In uno dei più bei romanzi di fantascienza, La fine dell’Eternità di Isaac Asimov (1955), s’immagina una società dove un’élite di controllori del tempo, gli “Eterni”, modifica continuamente il continuum della Storia al fine di impedire guerre e altre catastrofi, favorendo il tranquillo scorrere del progresso umano. Sennonché, quel “progresso” ha davvero ben poco di invidiabile: il risultato infatti è un appiattimento della creatività umana, un continuo ripetersi di situazioni nel corso dei secoli e dei millenni che mantiene la civiltà continuamente narcotizzata. Dopo millenni di apparente progresso, nel mondo dell’Eternità non sono stati ancora inventati i viaggi interstellari, e l’umanità è rimasta relegata sul pianeta Terra. Per Asimov, convinto assertore del destino spaziale della civiltà umana, quello scenario era inaccettabile. Al termine del romanzo, il protagonista, per amore di una donna che gli Eterni avrebbero dovuto cancellare dal continuum storico, distrugge l’Eternità e libera lo sviluppo indipendente dell’umanità. Il romanzo si chiudeva con la bellissima frase: “Quella sparizione… segnava la fine dell’Eternità. E l’inizio dell’Infinito”.
Il grande fisico e filosofo di Oxford, David Deutsch, ha raccolto questo explicit nel titolo di un suo bellissimo libro, L’inizio dell’infinito (2013). In esso, Deutsch dimostra come, a partire dall’epoca a cavallo tra Rinascimento e Illuminismo, l’umanità abbia imparato il valore dell’innovazione come motore di un cambiamento incessante, potenzialmente infinito, che ha aperto alla nostra specie orizzonti sconosciuti. Ogni grande innovazione scientifica e tecnologica genera un cambiamento sociale, l’emergere di un nuovo paradigma che trasforma la società. Il libro di Deutsch giunge in un momento in cui il concetto di “innovazione” è ormai diventato dominante e ha acquisito un connotato invariabilmente positivo. Non è stato sempre così, naturalmente. Gli uomini della Restaurazione, nel XIX secolo, certamente non credevano nel valore dell’innovazione, solo per fare un esempio banale. Abbiamo dovuto attendere il positivismo perché l’ideologia del cambiamento e dell’innovazione diventasse dominante nella sua accezione positiva.
Eppure, c’è qualcosa di sbagliato nella strada che abbiamo intrapreso negli ultimi decenni, spingendo a fondo sul pedale dell’innovazione. Abbiamo cambiato il mondo, questo è vero, in modi che non sempre apprezziamo appieno. La rivoluzione informatica ha trasformato radicalmente la nostra società. Probabilmente, però, la successiva trasformazione della rivoluzione informatica – la rivoluzione digitale – ha fagocitato completamente il concetto di “innovazione”, che oggi troppo spesso utilizziamo semplicisticamente associandolo al termine “digitale”. L’innovazione scientifica e tecnologica non è solo questo.
Siamo davvero convinti che il più grande risultato dell’ideologia dell’innovazione, sia la capacità di scambiarci messaggi attraverso Facebook, Twitter o Whatsapp? Che il meglio che i ragazzi possano fare, oggi, sia l’invenzione di una nuova app? Che la strada per il successo passi inderogabilmente per il lancio di startup digitali? Un eccesso di retorica riguardo il successo degli “imprenditori dei garage” negli ultimi anni ci ha spinto a dimenticare o a mettere in secondo piano la questione dell’occupazione. Nessuno nega che le aziende, soprattutto quelle italiane, così ancorate al passato, abbiano bisogno di innovazione digitale. È così ovvio da essere scontato. Dovremmo persino smettere di parlarne: il darwinismo economico condannerà all’estinzione quelle realtà imprenditoriali incapaci di stare al passo. È però giunto il momento, soprattutto ora che la distanza temporale inizia a concedercelo, di prendere in considerazione l’impatto occupazione della rivoluzione digitale.
Il dato citato da Al Gore nel suo Il mondo che viene è piuttosto eloquente: negli ultimi dieci anni l’incremento netto dei posti di lavoro negli Stati Uniti è stato pari a zero, sebbene la crescita della produttività sia stata la più alta mai registrata a partire dagli anni Sessanta. Inoltre, i dati citati da Gore dimostrano che, mentre la spesa delle aziende americane in hardware e software è aumentata di quasi il 30% negli ultimi dieci anni, nello stesso periodo la spesa per i posti di lavoro è aumenta solo del 2%. Sono numeri che forniscono lo spaccato di una società che, nella sua ricerca spasmodica di innovazione digitale, non guarda più all’aspetto umano del lavoro. Romano Prodi, in Italia, da un paio d’anni sta sottolineando il fatto che la rivoluzione digitale non crea abbastanza posti di lavoro rispetto alla manodopera che il digitale espelle dal mercato del lavoro. Queste sirene d’allarme sono rimaste troppo a lungo ignorate in un paese, il nostro, che ha scoperto troppo tardi il fascino esotico dell’innovazione digitale ed è ancora troppo impegnato a rimirarne le bellezze. Iniziamo a chiederci se non sia un caso che questi anni, a partire dagli inizi del secolo, di tumultuosa innovazione digitale, siano anche quelli di maggiore crisi occupazionale. Iniziamo a chiederci, senza tema di apparire luddisti, se tra i due fenomeni non ci sia un nesso.
