di sé; libertà assoluta verso di sé… Suvvia! Questi soltanto sono i miei lettori, i miei giusti lettori, i miei predestinati lettori: che mi importa del resto? – Il resto è semplicemente l’umanità. – Si deve essere superiori all’umanità per forza, per altezza d’animo – per disprezzo. (Nietzsche, 2015)
Attrae, dunque, la somiglianza fra “(uomo) postumo” nietzscheiano, posthuman, e posthumous, evocando possibili confluenze o slittamenti semantici. Ma ho l’impressione che la contiguità fra le due sfere, quella in cui si muove Nietzsche e quella in cui si aggirano i nostri contemporanei, rimanga lì, a queste assonanze fonemiche, più che semantiche.
Il filosofo Antonio Lucci (2016), dopo aver riepilogato l’intera traiettoria dei vari “post” a partire da La condizione postmoderna di Jean-François Lyotard (1981), da “postmoderno” a “poststoria”, scrive:
Nella poststoria è sempre la storia a fare capolino, così come nel poststrutturalismo lo strutturalismo, e così via. Anche l’umano nel postumano non fa eccezione. Sorge allora una questione epistemologica cardinale: come parlare da dopo l’umano, permanendo umani? E ancora, quali categorie distinguono l’umano e il postumano, come rinvenirle, come elencarle? E non sono forse la categoria e l’elenco a loro volta umani, troppo umani per essere postumani? (Lucci, 2016)
E prosegue:
Il pensatore di Karlsruhe, ha intitolato la prima parte del suo Zeilen und Tage (un ponderoso cahier autobiografico, a metà tra Cioran e Valéry): Spuren in Posthumien, che letteralmente in italiano suonerebbe come “tracce nel Postumiano”. La parola si presta a una molteplicità di interpretazioni: sia per il legame con il postumano, sia per quello all’idea di “postumo” […] L’importanza e la peculiarità di questo concetto (rispetto, ad esempio, a quello omologo di Antropocene … [coniato] per indicare l’epoca geologica attuale, in cui i più grandi cambiamenti climatici sono frutto dell’attività umana) sta proprio nella sua essenza linguistica duplice: il rimando all’essere-postumi («Ci sono uomini che nascono postumi», come scriveva nella sua autobiografia Friedrich Nietzsche) e al contempo il de-radicamento del post dalla parola “umano”, che viene deformata tramite l’aggiunta di quella “i” disturbante. (Lucci, 2020)
E conclude citando il filosofo contemporaneo Peter Sloterdijk e accennando al fatto che finora abbiamo vissuto nell’onda lunga del Neolitico[4]:
Sloterdijk non sviluppa a fondo le conseguenze della propria creazione linguistica, ma il termine “Postumiano” invita a riflettere su che cosa possa significare porsi in un’epoca dell’umano diversa dalla nostra, in cui persino il concetto di umanità venga infettato dall’aggiunta suppletiva di una protesi, di un elemento dissonante (quella “i” così inopportuna), che ci proietta automaticamente in una dimensione altra rispetto a quella che abbiamo fin’ora vissuto […] Negli ultimi trent’anni l’uscita dal Neolitico si è fatta sempre più palese, incarnandosi nella quotidianità degli individui, trasformandone le abitudini e le forme di vita in maniera così radicale che l’esodo da quel sistema di a priori che ha costituito per molte migliaia di anni la nostra Lebenswelt appare, se anche non accettato a livello teorico, ormai uno status quo a livello pragmatico. (Lucci, 2020)
Il termine “postumiano”, rispetto ai suoi più vicini “parenti”, ha diversi meriti, come chiarisce Lucci: non solo si distacca da termini ormai ampiamente svuotati, dato l’abuso che se ne è fatto, ma inserisce l’umano della nuova era in una traiettoria che si aggancia all’intera storia dell’umano e del suo progressivo impatto sul mondo “naturale”, inserendo la nostra vicenda, quella della contemporaneità, in un flusso ampio, lungo, che aiuta a definirla meglio, socialmente e storicamente. E di cui – essendovi immersi dentro in pieno – ancora riusciamo a vedere poco, del presente, e del futuro, se non in termini di previsioni lineari, come progressioni di quelle che ci sembra di individuare come tendenze in atto.
