Tra le emerging technologies (o disruptive technologies secondo il Prof. Clayton Christensen della Harvard Business School), la disciplina delle nanotecnologie è sicuramente quella che si sta sviluppando più rapidamente: il tasso di crescita è talmente elevato da non lasciare il tempo agli ordinamenti giuridici di adattarsi a questi cambiamenti. Per individuare quale possa essere il migliore approccio sistemico e l’ideale forma iuris per regolamentare questa disciplina, può risultare opportuno riprendere e approfondire i tentativi di regolamentazione fatti in passato nei confronti delle nuove tecnologie.
Già nel 2009 uno studio in materia era stato pubblicato sul Journal of Law Medicine & Ethics da tre professori americani (Marchant, Sylvester, Abbott, 2009), i quali erano giunti a delineare cinque fattispecie di cui tenere conto per la futura disciplina giuridica delle nanotecnologie. Il primo aspetto da non sottovalutare per una futura regolamentazione delle nanotecnologie è senza alcun dubbio l’opinione pubblica. Il supporto del “pubblico” è molto più facile che venga perso piuttosto che mantenuto, ma ancora più certo è che, una volta perso, sarà molto difficile riconquistarlo. Basti pensare alle tremende conseguenze nell’ambito della credibilità che ha subito il governo britannico, quando nei primi anni Novanta aveva dichiarato l’immunità degli esseri umani nei confronti del “morbo della mucca pazza”, e poi si sono purtroppo verificati casi di contagio e di morte tra la popolazione del Regno Unito. Gli studi e le ricerche condotte in materia indicano che la fiducia della popolazione nei confronti di nuove tecnologie necessiti della adozione di un piano regolatore proveniente dalle istituzioni, che quindi svolgerà il ruolo di prerequisito per mantenere la credibilità nei confronti della collettività.
L’altro lato della medaglia, parlando di disciplina giuridica, è quello di resistere alla tentazione di adottare regolamentazioni troppo stringenti sulle nuove tecnologie, andando eventualmente anche contro un parere pubblico in favore di restrizioni di questo tipo. Qualora manchino le prove che una nuova tecnologia comporti più rischi rispetto ad alternative già presenti, perché allora essere più rigidi? Una problematica di questo tipo è riscontrabile nell’operato dell’Unione europea nei confronti degli OGM, gli organismi geneticamente modificati: ad oggi, per essere commercializzato, qualsiasi alimento contenente questi tipi di organismi è sottoposto a pesanti regimi autorizzatori, tra cui le discipline in materia di etichettatura e di tracciabilità, che invece non sono obbligatorie per prodotti non contenenti OGM. Il paradosso a cui si è arrivati è che ad oggi la comunità scientifica europea è concorde nell’affermare che queste tipologie di cibi e prodotti OGM sono più sicuri dei loro corrispondenti convenzionali, non sottoposti ad alterazione genetica. Etichettare automaticamente un prodotto derivante da una nuova tecnologia come “più pericoloso” sia a livello teorico che a livello giuridico, a prescindere da concrete evidenze scientifiche, costituirà un deterrente per le aziende circa l’utilizzo e lo sviluppo delle stesse.
Un esempio chiarificatore a questo riguardo viene dalla Germania: nel 2006 venne immesso sul mercato un prodotto pulente per i sanitari domestici, chiamato “Magic Nano”; dopo poche settimane vennero registrati numerosi casi di lesioni da inalazione derivanti da questo prodotto. La storia giunse sulle prime pagine di numerose testate giornalistiche e numerosi attivisti iniziarono una campagna diffamatoria nei confronti delle nanotecnologie sulla base di questi problemi. La situazione di panico degenerò fino a quando il governo tedesco intervenne, rivelando come, in realtà, il prodotto “Magic Nano” fosse stato incautamente denominato in maniera fuorviante, in quanto non contenente alcun tipo di nanotecnologie. Il risultato fu che di queste lesioni non si parlò più. Apparentemente le medesime lesioni, causate però da prodotti non “nano”, non furono ritenute importanti dalla popolazione. Incidenti come questo rilevano la necessità di stabilire un approccio corretto e non discriminatorio per evitare la stigmatizzazione di prodotti tecnologici in futuro.
