In apertura: rendering del LunaFab proposto dal Center for Near Space.
Lo spazio può essere inteso in molti modi: può essere una dimensione esatta, lo spazio tra due edifici; una distanza tra due entità, lo spazio che ci divide o unisce; lo spazio inteso come entità indefinita e illimitata all’interno del quale sono situati e si muovono i corpi. Quest’ultima definizione può avvicinarsi all’intento degli artigiani dello spazio, in particolare artigiani di spazi abitati, “luoghi di condensazione sociale”, connessioni fisiche ed emozionali, anche se per l’architetto/artigiano “cos’è lo spazio” è sempre una domanda cui dare una risposta.
Nei primi decenni del Novecento, reagendo all’ecclettismo ottocentesco, prende forza l’istanza funzionalista. Occorre dare risposta a forti trasformazioni sociali, prende corpo l’esigenza di garantire un alloggio per tutti. José Ortega Y Gasset enuncia La ribellione delle masse (1929). Predominano risposte settoriali, manca la capacità di dare utopia alla realtà. Un decennio dopo la Seconda guerra mondiale – forse anche riflettendo sul Lijnbaan di Rotterdam, la via pedonale dello shopping aperta nel 1953 sulle macerie del vecchio quartiere, che sembra indicare una nuova via – un gruppo di giovani irruenti di fatto pone fine alla sclerosi dei CIAM (Congressi Internazionali di Architettura Moderna) e prendono corpo le tesi del Team X.
Di dogmi ne è piena la storia dell’architettura. Ancora nella prima metà del Novecento, di fatto prevale un’architettura dogmatica e repressiva. In Russia, in Germania, in Italia (ma non sono soli) l’architettura è strumento di propaganda politica. Troppo spesso sembra votata a schiacciare la natura e l’uomo; edifica muri piuttosto che ponti. Dal primo dopoguerra in poi sociologi, architetti, filosofi iniziano invece a interrogarsi su quali siano gli scopi più profondi della trasformazione urbanistica e sociale e sul come porre una netta linea di confine con un passato poco libero. Un nuovo senso di libertà e apertura che trova però contro il forte muro di una società razionale e capitalista sempre pronta a mettere limiti e barriere definendo lotti chiusi circoscritti ad alta produttività a discapito di una bassa qualità della vita.
Ne sono un esempio l’impianto urbanistico della città di New York, una rigida maglia geometrica dove trovano spazio singoli edifici privi di relazione se non all’interno del loro isolato. Una foresta di isolati egocentrici che hanno colmato l’intera isola di Manhattan, relegando il verde all’unico prevalente polmone del Central Park. Una Ville radieuse almeno in parte; un’applicazione pratica di uno slancio progettuale visionario per l’epoca in cui veniva concepito, che si scontra oggi con un modo di vivere in evoluzione continua che cerca di appropriarsi dello spazio in maniera diversa, dove il rapporto ecocentrico con la natura, in cui prevalgono le logiche di immersione, vince sulla dominante propensione all’egocentrismo, dove prevalgono le regole interne proposte dalla società moderna.
Volendo identificare la città antica con la presenza di una distinzione netta fra centro edificato e campagna, e la città moderna nell’assenza di un confine netto fra campagna e città, si può notare come il caso di New York non riesca a superare questo limite, anche se a livello teorico riesce nell’intento di salvare una porzione di città dall’edificazione intensiva, mantenendo, al posto delle mura difensive, le cortine edilizie. Da questo tentativo emerge il grande problema della dimensione complessiva, che quando diventa eccessiva tradisce l’idea iniziale: un paradosso che diventa spunto per migliorare.
La battaglia più grande contro i muri fisici e mentali la vince nel 2002 l’artista austriaco Robert Kalina. Nel mondo delle distanze, per la grafica di tutte le banconote di un’Europa ancora acerba se pur costituita, realizza connessioni grafiche mediante ponti mai realizzati che mettono in connessione e relazione vari stati e differenti mentalità. Il futuro parte da qui, da connessioni e relazioni tra uomo e natura intesi come tutt’uno e non divisi, separati. Abbiamo necessità di portare la natura dentro le abitazioni, le piazze, gli edifici; e viceversa di portare l’artificio nella natura per riammagliare le fratture urbane mediante sapienti ricuciture e sostituzioni.