Qui l’uomo postumo di Nietzsche sembra la figura più adatta a interpretare l’abitante del postumiano. E, forse, anche se ormai lontano da noi, il Robert Musil cui fa riferimento Massimo Cacciari ne può essere l’esempio paradigmatico: pur essendo vissuto all’alba della nostra epoca, ne percepisce i tratti, li anticipa, li precorre. Si guarda intorno, come il suo eroe eponimo, Ulrich Anders, che, tornato nella sua città si sente come «… un viandante che si segga su una panchina per l’eternità pur presentendo che si rialzerà quasi subito» (Musil, 1962): un individuo deradicato, disincantato, culturalmente, esistenzialmente, ontologicamente nomade, nello spazio, come nel tempo. Forse il più adatto a rappresentarci, al tempo del postumiano.
Perché, per ora, tutte le narrazioni e le retoriche su postumano e transumano galleggiano ancora in quella sfera che mescola sincreticamente, “neotericamente”, illazioni parascientifiche sull’Intelligenza Artificiale e la possibilità di digitalizzare e rendere immortali le nostre identità (almeno fin quando non verranno falsificati i due “teoremi di incompletezza” di Kurt Gödel e non verrà risolto il “gioco dell’imitazione” di Alan Turing, cfr. Paura, 2017; Fjelland, 2020; Hofstadter, 1984), fantasticherie neo-religiose (Camorrino, 2019), e – naturalmente – senso comune.
Catastrofi
Questo intreccio di narrazioni, ognuna con la sua articolazione e curvatura, unite al fondo da una presunzione alla fine ancora moderna, umanistica, che ruota più o meno visibilmente attorno all’idea di un potenziamento dell’umano moderno, e che sembra disinteressata ai percorsi delle concrete soggettività e identità contemporanee all’esterno di un immaginario che rimanda sia alla fantascienza sia alla religione, si ritrova – come tutte le narrazioni della contemporaneità, anche quelle del postumiano/neoterico, che mi sembra abbiano diversi punti di contatto – alla prova di un evento, imprevisto e imprevedibile, se non, ancora una volta, nelle speculazioni della science fiction, del complottismo e magari di un certo fondamentalismo religioso: la pandemia di covid-19.
Occupando l’intero storytelling[5] della nostra quotidianità, il nuovo coronavirus e i suoi riflessi hanno spazzato via tutto il resto, soppiantando interessi, curiosità, narrazioni, e concentrando tutte le risorse, scientifiche, politiche e culturali, sulla lotta al virus e sulla sua narrazione (Gamba, Nardone, Ricciardi, Cattacin, 2020).
Eventi come la pandemia hanno una natura particolare, unica, nel loro presentarsi eccezionalmente sulla scena del mondo: come ad esempio l’attentato alle “Torri gemelle” dell’11 settembre 2001, sono “eventi marginali”[6] con un carattere specifico, che cambiano completamente il senso della nostra relazione col mondo sociale e con la vita quotidiana. Sono quindi una straordinaria occasione per riflettere sullo stato delle cose, e sullo “stato dell’arte” dell’idea che abbiamo del mondo. Ed è questa una delle possibili cartine al tornasole, per così dire, per mettere alla prova la forza e la plausibilità delle narrazioni sul posthuman e le sue varianti.
Serve una premessa. Forse l’approccio più fruttuoso che la sociologia utilizza per le sue ricerche è quello fenomenologico, inaugurato dall’austriaco Alfred Schütz, un allievo di Edmund Husserl. La fenomenologia considera in generale il soggetto di esperienza e il mondo circostante come intimamente correlati, coinvolti in una relazione intersoggettiva e co-costitutiva, piuttosto che come soggetti e oggetti collocati l’uno di fronte all’altro, in opposizione. Il che vuol dire che la relazione con la realtà naturale e sociale che imbastiamo continuamente è una relazione di co-produzione continua, in cui l’umano organizza le sue percezioni nei termini del tentativo di costruirsi un’immagine – condivisa socialmente – della realtà che dia senso al mondo e alla sua esistenza. Tutto ciò che ci sta intorno viene organizzato dalla relazione che intratteniamo con esso, e determina l’idea che abbiamo del mondo esterno, dagli oggetti naturali agli artefatti che nel corso del tempo abbiamo realizzato. In questo senso, anche i prodotti dell’immaginario fanno parte della realtà che ci costruiamo socialmente, e interagiscono con noi, come espressione mitica della nostra visione del mondo. Credo che di questa espressione facciano ampiamente parte almeno per ora, come “miti a bassa intensità”, per usare una espressione coniata dallo studioso Peppino Ortoleva (2019), anche tutti i costrutti – teorici e narrativi – che guardano al postumano e al transumano.
