Qualcosa in Italia si sta muovendo. Il convegno organizzato dal Politecnico di Torino dal 28 al 31 ottobre, intitolato “Science and the Future”, ha costituito un’occasione importante di dibattito sui temi di riferimento dell’Italian Institute for the Future: le politiche di lungo termine, i limiti dello sviluppo, il cambiamento climatico, la sostenibilità ambientale, le città del futuro e tanto altro ancora. Un’occasione ancor più importante dal momento che non è stata legata a nessun anniversario particolare, tale da far sospettare un’operazione estemporanea. Si è parlato molto di Club di Roma, di Aurelio Peccei, del Rapporto sui limiti dello sviluppo in una prospettiva di lungo periodo, a oltre quarant’anni dalla pubblicazione del primo rapporto. Si è discusso di temi di cui si parla poco o nulla nelle università del nostro paese: il rapporto tra riduzione delle risorse e crisi economica, per esempio, avanzato da Ugo Bardi, o quello tra crescita della complessità e riduzione dell’innovazione, toccato da Joseph Teinter.
Ma un filo conduttore di tutti gli interventi succedutisi nel corso dei quattro giorni è emerso prepotentemente e tuttavia rimasto ai margini, sospeso quasi come uno spettro sulla platea del convegno: il tema dei limiti delle previsioni. Usiamo questo termine per legarlo al titolo del famosissimo primo rapporto al Club di Roma del 1972, I limiti dello sviluppo. Proprio l’analisi a distanza di oltre quarant’anni di quel rapporto – che pure è stato aggiornato più volte – impone una riflessione sulle previsioni. È innegabile, come ha ricordato il “patron” del convegno, Angelo Tartaglia, che la scienza sia in grado di fare previsioni: certi fenomeni sono deterministici e producono sempre gli stessi effetti date certe circostanze. È così per le orbite dei pianeti, le reazioni chimiche, persino per fenomeni più complessi, come la dinamica dell’atmosfera, che è di tipo non-lineare, ma prevedibile su un arco di tempo non troppo lungo. Ben più difficile è fare previsioni su fenomeni complessi e caotici come quelli che riguardano la civiltà umana. Nel convegno questo tema è stato toccato poco, ma in realtà era presente pressoché in tutti gli interventi. Quando infatti si parla di limiti delle risorse disponibili per il progresso della civiltà umana, si tocca un concetto solo apparentemente legato a fattori prevedibili scientificamente – la finitezza delle risorse e quindi il loro futuro esaurimento. Vale la pena ricordare che ne I nuovi limiti dello sviluppo, pubblicato a trent’anni dal precedente, gli autori Donella e Dennis Meadow e Jorgen Randers scrivevano che “nel 2100 il mondo avrà ancora una frazione significativa delle risorse che aveva nel 1900”. La preoccupazione “nasce piuttosto dal costo crescente dello sfruttamento delle sorgenti e dei pozzi planetari… Verrà il giorno in cui [i costi] saranno tanto elevati che la crescita industriale non potrà più essere sostenuta”.
I costi tecnici legati allo sfruttamento delle risorse, com’è evidente, non sono un fattore deterministico, prevedibile scientificamente, a differenza della quantità di risorse finite, che invece può essere calcolata (ma mantiene un elemento di aleatorietà legato ai limiti della nostra conoscenza su giacimenti non ancora noti). Questo spiega perché il Rapporto sui limiti dello sviluppo non abbia avuto, nei quarant’anni precedenti, l’impatto che ci si aspettava sul mondo politico ed economico (a differenza di quello, enorme, avuto sul mondo ambientalista). Nel corso dei decenni, lo sviluppo tecnologico è stato in grado di inventare sistemi di sfruttamento di quelle risorse che all’epoca non erano immaginabili. Ciò è tanto più vero pensando al petrolio, il cui “picco di Hubbert” è stato predetto decenni fa ed è probabilmente ancora di là dal venire. Certo, è vero che il costo di un barile di petrolio è salito da una decina di dollari a un centinaio nel corso degli ultimi trent’anni. Ma sarebbe anche ingenuo penare che questo aumento sia dovuto esclusivamente all’aumento dei costi di estrazione. La scoperta di nuovi giacimenti e lo sviluppo di strumenti in grado di perforare più in profondità ha allontanato di molti anni il picco di Hubbert.
Un esempio ancora più importante è legato alla conferenza di Pietro Garibaldi sullo shale gas. Dieci anni fa la guerra in Iraq era – giustamente – interpretata dalla maggioranza degli analisti come un conflitto dovuto alle necessità di sicurezza energetica degli Stati Uniti. Dieci anni dopo, con il “boom” dello shale gas gli Stati Uniti si stanno avviando verso l’indipendenza energetica: un concetto inconcepibile solo dieci anni fa e che cambierà completamente gli scenari geopolitici. Si può dibattere sul fatto che lo shale gas sia o meno una “bolla”, com’è stato fatto nel corso del convegno. Ma non si può ignorare che questo scenario non era stato assolutamente previsto.
Esiste quindi un limite alle previsioni. Come centro di futures studies, noi dell’Italian Institute for the Future ne siamo consapevoli. Crediamo però che sia importante aumentare questa consapevolezza e provare a discutere se sia possibile cercare di inserire il fattore dell’imprevedibilità dello sviluppo tecnologico e dell’innovazione nel lavoro dei “futurologi”. Joseph Tainter, nella sua illuminante conferenza, ha presentato una serie di grafici che mostrano il calo del ritmo dell’innovazione nei principali settori di R&S. La sua tesi è che l’innovazione non è connaturata alla specie umana, ma è diventata fattore dominante solo negli ultimi secoli; con l’aumento crescente della complessità nei settori di ricerca, l’innovazione tenderà a ridurre il suo ritmo fino ad arrivare alla stagnazione, preludio di un possibile collasso della civiltà. Senza dubbio sono reali e importanti le considerazioni di Teinter sull’aumento della complessità (tesi ripresa dal recente Eventi X di John Casti). È tuttavia ingenuo credere che non vi saranno, nei prossimi anni, innovazioni del tutto imprevedibili che cambieranno le carte in tavola. Nei grafici mostrati da Tainter potrà emergere una nuova linea, legata a una scoperta in grado di aprire un settore del tutto nuovo di sviluppo, con una tendenza a crescere anziché a diminuire. È successo oltre vent’anni fa con Internet. È successo dieci anni fa con i social network. Sta succedendo oggi con il grafene, per esempio.
L’innovazione umana è insomma un fattore imprevedibile, in grado di mutare gli scenari previsionali legati ad analisi scientifiche e deterministiche come l’esaurimento delle risorse. Secondo alcuni “tecnottimisti”, come Matt Ridley e David Deutsch, che al tema ha dedicato il suo ultimo libro recentemente uscito in Italia, L’inizio dell’infinito, l’innovazione risolverà tutti i problemi e porterà l’umanità verso un futuro di successi infiniti. Può essere difficile condividere l’ottimismo di fondo di questi autori, ma le loro tesi restano ampiamente condivisibili. Per chi si occupa di futuro, ignorare il limite delle previsioni dovuto all’innovazione e all’ingegno umano vuol dire non far bene il proprio lavoro. Sarebbe interessante dedicare alla questione, nei mesi a venire, un nuovo stimolante momento di riflessione, com’è stato “Science and the Future”.