La demografia è quel ramo della statistica che meglio di ogni altro ci consente di prevedere gli scenari futuri. Sappiamo che la popolazione mondiale conta oggi 7,3 miliardi di individui, che arriveremo (salvo catastrofi cosmiche che non vogliamo neppure immaginare) oltre gli otto nel 2030 e i nove nel 2050. Sappiamo anche che nel 2100 l’umanità avrà superato la soglia dei dieci miliardi. Tuttavia il “peak baby” cioè il numero massimo di bambini tra 0 e 15 anni, si è già verificato all’inizio del millennio[i]. La crescita futura, pertanto, sarà dovuta all’abbattimento della mortalità infantile e all’allungamento della vita, mentre la fecondità calerà in tutto il mondo fino a stabilizzare la popolazione attorno alla fine del secolo.
Insomma, dobbiamo attrezzarci per ospitare altri tre miliardi di individui entro il 2100, senza però pensare che siano di fronte a una dinamica impazzita. Tuttavia la crescita demografica non sarà uguale dappertutto. L’Africa, che contava circa 250 milioni di abitanti nel 1950, arriverà a due miliardi nel 2050 e forse a quattro nel 2100. E già dal 2050 più della metà di questa popolazione vivrà in gigantesche megalopoli assai difficili da gestire.
In questo contesto, è molto utile il dossier raccolto e presentato da Carolina Facioni, che interroga alcuni tra i più autorevoli demografi italiani sulle principali incognite che riguardano il nostro avvenire. Leggendolo ne ho ricavato molte indicazioni utili, ma anche ulteriori interrogativi che cercherò di riassumere.
Innanzitutto, quanti migranti possiamo accogliere? Non ci sono dubbi sul fatto che senza l’apporto dei migranti la popolazione europea (e in particolare quella italiana) è destinata a restringersi e a invecchiare. Che c’è di male, chiede qualcuno. Meglio una popolazione più ridotta piuttosto che affrontare i disagi della multietnicità. In realtà il problema posto dalle proposte “no migration” non è solo quello dell’invecchiamento con conseguenti rischi per il sistema previdenziale e perdita di capacità innovativa (Massimo Livi Bacci ricordava di recente che tutti i premi Nobel scientifici sono stati assegnati magari molti anni dopo, ma per lavori svolti attorno ai 30 anni); il problema più grave del calo di popolazione è quello del calo della domanda interna che inevitabilmente comporterebbe[ii]. Se la popolazione si contrae, non può esserci crescita economica. Se invecchia, cambia in peggio la struttura dei salari, perché aumentano le badanti e diminuiscono i tecnologi.
D’accordo, abbiamo bisogno degli immigrati. Ma quanti dobbiamo accoglierne ogni anno? Quando nel dicembre scorso ho posto questa domanda ad alcuni demografi (in parte gli stessi che sono presenti in questo dossier) ne è emersa una risposta sconvolgente[iii]. Rebus sic stantibus, se non ci sarà un significativo aumento della natalità interna e considerando anche l’esodo di giovani italiani e il ritorno a casa di una parte degli immigrati, per mantenere la nostra popolazione all’attuale livello di 60 milioni dovremmo accogliere 250-300mila nuovi immigrati all’anno da oggi al 2050. Ma siamo in grado di integrare una tale massa di nuovi arrivi senza snaturare la nostra società? E, pur salvaguardando la doverosa accoglienza a chi fugge da guerre e dittature, chi dobbiamo privilegiare di fronte a una pressione migratoria strutturale e crescente? A queste domande la politica italiana fornisce solo risposte parziali e senza respiro. Nella sua intervista, Salvatore Strozza conferma che agire solo sulla immigrazione per contrastare la riduzione della popolazione porta a ipotesi insostenibili, ma resta aperto l’interrogativo se e come si possa favorire una ripresa della natalità interna.
Il secondo interrogativo riguarda la dialettica tra le generazioni. Abbiamo un numero crescente di giovani che non studiano e non lavorano, anche se (a differenza di quanto si tende a credere) non sono “bamboccioni” che stanno a casa a non far niente, ma in gran parte si tratta di persone che svolgono ricerca attiva di lavoro. Abbiamo al tempo stesso un’età lavorativa che si allunga, per evitare eccessivi oneri previdenziali. C’è chi dice che questa situazione impedisca il ricambio generazionale. Altri rispondono che in realtà i lavori lasciati liberi dagli anziani non sono gli stessi che offrono una prospettiva ai giovani: è più probabile che un vecchio operaio sia sostituito da un robot piuttosto che da un ventenne.
