L’human enhancement nuovamente al centro della trama di una pellicola cinematografica. Questa volta è Ghost in the Shell a ridare centralità al tema dei potenziamenti umani, grazie a impianti cibernetici volti al miglioramento delle capacità dei protagonisti del film diretto da Rupert Sanders. Ma il Maggiore Mira Killian (interpretato magistralmente da Scarlett Johansson), uno dei membri operativi della task force Sezione 9, è qualcosa in più di un semplice umano migliorato: è un perfetto cyborg, una macchina da guerra capace di sfruttare magistralmente i propri punti di forza come la velocità e la forza. L’unico aspetto umano che contraddistingue il Maggiore è il cervello, sottratto a un malandato corpo biologico originale a seguito di un incidente. È la dottoressa Ouélet (Juliette Binoche) ad aver unito il meglio dei due universi, quello umano e quello robotico. La dimensione simbolica rivela come, anche nel cyborg, il software e dunque il centro di comando appartenga all’umano, mentre l’hardware è demandato alla robotica, dunque alla tecnica. La stessa dinamica è riproposta nel momento dell’unione concreta del cervello con il corpo robotico. La mente dell’operazione resta la dottoressa Ouélet, mentre l’esecuzione concreta è affidata alla precisione chirurgica di adeguati arti automatizzati.
Tutto ciò per garantire alla sezione di Sicurezza Pubblica numero 9 – un’organizzazione antiterroristica cibernetica gestita dalla Hanka Robotics un capo all’altezza delle delicate sfide da affrontare. In particolare, sarà l’indagine sul misterioso Kuze (interpretato da Michael Pitt) ad impegnare la sezione. Il cyberhacker, capace di penetrare nelle menti con intenti assassini, metterà sempre più in crisi le certezze del Maggiore Mira Killian, in bilico tra vecchi ricordi e un presente da delineare. Ma anche tra la scelta di un futuro transumano o postumano. Siamo di fronte a un’umanità che accoglie e abbraccia la tecnologia innanzitutto nel proprio habitat urbano. Questo perché il matrimonio del nostro corpo con la tecnologia non potrebbe funzionare se non fossimo già immersi in un contesto paesaggistico artificiale, dove atomi e bit concorrono alla creazione di unico ambiente, denso di informazioni e rappresentazioni. Lo scenario visto in Ghost in the Shell si rifà a un’estetica cyberpunk, con un’architettura in grado di occupare qualsiasi spazio in orizzontale, per cui è costretta a svilupparsi in verticale. Torri e grattacieli sovrastano ogni altra cosa mentre le luci delle insegne pubblicitarie irradiano lo scenario, mettendo in evidenza noti brand orientali ed occidentali, come Adidas, Honda e Konami. Oltre alle insegne fisiche, è possibile notare la pervasiva presenza di ologrammi, in grado di essere visibili a occhio nudo e senza l’ausilio di supporti tecnologici, come i visori di realtà mista Microsoft HoloLens. Il film ci offre anche l’occasione di stimolare una discussione appropriata su nuove possibili tendenze nell’ambito del marketing, dove brand più o meno noti cercano di lottare per conquistare ciò che di più prezioso possa esserci nel commercio: l’attenzione. E oggi e sempre più nel prossimo futuro è possibile farlo attraverso le tecnologie immersive come realtà aumentata, realtà virtuale e ologrammi, capaci di abbattere letteralmente le distinzioni esistenti tra mondo fisico e mondo digitale. Ma anche di generare curiosità, interesse e divertimento, grazie a esperienze coinvolgenti e assolutamente uniche.
