La raison d’être del lavoro di intelligence è la ricerca della conoscenza, quella senza pregiudizi, verificabile, che può e deve essere trasmessa al decisore politico. Quanto fosse ingannevole la ricerca della conoscenza lo sottolineava Platone in un dei dialoghi più famosi:
«E se la prigione avesse un’eco dalla parete verso cui sono rivolti, ogni volta che uno dei portatori parlasse, credi penserebbero che a parlare sia qualcos’altro se non l’ombra che passa?»
«Per Zeus, io no di certo» disse «Insomma questi prigionieri» dissi io «considererebbero la verità come nient’altro che le ombre degli oggetti artificiali.»
«È del tutto necessario» disse.[1]
L’identificazione del metodo scientifico come strada maestra per la ricerca della conoscenza, l’analisi delle misure di Denial and Deception (D&D da ora in avanti) e l’episodio della mancata previsione delle detonazioni nucleari indiane del 1998 saranno oggetto di questa riflessione con l’obiettivo di tracciare, anche, una potenziale implicazione futura di queste considerazioni. Il contributo vuole trovare una connessione fra l’applicazione del metodo scientifico nel campo dell’Intelligence e le attività di D&D considerate come un’eccezione al naturale svolgimento delle attività di raccolta e analisi dei dati.
Il compito affidato alle agenzie di Intelligence è di ottenere ed elaborare informazioni affidabili e veritiere per il decisore politico. Sebbene la missione degli operatori di Intelligence sia chiara, solitamente definita e precisata da direttive e leggi nazionali, nella realtà dei fatti questa ricerca della conoscenza spesso si arena e trova degli ostacoli che ne impediscono la riuscita. Spesso i fallimenti dell’Intelligence sono dovuti a fattori umani oppure a fattori esterni e meccanismi messi in atto dall’avversario di turno. Nell’analisi di uno dei fallimenti imputati alla Central Intelligence Agency (CIA) statunitense, ovvero la mancata previsione dei test nucleari eseguiti da India e Pakistan nel 1998, è necessario considerare questa serie di fattori e, in aggiunta, il meccanismo Denial e Deception.
Secondo l’analisi di George e Bruce (George e Bruce, 2011), infatti, questa mancanza della CIA è da imputarsi soprattutto alle attività messe in atto dall’India con l’intento di disinformare e disorientare la raccolta di informazioni relativamente alle detonazioni del maggio 1998. Alla luce dei fallimenti attribuiti alle agenzie di Intelligence di tutto il mondo, urge identificare quello che può essere l’unico percorso affidabile per la produzione della conoscenza ovvero l’analisi che si affida al metodo scientifico della ricerca.
Il metodo scientifico per la ricerca e la produzione della conoscenza
Antiseri e Soi (2013) concordano nel ritenere il metodo scientifico[2] lo strumento di cui ciascun analista non può fare a meno: «Le conoscenze prodotte dagli operatori dell’intelligence o sono risultati di indagini condotte con metodo scientifico o non sono conoscenze». Essi sanciscono l’importanza dell’utilizzo del metodo scientifico nell’analisi di intelligence risultando gli apripista nell’ambito della letteratura italiana in materia. Buluc (2014) e Ben‐Israel (2008) convergono sulle medesime conclusioni
Applicando il metodo scientifico, l’ipotesi deve essere sottoposta al più rigoroso controllo utilizzando gli strumenti dell’epistemologia e dell’ermeneutica. L’operatore di intelligence è un ermeneuta nelle sue attività di interpretazione, riuscendo a trasformare semplici dati in conoscenze scritte e informazioni intellegibili la cui validità si basa sulla corretta attuazione del procedimento scientifico. Tutti coloro che perseguono l’obiettivo di produrre conoscenza si trovano a dover rispettare la procedura del trial and error, “tentativo ed errore”. Questo presuppone che, rifiutando qualsiasi ipotesi ad hoc, volta a giustificare l’errore, l’operatore impari dai suoi sbagli, o da quelli commessi da qualcuno prima di lui, per elaborare la sua conoscenza. Karl Popper (2010), dal canto suo, riservava un ruolo cruciale all’“errore” e all’insegnamento che ne deriva. L’errore è infatti alla base del metodo scientifico poiché dall’analisi critica degli errori deriva la conoscenza scientifica (Popper, 2000). Allo stesso modo, Popper sottolinea l’aspetto della “falsificabilità” dell’ipotesi: un’ipotesi, un’informazione o una qualsiasi idea è scientifica se controllabile ed è controllabile quando produce teorie che descrivano scenari e osservazioni possibili (Popper, 2009)[3].