La vita quotidiana ha continuato a svolgersi secondo le consuete modalità, routines, abitudini, programmi per il futuro, fino all’esplosione della pandemia, che ci ha costretti tutti in casa, rompendo abitudini, sbriciolando routines, obbligandoci all’isolamento fisico, frantumando la nostra attitudine a progettare, a immaginare il nostro futuro. Consegnandoci nelle mani dei “sistemi esperti” (gli apparati delle scienze mediche, ad esempio; cfr. Giddens, 1999), delle istituzioni politiche, della comunicazione istituzionale, della stampa. Siamo rimasti soli in casa, a gestire i rapporti intimi con i nostri familiari oltre le soglie su cui eravamo attestati, a rodarci nel lavoro e nello studio online riarticolandone ritmi, tempi, modalità, interazioni con colleghi, utenti, superiori, allievi. A trovarci, insomma, in un futuro imprevisto e/o arrivato troppo presto, che in alcuni casi ha sfiorato estremi come quelli raccontati da James G. Ballard nel finale del suo Terapia intensiva (Ballard, 2005), e a sperimentare, di fatto, quella che nel suo racconto è la normalità quotidiana[7].
In molti casi l’unico modo di mantenere le relazioni con i nostri consociati (Bauman, 1999[8]) è stato attraverso i media, in particolare quelli digitali, il che ha modificato la relazione fra noi e il digitale stesso. Poco prima dell’esplosione dell’epidemia, partecipando a un incontro il cui argomento era una app di realtà aumentata, a un intervento di uno dei relatori sulla difficoltà di separarsi dal proprio smartphone mi resi conto di una circostanza: ormai, più che in termini di protesi, dobbiamo cominciare a ragionare in termini di un nuovo organo, seppur esterno, del nostro corpo. Non quindi nel senso di un aumento, un potenziamento, un allargamento quantitativo delle nostre capacità, quanto nel senso di un mutamento qualitativo nella relazione che intratteniamo con un artefatto in particolare, in cui stanno precipitando, virtualmente, tutti gli artefatti precedenti, almeno quelli che attengono alla comunicazione. La relazione con il nostro smartphone sta riarticolando l’intero nostro modo di stare, percepire, agire nel mondo, sociale e naturale. Non un doppio, nonostante al suo interno sa potenzialmente racchiusa l’intera nostra identità – anch’essa fatta della relazione che intratteniamo col mondo esterno, naturale e sociale – ma una parte di noi. Sempre più indispensabile.
Ed è nei fatti, non nell’immaginario, che questa metamorfosi si sta svolgendo. La pandemia di Covid, con le conseguenze che ha prodotto sul piano delle relazioni sociali e delle abitudini, ha solo accelerato tendenze che già in atto, che hanno a che fare – come contrappunto e intreccio con la digitalizzazione – con quell’uscita dal Neolitico di cui scrive Antonio Lucci citando Peter Sloterdijk, e il conseguente ingresso nel Postumiano. Una curvatura, una traiettoria imprevista, forse, dei processi di individualizzazione (Carroll, 2007; Taylor, 2009; Berger, Luckmann, 2010) per gli effetti dei quali abbiamo coniato il termine “postumano” attribuendo all’avvento di chi dovrebbe sostituire l’umano come definito dall’Umanesimo qualità che non ha, che piuttosto ha portato all’estremo i tratti dell’umano moderno, ma che si definisce per una diversa, nuova relazione con gli artefatti per la comunicazione, con i mezzi di comunicazione, anch’essi diventati sempre più individualizzati, parti di noi. Neoumani? Postumiani?
