Più o meno a metà del suo best-seller Future Shock, Alvin Toffler raccontava il caso di un “barbuto soldato chindit” il quale “combattendo con i reparti del generale Wingate dietro le linee giapponesi in Birmania, si addormentò, effettivamente, mentre una tempesta di pallottole di mitragliatrice si abbatteva intorno a lui”. Questo caso, che studi successivi dimostreranno non essere stato affatto isolato nel corso del secondo conflitto mondiale, divenne per il sociologo e futurologo americano la metafora della vittima dello “choc del futuro”. Immersa in un mondo in rapida e radicale trasformazione, senza più punti di riferimento, bombardata costantemente da stimoli che richiederebbero, in risposta, un adattamento continuo e immediato, la vittima dello choc del futuro preferisce lasciarsi trascinare dalla corrente piuttosto che impegnare le sue forze per restare a bordo. Forse non ce ne rendiamo conto, ma queste persone oggi sono tutte intorno a noi. Forse lo siamo noi stessi: persone rimaste indietro mentre il resto del mondo corre in avanti. Nel 1970 era questo il futuro previsto da Toffler, scomparso il 27 giugno scorso all’età di 87 anni: era il mondo in cui viviamo.
Ho ripreso in mano Lo choc del futuro subito dopo aver appreso della morte di Toffler. Quando uscì ero ancora ben lontano dal nascere, ma ne avevo sentito molto parlare e, agli inizi di questo decennio, ne trovai una copia sulle bancarelle dell’usato. Senza dubbio è stata una delle letture più importanti della mia vita; nel 2013, scrivendo insieme ai soci fondatori dell’Italian Institute for the Future il manifesto “Ricostruiamo il futuro”, intitolammo il primo capitolo proprio “Lo choc del futuro”. Perché, nonostante siano passati ben quarantasei anni da quando questo libro vide la luce, diventando in pochi mesi un best-seller mondiale, la sua attualità, la sua preveggenza, la portata rivoluzionaria dei suoi suggerimenti mi sembrò immutata cinque anni fa e ancor di più oggi che sono tornato a sfogliarne di nuovo le pagine.
Di libri sul futuro ne sono stati scritti, e se ne scrivono, tantissimi. La maggior parte di questi assume toni entusiastici, enfatici, esaltanti nel raccontare i cambiamenti che verranno. Molti di essi si sono rivelati un po’ troppo ambiziosi, dal momento che né le colonie su Marte né le auto volanti fanno parte oggi della nostra vita. Altri sono invece piuttosto pessimistici e raccontano di un mondo che corre verso la catastrofe e l’apocalisse. Toffler, in Future Shock, assumeva al contrario un altro tono. Il suo sguardo era puntato sull’uomo, sull’individuo, sul minuscolo occupante di questa nave trascinata dalla corrente del mutamento, di cui in genere quasi nessuno si cura. Cosa pensa quell’omino sballottolato tra le onde, cosa prova nel corso della sua esistenza così diversa rispetto a quella delle generazioni che lo hanno preceduto, rimaste per secoli ancorate negli stessi porti? Toffler era in grado di distinguere le profonde differenze tra individui di una stessa società orientata verso il futuro: lungi dall’essere un blocco compatto e omogeneo, questa società postmoderna è composta da tante individualità che reagiscono in modo diverso al mutamento. Una gran parte di esse reagisce in modo positivo, vivendo la società iperstimolata e iperconnessa come una gigantesca opportunità, immergendosi fino in fondo per godere l’ebbrezza di un mondo frenetico che non lascia il tempo di annoiarsi; ma un’altra parte, solo apparentemente minoritaria, solo apparentemente marginale, fatica a tenersi a galla, annaspa, cerca costantemente un appiglio a cui afferrarsi, e nel frattempo, per quanto tenti di restare al passo, vede la grande nave del mondo allontanarsi sempre più verso l’orizzonte. Queste sono le vittime dello choc del futuro.
Prima di Ray Kurzweil e dei teorici della “singolarità tecnologica” e dell’accelerazionismo, Toffler aveva discusso della spinta acceleratrice della civiltà postmoderna, alimentata dalla logica dell’usa-e-getta, della mentalità di breve termine, dell’obsolescenza tecnologica e commerciale, della riduzione delle distanze attraverso l’affermazione di un élite transcontinentale (il “club dei 4.800.000 chilometri”) abituata a trascorrere una vita da pendolari a bordo di aerei di linea per curare i propri affari e consolidare le proprie carriere. Guardando al contesto americano, Toffler leggeva nell’aumento forsennato dei trasferimenti e dei traslochi delle famiglie uno sradicamento territoriale frutto della flessibilità del lavoro, che se per molti rappresentava una situazione stimolante, per altri costituiva un autentico trauma, impedendo la costruzione di legami stabili e duraturi, non solo sul piano personale ma anche su quello della comunità circostante: tra gli effetti dello sradicamento costante, infatti, Toffler citava il completo disinteresse nei confronti del proprio vicinato, della propria città, della politica del paese in cui ci si ritrova in un certo momento a vivere, a causa della consapevolezza che di lì a qualche anno si dovrà andar via.