Non si pensa più alle città come sistemi o habitat monocentrici, ma inizia a palesarsi un atteggiamento propenso alla città diffusa, dove la periferia diventa una parte del tutto sempre in relazione all’epicentro generatore, non più un’appendice o un elemento a margine. Inizia a riemergere un’idea di paesaggio arcaica, proiettando la natura dentro e sopra l’edificato per qualificare e riqualificare i luoghi dell’abbandono verso la città policentrica, dove l’unica centralità risiede nella natura ecocentrica, unico vero centro della città diffusa. Questo processo evolutivo trova compimento nelle città sulla Terra, dove domina il rapporto tra natura e artificio e ogni progetto non è altro che un frammento che diventa parte dell’ambiente di un paesaggio identificativo di civiltà e cultura, memoria di ogni singolo luogo; potremmo dire che su scala planetaria ci occupiamo prevalentemente di “restauro del paesaggio terrestre”, inteso come insieme di opera antropica e natura, creando le connessioni mancanti.
Nel Quarto ambiente, ad esempio in una Stazione Spaziale, tutto è artificio, la natura è fuori. Qui trovano ancora validità le unità autonome isolate, ha ancora senso la triade utilitas / firmitas / venustas, ormai inconcepibile nel costruire qui sulla Terra dove è intenso il bisogno di relazioni, non più di autonomia. La logica di espansione, legata a doppio filo con l’evoluzione e la presenza umana sulla Terra, ci porta verso nuovi scenari volti a staccarci da questa roccia, ipotizzando possibili scenari legati agli insediamenti lunari. A oggi questi ultimi rientrano nei megatrend a medio-lungo termine più in voga, date le recenti scoperte sulla presenza di acqua sul nostro satellite, che lo rende luogo potenzialmente candidato a ospitare – seppur gradualmente – la vita umana. L’ultimo aggiornamento, direttamente dal sito della NASA, ci avvisa che con la missione Artemis “la donna ritornerà sulla Luna” nel 2024.
Se quindi nello Spazio possiamo utilizzare o ritenere validi i principi vitruviani, e sulla Terra possiamo ritenere valido il “restauro”, il futuro dell’esplorazione lunare o dell’insediamento umano sulla Luna è invece un campo aperto, nuovo terreno per l’esplorazione e la costruzione. Su questa nuova superficie, in questo nuovo luogo ha senso utilizzare un approccio che possiamo definire “approccio archeologico”. Sulla Luna la gravità è circa un sesto di quella terrestre: è quindi facile puntare al minimo impatto al suolo (approccio conservativo, o “archeologico”): strutture “sospese”, integrate, capaci di crescere senza aggiungere blocchi, ma quasi secondo principi “organici”. Evitando di frazionare e minimizzando i lavori a terra – oltre a ridurre gli sforzi – l’approccio archeologico salvaguarda ciò che deve essere indagato ed evita il ripetersi di errori sulla Luna, non rari sulla Terra.
In tal senso, la proposta del Center for Near Space (CNS) dell’Italian Institute for the Future per il futuro insediamento lunare è un “nucleo stabile” costituito da una semisfera di ghiaccio e regolite (materiali a chilometro zero) di 50 metri di diametro con scomparti tipo domopack e sistemi di controllo pressione / temperatura per evitare la sublimazione del ghiaccio. Un habitat lunare che consente la vita delle persone all’interno di una cupola sospesa su piedi telescopici, favorendo libertà di movimento sul suolo lunare a supporto dell’estrazione di materiale e della ricerca sul campo. L’emisfero conterrà aria e piante (verde agricolo) e contemporaneamente proteggerà dalle radiazioni, catturerà energia, garantirà la trasparenza. Data la perenne condizione notturna, l’illuminazione artificiale sarà assicurata da illuminazione a basso consumo unita alla stessa capacità del ghiaccio di rifrangere la luce.
Questa visione del CNS afferma e fa suoi i principi dell’approccio archeologico sulla Luna. L’idea di fondo è che la futura espansione, fisica e di confini, per un’umanità consapevole, dovrà andare oltre la ripetizione di rigide logiche funzionali, spingendo la collettività verso logiche organiche che consentano intrecci e commistioni, per portare su altri pianeti un bagaglio culturale alleggerito da imposizioni e impostazioni del tutto terrestri.