Se la filosofia propone una linea per rispondere alle domande che oggi ci poniamo, probabilmente è nella direzione presa da Peter Sloterdijk piuttosto che in altre, perché il nostro compito primario, come studiosi interessati al presente in cui viviamo – e al futuro che ci attende, è, come nelle parole di Alfred Schütz (2013), «… occuparci del mondo in cui ognuno di noi porta avanti l’impresa di vivere, in cui ognuno di noi deve trovare il suo orientamento e venire a patti con le cose e con gli individui».
Bibliografia
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Note
[1] Evito volutamente di usare la parola “umano”, cfr. Fattori, 2020.
[2] È la frase di Friedrich Nietzsche che anch’io riporto in epigrafe.
[3] «Il terreno su cui è possibile misurare la mutazione antropologica degli individui digitali appare quello delle narrazioni audiovisive del postumano» (Tirino, 2016: 19): la mutazione che ci investe è “antropologica”, riguarda il senso che diamo al nostro rapporto col mondo, ed afferisce all’immaginario e alle rappresentazioni che questo restituisce al nostro sguardo e alla nostra immaginazione.
[4] Fino a epoche recentissime (calcolabili nell’ordine delle decine di anni nella frazione occidentalizzata del mondo, mentre il discorso è a livello massimale ancora valido nelle altre zone) gli esseri umani sono nati, vissuti e morti negli stessi luoghi dei propri genitori, senza muoversi per più di pochi chilometri, hanno creduto e credono a complessi religiosi che provengono da lontananze cronologiche di migliaia di anni, fino all’avvento e alla diffusione di massa del personal computer hanno utilizzato gli stessi mezzi di trasmissione della scrittura dei loro antenati remoti, vivono (almeno in Occidente) secondo l’organizzazione della famiglia che hanno ereditato dal modello monogamico neolitico, con l’integrazione del piccolo gruppo parentale allomaterno (come lo definisce Sloterdijk in Sphären III) (Lucci, 2020).
[5] Non amo usare “storytelling”, ma credo che renda bene il senso dello slittamento, sciatto e superficiale, di certi termini, quando dal discorso scientifico, seguendo un trickle effect culturale, degradano nella scrittura giornalistica.
[6] Traslo un termine che in sociologia viene usato principalmente per indicare, nelle vite individuali, eventi come la morte di qualcuno a noi vicino, capace di modificare in profondità la struttura della nostra vita quotidiana, e di metterci direttamente, immediatamente in contatto con l’inesausta interrogazione umana sul senso delle cose.
[7] “Il racconto Terapia intensiva (1977), ad esempio, ritrae un mondo fatto di piccoli microcosmi individuali, in cui il contatto fisico fra persone non è concesso e si può comunicare con gli altri soltanto attraverso uno schermo. Vedersi di persona, infatti, potrebbe essere rischioso, se non addirittura mortale, e va dunque evitato. Un uomo però, deciso a trasgredire questa regola, organizza una riunione di famiglia, che ovviamente si risolverà in un disastro, minando ogni possibile confine fra affetto e disturbo per la presenza altrui” (Sacha Rosel, James G. Ballard narratore del futuro).
[8] Qui Zygmunt Bauman cita Alfred Schütz.
delle azioni prioritarie da attuare all interno del Piano Triennale ICT di Roma Capitale con l obiettivo finale di dare piena attuazione al Codice dell Amministrazione Digitale e gettare la basi per la costruzione della citt del futuro: Roma Capitale Smart. A questo proposito le strutture competenti in materia di organizzazione e trasformazione digitale avranno il compito di organizzare e coordinare l integrazione tra il mondo fisico e quello delle piattaforme digitali dell amministrazione; promuovere e valorizzare la co-progettazione delle piattaforme digitali; massimizzare l efficacia, l economicit e la coerenza dell azione digitale dell amministrazione capitolina, prevedere l adozione di linee guida. Al Responsabile per la Transizione Digitale affidato il compito di coordinare, verificare e controllare ogni progetto di innovazione all interno dell Amministrazione di Roma Capitale. Spetta al Dipartimento di Trasformazione Digitale il compito di coordinare l attivit di tutto il personale informatico delle Strutture capitoline e municipali impegnato nello sviluppo delle infrastrutture e dei servizi digitali dell Ente.