Il mondo in cui viviamo è in pericolo, ma non sempre e non tutti l’avvertono. Aumento della popolazione vuol dire crescita dei consumi e conseguentemente dei rifiuti, ma non c’è un egual incremento della biodiversità, anzi: la crescita della pressione demografica comporta meno foreste, meno acqua potabile e quindi più povertà diffusa. Quando nel 1992 a Rio de Janeiro si concluse il Summit della Terra, la prima conferenza mondiale di capi di Stato sull’ambiente, la situazione sembrava chiara a tutti: bisognava categoricamente ridurre l’impatto dell’uomo sul pianeta. Lo sviluppo, così come insegna il Bruntland Report (1987), è sostenibile quando i bisogni delle generazioni presenti non compromettono le capacità delle generazioni future di soddisfare i propri. La possibilità delle generazioni future di appagare le proprie necessità dipende da differenti condizioni, tra le quali la riproducibilità del sistema biologico e la capacità di carico del sistema (dall’inglese carrying capacity). Si tratta della capacità di un habitat e delle sue risorse di sostenere un certo numero di individui (in particolar modo i rifiuti e l’inquinamento che genera), senza intaccare la produttività dell’habitat stesso. Lo sviluppo non è realmente sostenibile e siamo lontani dal renderlo tale, ma quanto distanti?
Per avere una risposta è necessario in primo luogo capire quale strumento possa esser adatto alla sua misurazione. A tal proposito, gli ecologisti William Rees e Mathis Wackernagel, a cavallo tra il XX e il XXI secolo, si erano resi conto dell’impossibilità di agire a favore della salvaguardia del nostro pianeta senza strumenti in grado di misurare la sostenibilità. Intervennero quindi invertendo il tradizionale quesito “quante persone può sostenere la Terra?” in “quanta terra occorre per sostenere ogni persona?”. L’Impronta Ecologica è un indicatore che non si basa sul numero delle teste, bensì sulla dimensione dei piedi. Diventa pertanto cruciale non solo il numero di persone, ma anche il tipo di tecnologie prodotte e i modelli di consumo. Nello specifico, è l’area totale di ecosistemi terrestri ed acquatici necessaria per produrre le risorse che una determinata popolazione (dall’individuo alla famiglia, da una città ad una nazione) consuma e per assimilare i rifiuti che la società stessa produce. L’umanità dipende dalla natura, non viceversa!
La sostenibilità richiede gestione delle risorse e gestione di noi stessi: basti pensare che se tutti riuscissimo a correggere cattive abitudini presenti nella nostra vita quotidiana (come l’impiego esasperato di automobili e ciclomotori piuttosto che biciclette o mezzi pubblici, il rubinetto lasciato aperto mentre laviamo i denti, il bagno rilassante in vasca invece di una doccia veloce, il mancato spegnimento degli interruttori della luce, del televisore e degli elettrodomestici in genere immediatamente al termine del loro utilizzo), saremmo di grande aiuto all’ecosistema. Difatti, un’analisi dell’Impronta sui trasporti, ad esempio, dimostra che un individuo che deve raggiungere il posto di lavoro a 5 chilometri da casa utilizzando la bicicletta si appropria di 122 metri quadri di territorio, prendendo l’autobus di 300 metri quadri, di ben 1.530 andando da solo in automobile! Mangiando, bevendo, ma anche semplicemente respirando o producendo rifiuti, ci ritroviamo ad interagire con l’ambiente che ci circonda. Grazie all’Impronta Ecologica è possibile produrre calcoli che si basino sulla possibilità di valutare le risorse che consumiamo, i rifiuti che produciamo e sulla capacità di questi flussi di risorse e rifiuti di convertirli in una superficie equivalente di terreno biologicamente produttiva, necessaria a garantire queste funzioni. Se lo spazio bioproduttivo richiesto è maggiore di quello disponibile, possiamo ragionevolmente dire che il tasso di consumo non è sostenibile.
L’attuale consumo umano di prodotti agricoli, fibre di legno e combustibili fossili causa un eccesso di Impronta Ecologica quasi del 30% rispetto alla quantità di terra ecologicamente produttiva. La sostenibilità richiede che le attività umane rimangano entro la capacità di carico, ma non esistono strategie concrete per uno sviluppo realmente sostenibile. Oggi l’umanità usa l’equivalente di circa un pianeta e mezzo, vale a dire che la Terra avrebbe bisogno di un anno e sei mesi per rigenerare ciò che globalmente consumiamo in un anno! La maggior parte degli insediamenti umani è situata nelle zone più fertili del mondo, spesso edificate, portando così alla fine inesorabile di quelle che erano aree precedentemente agricole.
Le attività umane, soprattutto nei Paesi sviluppati, influenzano terribilmente il biosistema, quasi sempre in chiave negativa. Ecco perché sono necessarie politiche volte alla tutela dell’ambiente che abbiano prospettive a lungo termine: il futuro del nostro pianeta va costruito, pianificato, non semplicemente immaginato o desiderato. Ripartiamo da noi, cambiando lo stile di vita fin troppo orientato alla produzione di rifiuti e inquinamento e trasformiamo i modelli di consumo attuali in altri in grado di farci pensare al domani senza timori.