Prima ancora che di Internet ci fosse solo l’idea nella mente di qualche scrittore di fantascienza, Toffler parlava di information overload, il “sovraccarico di informazione” che rappresenta innegabilmente una delle più grandi e sottostimate piaghe del nostro tempo: “Quando l’individuo viene immerso in una situazione che muta rapidamente e irregolarmente, o in un contesto saturo di novità, la sua capacità di prevedere con accuratezza crolla”, scriveva. A suo dire, esiste un limite naturale alla nostra capacità e celerità di elaborazione dell’informazione, oltre il quale non possiamo spingerci. Cosa direbbe oggi, nell’epoca del multitasking, della connessione H24, degli smartphone e dei progettati (anche se al momento ritirati) Google Glass? Scuoterebbe la testa e si limiterebbe a ricordarci: “Ve l’avevo detto”.
Ma ci aveva detto anche altre cose. Ci aveva messi in guardia dagli effetti dello choc del futuro sulle nostre società. Tra le possibili reazioni, Toffler citava la tendenza al ritorno al passato, cavalcata dai politici della destra reazionaria: “I nostalgici del passato di età matura e politicamente di destra anelano alla società semplice e ordinata delle piccole cittadine, l’ambiente sociale dal ritmo lento nel quale le loro routine di un tempo erano appropriate. Invece di adattarsi al nuovo, continuano automaticamente ad applicare le soluzioni del passato e, così facendo, finiscono con il divorziare sempre più dalla realtà”. Qualcuno ha appena detto Brexit? Bè, impossibile non pensare di applicare quest’analisi al voto di un elettorato anziano e conservatore in Gran Bretagna, che tuttavia da solo non avrebbe potuto portare all’esito del referendum dello scorso 23 giugno. Perché, se si vuole interpretare quel risultato come la risposta di una fetta della popolazione “tagliata fuori” – ed è, questa, l’interpretazione sposata anche dall’Economist nel suo editoriale di questa settimana – bisogna includervi anche quella parte delle generazioni più giovani che non hanno goduto dei benefici della società tecnologica e globalizzata, per i quali la promessa di un futuro di opportunità sconfinate è rimasta, per l’appunto, solo una promessa. Toffler non ne faceva infatti una questione generazionale, per quanto sia incontrovertibile – e lo scrivevamo a chiare lettere nel nostro manifesto fondativo – che la distanza di mentalità tra i poli generazionali oggi sia quasi incolmabile, tanto da far sentire soprattutto i più anziani vittime dello choc del futuro. Ma non è solo questo. Ancora l’Economist, interpretando questa settimana lo choc del referendum della settimana scorsa, riconosce che il risultato è stato frutto, tra le altre cose, di “una sensazione che il mondo stia diventando sempre più incomprensibile e incontrollabile”, da cui lo slogan “Vote Leave! Take Control!”. Il desiderio di recuperare il controllo di una nave che da troppo tempo ormai è guidata da comandanti senza volto ha spinto anche moltissimi giovani a votare “Leave”, sulla base della convinzione che “il progresso è ciò che è accaduto ad altri”. Sì, è vero, c’è una generazione Erasmus lì fuori che crede nel progresso, ma c’è una generazione ad essa coetanea che al progresso non ci crede più, perché da esso non ha tratto che disagi e svantaggi.
Toffler non era assolutamente un critico del progresso, un luddista, un conservatore. Tutt’altro: era piuttosto un pragmatico a cui avremmo fatto bene a prestare maggiore ascolto. Per evitare lo choc del futuro, scriveva, “non ci occorre né una cieca accettazione né una cieca resistenza, ma tutta una serie di strategie creative per forgiare, deviare, accelerare o decelerare selettivamente il mutamento”. E nell’ultima parte di Future Shock, Toffler si spingeva a suggerire numerose possibili strategie. Tra le più affascinanti, per esempio, troviamo quelle di enclave del passato e del futuro, posti in cui poter conservare le tradizioni del passato o piuttosto testare in modo meno vincolato le innovazioni tecnologiche, allo scopo di “sperimentare” il progresso su piccola scala prima di estenderlo su larga scala, per evitare possibili effetti collaterali, e lasciando sempre una possibilità per coloro che lo desiderano di “fermare il mondo e scendere”. Tra le più lungimiranti, troviamo l’idea di istituire in ogni comunità dei “consigli del futuro”, in grado di “generare immagini successive e alternative del futuro, ipotesi sul genere di occupazioni, di professioni e di vocazioni che potranno essere necessarie nel futuro, da qui a venti o cinquant’anni; ipotesi sul genere di strutture familiari e di relazioni umane che prevarranno; sui tipi di problemi etici e morali che si presenteranno; sul genere di tecnologia che ci circonderà e sulle strutture organizzative nelle quali dovremo inserirci”. Inutile forse aggiungere che questo passaggio fu quello che maggiormente colpì la mia immaginazione, come aveva colpito quella di molte persone che mi avevano preceduto nel cercare di seguire il suggerimento di Toffler e fondare, in giro per il mondo, questi “consigli del futuro”. Ci stimola e ci incoraggia ancora oggi, a quarantasei anni di distanza, a pochi giorni dalla sua morte, rileggere infine questa sua esortazione: “I giovani devono contribuire a dirigere, se non, in effetti, avviare, questi consigli, in modo che i «futuri presunti» possano essere formulati e discussi da coloro che, presumibilmente, inventeranno il futuro e vivranno in esso”. Ieri come oggi, Alvin Toffler continua pertanto a guidarci nel nostro lavoro.
Bell’analisi. Chiara e intrigante!
Leggerò qualcosa di suo subito. Grazie!