In terzo luogo, è opportuno notare come l’evoluzione tecnologica viaggi oggi a una velocità ben superiore a quella delle strutture legali e istituzionali, determinando quindi una costante pressione sugli organismi legislativi, affinché modifichino i quadri normativi per garantire la regolamentazione degli ultimi cambiamenti nella tecnologia. Spesso ci si viene a trovare in una situazione paradossale, per cui una nuova tecnologia debba essere sottoposta a una regolamentazione vecchia di oltre un ventennio, la quale non era stata minimamente concepita per disciplinare queste nuove scoperte (in Italia l’esempio di Uber, tra gli altri, è lampante). I problemi derivanti da una legislazione anacronistica, non al passo con le nuove scoperte tecnologiche e scientifiche, sono molteplici; nelle nanotecnologie in particolare, a causa della tendenza al continuo assottigliamento del “technology gap”: ciò che era considerato all’avanguardia in questa scienza cinque anni fa risulta oggi quasi obsoleto.
Sarà quindi necessario trovare un nuovo tipo di modello di regolamentazione, che sia in grado di rimanere aggiornato con le rapide evoluzioni della nano-tecnologia. I due requisiti fondamentali devono essere quello della adattabilità e quello della flessibilità. Esistono diverse ipotesi a tal riguardo:
- l’implementazione di un meccanismo temporale, in virtù del quale il quale il legislatore o una commissione interdisciplinare giuridico-scientifica ad hoc rilasci, a intervalli di tempo regolari, una revisione delle norme;
- un approccio più radicale, come una “Principles Based Regulation”, dove l’organo legislativo disponga “per princìpi” anziché per singole norme di dettaglio, demandando ai destinatari di tali provvedimenti la responsabilità dello sviluppo di un proprio sistema per implementare i principi governativi;
- un approccio di negoziazione normativa tra attori istituzionali, destinatari dei provvedimenti e organizzazioni non governative, sulla falsariga di quanto praticato in Olanda tramite gli environmental covenants: il governo olandese stabilisce obiettivi ambientali molto generici, successivamente ogni impresa privata negozia un accordo (covenant) con l’autorità di controllo e alcune organizzazioni non governative, al fine di stabilire gli specifici obblighi di legge. Il vantaggio è che questi accordi possono essere revisionati ed aggiornati molto più velocemente rispetto alle fonti legislative tradizionali.
La disciplina giuridica delle nanotecnologie dovrà anche rapportarsi con i problemi sociali ed etici che potrà incontrare: basti pensare alla possibilità negli Stati Uniti di brevettare nuovi organismi viventi, mentre nell’Unione europea l’agenzia di riferimento (European Patent Organization) ha sempre opposto la clausola “ordre public” che si identifica come clausola morale. Questa tipologia di questioni può avere un grande impatto in un sistema democratico: normalmente le agenzie che si occupano della verifica dell’efficacia e della sicurezza di nuove tecnologie tendono a non trattare minimamente queste problematiche, sostenendo che spingere la propria competenza su questi profili andrebbe ben oltre il loro mandato istituzionale. Da un punto di vista puramente giuridico, l’estraneità di queste agenzie alle questioni etico-morali è indubbiamente corretta: la Food and Drugs Administration negli Stati Uniti è incaricata dal Congresso di garantire la sicurezza e l’efficacia dei prodotti, non di considerare problematiche etiche e/o sociali. Allo stesso tempo, voler forzatamente includere questi ambiti morali potrebbe rendere ancora più arduo e temporalmente dispendioso il raggiungimento del consenso in materia. I rischi etici e sociali sono infatti più intangibili, difficili da definire e da quantificare, rispetto ad analisi riferite alla sicurezza e ai profili giuridici correlati. Sotto questo punto di vista, l’esperienza UE risulta più innovativa rispetto alla controparte americana: al suo interno infatti esiste il Gruppo Europeo per l’Etica nelle Scienze e nelle Nuove Tecnologie (acronimo EGE), un organo consultivo della Commissione europea e di altre strutture governative dell’Unione che si occupa degli aspetti etici in ambito scientifico e tecnologico.
