Parto da un’ammissione personale: non sapevo cosa fossero i TED fino a sei mesi fa. Mi trovai, in una mezz’ora libera tra due conferenze che dovevo seguire per lavoro, a una presentazione dei TED nell’ambito del Wired Next Fest di Milano. Probabilmente mi ero già trovato a vedere qualche video di vecchi talk, ma non sapevo che facessero parte di un format così rigido e di successo come quello. I TED Talks, per chi non lo sapesse, sono brevi conferenze tenute da uno speaker su un palco. Niente che non conosciamo già, se non che gli oratori invitati dagli organizzatori devono essere “innovatori” di primo piano (ci sono stati scienziati, leader politici, economisti e tutto il gotha che potete immaginare), con idee in grado di cambiare il mondo, con un tempo prefissato a loro disposizione e in grado di spiegare quelle idee a un pubblico selezionatissimo che paga oltre 5000 euro per prendere parte a questi incontri. Quando venni a sapere che il biglietto per assistere a questi talk raggiungeva simili cifre (perlomeno ai TED che si tengono una sola volta l’anno in diverse città del mondo, non i più banali spin-off chiamati TEDx che si tengono un po’ dappertutto e continuamente), feci un salto sulla sedia. Dopodiché, nei mesi successivi, ho approfondito maggiormente il fenomeno, ho avuto modo di ascoltare di persona – non certo ai TED, dato che non me lo sarei mai potuto permettere – un paio di persone che hanno fatto da oratori alle conferenze, e di farmi un’opinione in merito. Opinione che ho scoperto rispecchiare perfettamente quella, ben più eminente, pubblicata qualche giorno fa sul quotidiano britannico The Guardian da Benjamin H. Bratton, sociologo americano che la tecnologia la conosce bene, dato che non è solo il suo oggetto di studio ma anche il suo lavoro (è stato top consultant di Yahoo! per alcuni anni). Bratton assimila a i TED alle “megachurch” pentecostali, quelle gigantesche chiese simili ad arene – o ai saloni dove si tengono i TED Talks – dove migliaia di fedeli si ammassano per celebrare spettacolari messe evangeliche. Uno show di dubbio gusto, insomma, dove conta solo l’infotainment, la capacità di fare intrattenimento più o meno intellettuale, e la capacità di ogni speaker di accendere l’entusiasmo della platea.
La principale critica di Bratton riguarda i talk sulla tecnologia, la T di TED (la E sta per economia e la D per design, gli altri due argomenti rientranti nel programma di queste conferenze). Perché sul palco dei TED ascoltiamo sempre visioni entusiasmanti e iper-tecnologiche del futuro, e poi viviamo sempre nel mondo che conosciamo? “Investiamo le nostre energie in tecnologie futuristiche, tra cui le nostre auto, ma guidando torniamo nelle nostre case dall’architettura kitsch copiata dal XVIII secolo. Il futuro che ci offrono è quello in cui tutto cambia, finché tutto resta lo stesso. Avremo i Google Glass, ma anche la giacca e la cravatta”, scrive Bratton. “Parte del mio lavoro indaga le grandi trasformazioni tecnologiche e culturali, dal post-umanesimo al post-antropocene, ma la versione dei TED nutre troppa fede, e non abbastanza impegno, nella tecnologia. È tecnoradicalismo placebo… Perciò le nostre macchine diventano più intelligenti e noi più stupidi. Ma non dev’essere necessariamente così. Entrambi possono essere più intelligenti. Un altro futurismo è possibile”.
Quello che Bratton vuol dire con queste parole è che il futuro che offrono i guru tecno-entusiasti che partecipano ai TED resta confinato nelle hall degli alberghi dove si tengono le conferenze. Non penetra nel mondo né lo cambia. “Se davvero vogliamo una trasformazione, dobbiamo spulciare nella roba difficile (la storia, l’economia, la filosofia, l’arte, le ambiguità, le contraddizioni). Metterla da parte per concentrarsi solo sulla tecnologia, o solo sull’innovazione, impedisce una reale trasformazione”, insiste Bratton. “Invece di semplificare il futuro, dobbiamo aumentare il livello di comprensione generale al livello della complessità dei sistemi di cui facciamo parte. Non si tratta di ‘storie personali in grado di ispirare’, si tratta del difficile e incerto lavoro della demistificazione e della riconcettualizzazione: la roba difficile che davvero cambia il modo in cui pensiamo”. E conclude: “Più Copernico, meno Tony Robbins” (il celebre formatore motivazionale guru del self-help e dell’autostima).
Come dargli torto? Cambiare il futuro non ha nulla a che vedere con le storie che ci ispirano, con le conferenze trascinanti stile X-Factor, con i bei racconti di quei giovani che inventano cose geniali che però non servono a nessuno, con tutto questo continuo parlare di “innovazione”, “start-up”, “cambiamento”, “motivazione”. O meglio, tutte queste cose servono certamente, ma da sole non ci portano da nessuna parte. Il loro unico effetto è quello del placebo che ci convince che stiamo innovando il mondo e che invece lascia il mondo immutato. L’innovazione non ha alcun effetto se non si lega all’economia, alla politica, alla filosofia, alla sociologia, alle vere leve che muovono il mondo. Per questo all’IIF non ci sentirete parlare come i fanboy di Apple o di Google, non leggerete parole entusiastiche verso gli ultimi ritrovati tecnologici, non ci vedrete fare inspirational talks riempiendoci la bocca di innovazione. Il futuro si costruisce in modo diverso, “andando a spulciare nella roba difficile”, che magari non garantisce visibilità o standing-ovation, ma forse può incidere sul cambiamento più di un TED.