Quello che in realtà sta saltando è la nostra visione della vita divisa in una fase di studio che tradizionalmente arrivava attorno ai vent’anni (più bassa per i lavori meno qualificati, più alta per i laureati), una fase lavorativa fino ai 65 circa e quindi un pensionamento improduttivo. In futuro è necessario che lavoro e formazione continua si intreccino strettamente, dando ai giovani la possibilità di fare esperienze produttive fin dall’età della scuola superiore, ma consentendo a chi lavora in un sistema in continua evoluzione di apprendere in ogni fase della vita nuove capacità. Anche la vecchiaia dovrà commisurarsi agli anni residui di vita e non a una età anagrafica, come segnala Viviana Egidi in questo dossier, magari con una fase di lavoro anziano più orientato al sociale e meno alla produzione.
Tutto questo però comporta un grande impegno nella formazione dei giovani come conferma Alessandro Rosina nella sua intervista, ma anche degli adulti: non possiamo dimenticare che sulla base dell’indagine (www.oecd.org/skills) dell’Ocse sulla popolazione tra i 15 e i 64 anni, il 70% degli italiani non è in grado di cogliere l’essenziale da un libretto di istruzioni. In questo contesto è assai difficile preparare le persone a un rapporto più flessibile con il mondo produttivo.
Già, ma cosa sarà in futuro il mondo della produzione? Qui sta il terzo, drammatico interrogativo che Antonio Golini evidenzia con chiarezza: se aiutiamo i paesi in via di sviluppo a crescere, il primo effetto dell’aumento della produttività sarà una drastica riduzione del lavoro in agricoltura. Non è detto che industria e servizi possano riassorbire le masse che lasciano le campagne. Più in generale, come mettono in evidenza molti protagonisti del mondo di oggi[iv] che a vario titolo si sono posti questo problema, è molto probabile che la tecnologia non crei altrettanti posti di lavoro di quelli che distrugge. In futuro le macchine saranno in grado di mantenere e accrescere la produzione con un minor apporto umano, ma il lavoro è anche status nella società, gratificazione individuale, oltre che distribuzione di reddito. Come far sì che il progresso tecnologico non accentui a dismisura le diseguaglianze, emarginando masse di cittadini condannati a lavori precari e sottopagati o addirittura alla disoccupazione e creando le base per uno “sviluppo insostenibile” sul piano sociale?
C’è chi propone di dividere tra tutti la proprietà dei robot; molti ipotizzano il diffondersi di un reddito di cittadinanza. Forse questa sarà la strada scelta in futuro, ma è anche evidente che il fatto di assicurare a tutti la sopravvivenza non garantisce un minimo di democrazia e di condivisione del potere tra chi domina finanza e tecnologia e chi invece è escluso dal controllo di questi processi. Gli obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable development goals – Sdgs) che l’Onu ha varato da pochi mesi si propongono appunto, se non di risolvere, quanto meno di porre sotto controllo questi fenomeni entro il 2030, nella convinzione che la sostenibilità non è solo un problema ambientale, (dove peraltro le sfide sono importantissime, in questi tempi di cambiamento climatico), ma presuppone un grande impegno sul piano sociale contro povertà e diseguaglianze e per promuovere salute, istruzione, parità di genere. Gli Sdgs sono stati sottoscritti da 175 governi delineando una scommessa mondiale sulla sostenibilità che impegna anche l’Italia dove oltre 100 associazioni si sono unite nell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (www.asvis.it) per compiere insieme questo percorso. Per vincere questa scommessa è però necessario cambiare profondamente visione e priorità.
[i] Don’t Panic – The Facts About Population, http://www.gapminder.org/videos/dont-panic-the-facts-about-population/
[ii] Donato Speroni, Giovannini: senza immigrati avremo un’Italia non solo più vecchia ma anche più povera, “Numerus – Corriere della Sera”, 11 gennaio 2016, http://bit.ly/1TUEY1j
[iii] Donato Speroni, Ogni anno da oggi al 2050 dovremo dire benvenuto a circa 300mila immigrati, “Numerus – Corriere della Sera”, 19 dicembre 2015, http://bit.ly/1XcgCnP
[iv] Donato Speroni, Indagine del Millennium Project che succede se nel futuro non ci sarà lavoro per tutti, “Numerus – Corriere della Sera”, 18 agosto 2015, http://bit.ly/1UfiQMj