Due domande: è giusto o sbagliato che gli atleti professionisti guadagnino 400 volte più delle infermiere? La teoria delle stringhe è un vicolo cieco? Entrambe le domande vanno al cuore della loro rispettiva disciplina. Eppure, mentre probabilmente avete dato una risposta alla prima, solo nel caso in cui abbiate studiato fisica avreste un’opinione sulle prospettive della teoria delle stringhe.
Questo dà fastidio agli economisti, che si chiedono perché tutti si sentano liberi di partecipare ai dibattiti economici invece di lasciarli agli esperti, come fanno con la fisica e la medicina. Quello che gli economisti di solito non ammettono è però che, su un certo numero di temi che prendono in esame, spesso avevano una risposta alla domanda ben prima di iniziare ad analizzarli. Ci si aspetta che gli scienziati raggiungano le loro conclusioni dopo aver fatto ricerca e confrontato i risultati ma, in economia, le conclusioni possono arrivare prima, con gli economisti che gravitano intorno a tesi coerenti con la loro visione del mondo.
Ciò non dovrebbe sorprenderci. L’economia è sempre stata un esercizio etico e sociale, dato il suo scopo di produrre le regole attraverso le quali una comunità organizza la sua produzione. Non è una coincidenza che Adam Smith, la cui opera La ricchezza delle nazioni (1776) è spesso considerata il testo fondante dell’economia, fosse un filosofo morale. Eppure, da allora, fare della propria arte una scienza, usandola per scoprire i codici presumibilmente nascosti all’essenza dell’esistenza umana, ha rappresentato il Santo Graal degli economisti. Sperimentarono con la matematica e studiarono attentamente la rivoluzione di Charles Darwin nella biologia, ma si dovette attendere la fine del XIX secolo perché l’economia trovasse finalmente il proprio modello: la fisica.
Alfred Marshall, uno degli architetti della “rivoluzione marginalista” da cui è nata l’economia moderna, aveva indubbiamente una predisposizione che lo portò a vedere il mondo con le lenti della fisica. Ex seminarista che si dilettava a rilassarsi con lunghe passeggiate sulle alture scozzesi, Marshall era indubbiamente attratto dalla visione di un universo intrinsecamente ordinato. Ma i marginalisti avevano un’altra ragione per adottare una visione prettamente “fisica” del mondo. La fisica stava allora emergendo come la più canonica delle scienze. Come modello, non aveva rivali. Inoltre, con pochi assunti di base, il modello fisico sembrava potersi applicare con semplicità al comportamento umano.
Si pensi, ad esempio, alla tipica lezione delle scuole superiori sul trasferimento di energia. Immergete un pezzo di acciaio bollente in un secchio di acqua fredda, il vapore si sprigiona, il pezzo si raffredda e l’acqua si scalda, fino a quando i due raggiungono la stessa temperatura: l’equilibrio. Ecco, si può pensare analogamente che il pezzo di acciaio bollente sia un negoziante, il secchio di acqua fredda un cliente e l’energia il denaro. L’oggetto che il commerciante può vendere è bollente – tutti lo vogliono – ma, in quanto cliente, il vostro portafogli vuoto vi rende un secchio di acqua fredda. O il venditore abbassa il prezzo per raggiungere l’equilibrio con voi, oppure aspetta fino a quando un cliente più caldo, con un portafogli pieno, entri nel negozio. In quel modo, l’oggetto verrà venduto a un prezzo più favorevole al commerciante.
Più o meno è così che i marginalisti concepivano le transazioni sul mercato. Alcuni dei primi marginalisti arrivarono addirittura a paragonare esplicitamente la soddisfazione, o quella che loro chiamerebbero utilità, all’energia. Da lì a sostenere che le transazioni economiche rivelassero leggi della natura, il passo fu breve. Negli anni Trenta, Lionel Robbins pronunciò quelli che sarebbero diventati i comandamenti di base della disciplina, quando affermò che le premesse sulle quali era stata fondata l’economia derivavano dalla “deduzione da semplici assunti che riflettono fatti molto elementari di esperienza generale”, e come tali erano “tanto universali quanto le leggi della matematica o della meccanica” e come queste anche “meno tendenti all’incertezza”.