Se la risposta fosse sì, come molti osservatori sostengono, quale può essere la soluzione? Non certo fermare la rivoluzione digitale. Nemmeno la strada del recupero dei vecchi mestieri, come una retorica giornalistica ingenua e nostalgica ciclicamente propone, ci farà uscire dalla crisi. Dobbiamo tornare a guardare all’industria. Un termine vecchio, è vero, che nel nostro immaginario si lega alle ciminiere inquinanti e alle catene di montaggio. Ma non è un caso se un vate dell’innovazione come Jeremy Rifkin non disdegna di parlare di “terza rivoluzione industriale” quando parla dei nuovi paradigmi sociali che l’innovazione tecnologica può innescare. L’industria del futuro non dev’essere inquinante né deve necessariamente assumere l’aspetto degli enormi complessi delle cui lugubri rovine è costellato il panorama degli Stati Uniti e anche di molte parti del nostro paese. Rifkin parla di rivoluzione industriale riferendosi principalmente alle manifatture 3D, ma l’industria è un’altra cosa. E’ un modello economico che innanzitutto si rivolge alla produzione massiva di beni, non di servizi; e, vale la pena ricordarlo, beni tangibili, non virtuali. Mentre la manifattura 3D ha molto più a che fare con l’artigianato piuttosto che con l’industria, dato che riguarda una produzione non standardizzata e non massiva di beni.
Oggi abbiamo bisogno di un’industria pesante del futuro. Di nuovi modelli industriali che trovino, nell’innovazione, il loro motore, e che creino migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia di posti di lavoro. Non sarà Facebook a farlo, abituiamoci a quest’idea. Torniamo per un attimo a La fine dell’Eternità. Cosa ha in comune la nostra realtà con quella immaginata da Asimov? Non guardiamo più con interesse allo spazio. L’espansione spaziale si è interrotta alla fine degli anni Sessanta, più o meno all’inizio della rivoluzione informatica. Al futuro spaziale abbiamo sostituito il futuro digitale. Allo spazio oltre la Terra abbiamo preferito il cyberspazio. Eppure, se in quel cyberspazio troviamo consolazione dalle afflizioni dei nostri tempi moderni, esso sottrae posti di lavoro a un ritmo maggiore di quanti ne produce e sembra condannarci a una pericolosa stagnazione. Non possiamo permettercelo.
Il Programma Apollo, negli anni Sessanta, diede lavoro, secondo le stime, a quasi mezzo milione di persone tra posti diretti e indotto, solo negli Stati Uniti. Quanti posti di lavoro hanno creato complessivamente i social network, considerando le figure di social media manager, web marketing e tutto il resto? Senz’altro molti di meno, in tutto il mondo. Ma l’industria pesante del futuro non sarà solo quella spaziale. Dovrà essere la nuova industria energetica, in grado di liberare la nostra civiltà dalla schiavitù inquinante dei combustibili fossili. Dev’essere la nuova industria dei trasporti, capace di metterci a disposizione mezzi di trasporto pubblici e privati efficienti ed ecologici, per le persone e per le merci.
Se Steve Jobs ha aperto la strada all’innovazione digitale, dovremmo guardare con interesse alle strade che sta aprendo un imprenditore come Elon Musk. Agli inizi del Duemila, Musk vendette l’azienda che sarebbe poi diventata PayPal, e ha fondato la compagnia aerospaziale SpaceX – la prima a mandare in orbita navicelle spaziali private – e la compagnia automobilistica Tesla – la prima a produrre su scala industriale auto elettriche ad altre prestazioni. Oggi ha un ruolo decisivo anche all’interno di un’altra grande compagnia, SolarCity, che lavora nel settore dell’energia solare su larga scala. Sono tutte compagnie che hanno intorno ai dieci anni di vita o anche meno, ma già superano complessivamente il numero di occupati di PayPal, che di anni ne ha di più, quando ancora non hanno iniziato la conquista reale del mercato. C’è da credere che i loro numeri aumenteranno di dieci volte o più nei prossimi anni.
L’industria pesante del futuro ci permetterà di recuperare il contatto con la realtà e limitare l’ingerenza del virtuale. Se l’ascesa del digitale ha alimentato la finanziarizzazione dell’economia, la cui pericolosa volatilità ha acceso la miccia della crisi del 2008, il ritorno dell’industria tecnologica rimetterà al centro l’economia reale, con la sua capacità di produrre beni e posti di lavoro attraverso la leva dell’innovazione. E spianerà di nuovo la strada, si spera, a un futuro di reale progresso per la nostra civiltà.