Infine, e sottolinearlo può risultare quasi pleonastico nella attuale società globalizzata, le future regolamentazioni in materia di nanotecnologie dovranno cercare di andare ben oltre il contesto nazionale. Fino a oggi, le nuove tecno-logie sono sempre state regolamentate a livello nazionale (statale o addirittura regionale), determinando inefficienze e conflittualità sistemica, a causa delle incongruenze normative: basti pensare alle diverse legislazioni vigenti tra Stati Uniti e Unione europea in materia di OGM, le quali hanno determinato nume-rose dispute e perturbazione strutturale a livello di commercio internazionale, analogamente alla ricerca sulle cellule staminali embrionali, al rapporto tra privacy e tecnologia e molte altre applicazioni scientifiche di frontiera. Un’armonizzazione internazionale consentirebbe altresì di evitare – tra le altre cose – la “gara al ribasso” e la formazione dei cosiddetti “risk havens” o porti franchi, dove alcune nazioni potrebbero evitare di svolgere controlli accurati su determinati aspetti di una tecnologia per attirare aziende e capitali.
Ovviamente stiamo parlando di un progetto molto impegnativo, tenendo conto degli interessi in gioco. Per questo motivo in molti reputano opportuno agire con strumenti normativi non convenzionali, come lo sviluppo di accordi bilaterali e meccanismi di soft law. Questi spunti di analisi sono senza alcun dubbio indicativi delle problematiche che gli addetti ai lavori dovranno affrontare, nel tentativo di predisporre una disciplina giuridicamente valida, efficace ed efficiente per le nanotecnologie, che tuttavia si può estendere a tutte le tecnologie emergenti. Nel momento stesso in cui la tecnologia accelera, la politica (ovvero le istituzioni preposte alla funzione legislativa) sembra impantanarsi e rallentare: il legislatore pare ammanettato, da un lato dal numero ingestibile di questioni di primaria importanza su cui legiferare, dall’altro dalla paralisi operativa legata alle consuete logiche campanilistiche di partito. Con gli attuali iter legislativi e le tecniche di normazione, una volta che una disciplina viene – con grande difficoltà – partorita, passano mediamente anni o addirittura decenni prima che venga sottoposta a revisione e aggiornamento, senza contare che la maggior parte delle cosiddette disruptive technologies manca del tutto di un framework regolamentare.
La giurista Lyria Bennett Moses, nel suo studio Recurring Dilemmas: The Law’s Race to Keep Up With Technological Change (2007), ha identificato quattro potenziali problemi derivanti dalla inadeguatezza del diritto rispetto al passo tecnologico:
- La mancanza di adeguate restrizioni e precauzioni normative che facciano da contraltare al rischio tecnologico.
- Incertezze derivanti dalla forzata applicazione di discipline giuridiche obsolete a fenomeni innovativi e rivoluzionari.
- I rischi di sovra-regolamentazione o sotto-regolamentazione derivanti dall’improprio utilizzo di discipline obsolete di cui sopra.
- L’obsolescenza dei quadri normativi esistenti causata dall’innovazione stessa.
Il dibattito su quali siano gli aspetti giuridici più critici e prioritari su cui andare a regolamentare non solo le nanotecnologie, ma in generale tutte le nuove tecnologie, considerando gli effetti sconvolgenti che queste stanno progressivamente apportando alla società e ai rapporti giuridici che posano su telai normativi vecchi di secoli, è insomma apertissimo.
Riferimenti
- Bennett Moses L., Recurring Dilemmas: The Law’s Race to Keep Up With Technological Change, «UNSW Law Research Paper», n. 21/2007.
- Marchant G.E., Abbott K.W., Sylvester D.J., What Does the History of Technology Regulation Teach Us About Nano Oversight?, «Journal of Law, Medicine, and Ethics», 2009.