Ah già, l’esperienza generale. Cosa disse Albert Einstein sul senso comune? Lungo la strada verso la trasformazione dell’economia in una scienza, si è verificata una cosa curiosa: l’economia raramente ha testato le sue premesse in modo empirico. Solo negli ultimi anni c’è stata una seria indagine sui suoi assunti di base e, troppo spesso, sono stati scoperti essere poco solidi.
A differenza della fisica, non esistono leggi universali e immutabili in economia. Non si può eliminare la gravità. Ma, come dimostra la periodicità delle bolle speculative, si possono scatenare gli “spiriti animali” [espressione coniata da Keynes, N.d.R.] così che il comportamento umano e gli stessi prezzi sfidino la gravità economica. Cambia il contesto sociale – in termini economici, cambia la struttura degli incentivi – e le persone cambieranno il loro comportamento per adattarsi al nuovo contesto.
Si tratta di qualcosa che sfugge alla fisica rigorosa: la natura sociale degli esseri umani rende ogni legge del comportamento incerta e legata al contesto. In effetti, il termine stesso “scienza sociale” è da intendersi come un ossimoro. Nei primi anni del revival neoclassico, negli anni Settanta, il premio Nobel Wassily Leontief mise in guardia dalla deriva che stava prendendo piede in economia verso quella che in seguito sarebbe stata definita “invidia per la fisica”. Facendo notare che i dati sugli esseri umani differivano da quelli delle scienze naturali per la loro caratteristica di fluidità, Leontief affermò che gli economisti avrebbero fatto bene a impiegare meno il loro tempo a perfezionare la loro matematica e più a sporcarsi le mani con i dati.
Tuttavia, riconobbe anche che il suo monito sarebbe caduto nel vuoto. L’apogeo dello “scientismo” economico si verificò negli anni Novanta, un decennio in cui economisti come Alan Greenspan venivano adulati come guru, Bill Clinton descriveva la globalizzazione come una forza della natura alla quale i governi dovevano sottomettersi e ragazzi svegli come Jeffrey Sachs volavano da un paese all’altro spiegando agli ex comunisti come riallineare i loro paesi a questo presunto ordine naturale.
Quel che è accaduto in seguito ha messo in luce la tracotanza fuori luogo di quel decennio, in cui Greenspan contribuì ad alimentare la bolla speculativa che quasi distrusse l’economia mondiale, e in cui la riforma dell’Unione Sovietica tagliò di sette anni l’aspettativa di vita. Molti economisti, incluso Sachs, si difendono sostenendo che i loro consigli in realtà non vennero ascoltati; la cattiva politica ha messo i bastoni tra le ruote alla buona economia.
Ma questo conferma il punto di Leontief. Le economie sono costrutti sociali. Esse hanno necessariamente a che fare con la politica. Proprio perché le politiche economiche hanno un impatto sulle nostre vite, ci interessano di più rispetto ai dibattiti di fisica. Al volgere del secolo il metodo degli economisti era quello di analizzare i dati e cercare degli schemi – un’economia con i piedi per aria (a volte letteralmente). Se avessero ascoltato il consiglio di Leontief e speso più tempo in ricerche sul campo, a comprendere meglio i loro oggetti di studio, sarebbero stati in grado di anticipare il modo in cui la politica avrebbe condizionato i loro modelli.
A causa di questa testarda cecità, l’attuale reazione verso gli economisti è comprensibile. In risposta, la data revolution ha spinto molti economisti a sporcarsi di più le mani con i dati, e a impegnarsi in dibattiti pubblici sulla praticità del loro mestiere. Meno scienza, più sociale. Questa è la ricetta per una disciplina economica che potrebbe ancora redimere gli esperti.
Articolo pubblicato originariamente su Aeon. Traduzione di Bruno Formicola.