Soprattutto, l’umanità di Ghost in the Shell accoglie la tecnologia nel proprio corpo, costruendo un involucro robusto e resistente all’usura, ma anche capace di consentire movimenti agili e veloci. La tecnologia non rappresenta più una semplice estensione del nostro corpo, ma sostituisce completamente il nostro contenitore biologico. Possiamo ben vederlo con gli occhi cibernetici di Batou (Pilou Asbæk), impiantati con una specifica operazione e in grado di garantire la vista a raggi X. Il Maggiore Mira si troverà di fronte a un bivio posto da Kuze: restare transumana o annientare del tutto la propria parte umana per giungere a una condizione di postumanità? È questa la grande tematica posta dal film. Mira si troverà più volte di fronte allo specchio, per riconoscersi e cercare di far luce tra i suoi oscuri ricordi, che ritornano dopo brevi glitch. Si toccherà la pelle, per cercare di comprendere la propria natura. Andrà di notte alla ricerca di umani. Troverà una donna e la bacerà intensamente, assaporando le sue labbra e godendo dell’essenza biologica umana.
Nel 2008 la Dreamworks di Steven Spielberg acquistò i diritti cinematografici per realizzare l’adattamento live action del manga Ghost in the Shell di Masamune Shirow, serializzato per la prima volta in Giappone sullo Young Magazine nel 1989. Sono stati spesi oltre 110 milioni di dollari (in parte co-finanziati dalla Paramount Pictures) per cercare di immergere il più possibile l’utente nel mondo immaginato dallo stesso Shirow. Le critiche al film, più che alla trama semplice e lineare, sono state rivolte all’operazione di occidentalizzazione del prodotto culturale. A partire dalla scelta della protagonista, dove è stato preferita Scarlett Johansson ad attrici orientali. Una scelta studiata sin dall’inizio, visto che tra settembre e ottobre 2014 venne avviata una trattativa con Margot Robbie per interpretare il ruolo del Maggiore Mira. Ma l’attrice australiana preferì entrare nel cast di Suicide Squad, così la parte fu proposta alla stessa Scarlett Johansson, nonostante le critiche di whitewashing. L’Hollywood Reporter ha indagato tra gli spettatori nipponici e le opinioni sono state positive, soprattutto per quanto riguarda il caso di whitewashing, visto che la performance della Johansson è stata largamente apprezzata. Ulteriori polemiche si sono scatenate intorno ai rumors relativi a operazioni di Computer Graphics per modificare l’aspetto della Johansson e renderla più vicina ai canoni estetici orientali. Ipotesi successivamente smentita dalla Paramount, che ha precisato come la tecniche avanzate di grafica per orientalizzare i tratti fisici degli attori siano state utilizzate soltanto in fase di test.
Anche il nome della protagonista è stato adattato ad un prodotto di respiro internazionale. Dal Maggiore Motoko Kusanagi, simbolo del manga originale, si è passati al Maggiore Mira (chiamata spesso, sia nel film sia nel materiale promozionale semplicemente “Maggiore”). Il film, dunque, non ha aggiunto nulla di nuovo in termini di tecnologie e conseguenti implicazioni etiche rispetto al manga. Ciò che è mutata è la collocazione territoriale di Ghost in the Shell. Il film approfondisce un contesto internazionale, dove sono presenti persone e brand provenienti dagli Stati Uniti, dall’Inghilterra, dal Giappone, dalla Cina. Sullo stesso scheletro narrativo del manga originale, Sanders con questo film mostra nuova pelle e nuovi muscoli, molto più abbronzati e anabolizzati per assecondare le tendenze estetiche e i bioritmi adrenalinici dell’action dei nostri tempi. Non è la prima volta che il regista esplora tematiche come l’intelligenza artificiale e le armi robotiche. Nel 2009, infatti, si è occupato della regia dello spot di Halo 3: ODST, aggiudicandosi due Leoni d’oro. Il regista, d’altronde, aveva già effettuato un’operazione simile a Ghost in the Shell nel 2012, quando aveva interpretato in chiave dark fantasy Biancaneve e il Cacciatore. Stavolta la riproposizione ha funzionato a metà, rendendo scontenti i cultori del manga originale ma appassionando il resto del pubblico, bramoso di dare un senso a ciò che sta accadendo al mondo e presto potrebbe accadere ai nostri corpi.
[…] furono scritti già nel 1949 (Gilbert Ryle) e effettivamente esistono veramente diversi GHOAST IN THE SHELL (spiriti nella conchiglia) transumano e post-umano. Questo perché sin dagli inizi sono state […]