Sebbene l’adozione del metodo scientifico sia la regola prima per l’analisi di intelligence, l’errore non è del tutto evitabile: una serie di fattori, che riguardano la natura umana dell’analista stesso e i meccanismi di resistenza messi in atto dal soggetto oppositore, possono entrare in gioco. La componente umana dell’analista ha un ruolo cruciale, poiché la mente dell’essere umano non è una “tabula rasa”, ma è una pre-composizione (Antiseri e Soi, 2013) di schemi e di modalità utilizzati dal soggetto per leggere la realtà che lo circonda. La mente di un ricercatore di informazioni non è diversa e si muove sulla base delle teorie che gli sono più familiari, quelle che ha utilizzato fin da bambino, che gli sono state insegnate, che ha metabolizzato con l’esperienza e attraverso gli errori. Per questo il punto di partenza per l’analisi non può essere l’osservazione della realtà, in quanto viziata da precondizioni mentali, ma l’osservazione del problema. Per tale ragione non può essere utilizzato il metodo dell’induzione ma quello ipotetico-deduttivo, che permette un controllo delle ipotesi e delle conclusioni su base empirica. Secondo Riccardo Ridaelli (2020), «la generazione di ipotesi è un processo fondamentale per un rigoroso processo di analisi» per cui «l’ipotesi deve essere verificabile attraverso l’analisi per essere considerata vera o falsa».
La conoscenza viziata
La ricerca della conoscenza, portata avanti dagli agenti di intelligence e volta a ottenere informazioni vere e affidabili, è spesso contrastata da ostacoli di varia natura. La maggior parte delle volte si tratta di impedimenti dovuti a errori commessi dagli operatori stessi e da coloro che si occupano della raccolta di dati. Altresì può essere il caso di azioni messe in atto da altri operatori, che rendono inaccessibili o distorte le informazioni ricercate dall’agenzia di intelligence avversaria. Queste informazioni sono errate e, di conseguenza, la conoscenza che ne deriva non può che essere viziata se non viene sottoposta all’iter di verificabilità previsto dal metodo scientifico.
Sebbene non ci sia una definizione accettata di fallimento dell’intelligence, comunemente è definito come «un’incapacità sistematica o organizzativa di raccogliere informazioni corrette e accurate in modo tempestivo al fine di allertare i decisori politici di un nuovo importante sviluppo» (George e Bruce, 2008). L’“effetto sorpresa” e la mentalità con cui gli operatori di intelligence leggono la realtà che li circonda sono tra gli elementi che più spesso influenzano la valutazione errata che può essere fatta dalle agenzie di Intelligence in merito a un determinato evento. L’effetto sorpresa può essere il frutto non solo di idee preconcette ma anche di informazioni volontariamente distorte dal nemico, mentre i “pregiudizi cognitivi” (cognitive biases) sono propri degli analisti, o più in generale dell’essere umano, frutto di modelli mentali pre-definiti dalle esperienze pregresse, dall’ambiente culturale e da altri fattori che, da sempre, vengono utilizzati per interfacciarsi alla realtà. Il concetto di “competenza sostanziale”, noto anche come normal theory (George e Bruce, 2008), è in linea con questa idea della pre-formazione mentale degli analisti e chiarisce come spesso questi siano incapaci di mettersi nei panni dei loro avversari a causa di una pregressa costituzione mentale. In questo modo spesso non riescono a capire il loro punto di partenza logico, le loro priorità e le loro ipotesi e di conseguenza a prevedere le loro azioni.
Se l’effetto sorpresa e il “mindset” sono elementi innati negli agenti e possono indurli all’errata interpretazione della realtà che li circonda, vi sono altri meccanismi, di natura diversa, che concorrono al medesimo risultato. Uno dei più diffusi, e che in più di una circostanza ha depistato le agenzie di intelligence di tutto il mondo, è il cosiddetto meccanismo di Denial&Deception che ha la capacità di destabilizzare e illudere gli operatori di intelligence durante la fase della raccolta delle informazioni così da produrre delle analisi errate, in quanto compromesse da un processo di raccolta viziato.
Il metodo scientifico e lo sgambetto delle attività di “negazione” e “inganno”: misure di Denial & Deception
La riuscita dell’analisi strategica e della previsione di un evento critico è il risultato di una collaborazione, necessaria, fra due figure: coloro che raccolgono i dati e coloro che li analizzano. Infatti «quando il processo di raccolta dei dati fallisce, la probabilità di fallimento nell’analisi aumenta drasticamente» (George e Bruce, 2008). Le misure di D&D costituiscono un interessante esempio di come la raccolta e l’analisi di informazioni possa arenarsi nel tentativo di ostruzione messo in atto da un altro attore concorrente, il quale manovra, elude e disillude. Le operazioni di D&D, letteralmente “negazione” e “inganno”, sono definite come le azioni portate avanti da coloro il cui obiettivo è quello di acquisire il controllo sulle informazioni che l’intelligence nemica possiede, così da poterla manipolare e disorientare.
Le attività di D&D sono definite come «qualsiasi iniziativa intrapresa dall’avversario – sia attori statali che non statali – per influenzare o ingannare i decisori politici e le agenzie di intelligence», riducendo «l’efficacia della raccolta, manipolando le informazioni» con l’obiettivo di «controllare le percezioni dei produttori e dei consumatori di intelligence» (George e Bruce, 2008). È necessario precisare che le teorie dell’“inganno” non sono nuove al mondo politico, né a quello diplomatico o a quello dell’intelligence. Sun Tzu aveva già scritto che «tutta la guerra si basa sull’inganno» (Sun Tzu, 1990) così come Machiavelli aveva fatto luce sull’utilizzo che la classe politica faceva dell’inganno con il fine ultimo della conservazione del potere.
La pericolosità dei meccanismi di D&D è ravvisabile alla luce di una cattiva analisi da parte degli agenti di intelligence. Quando la disinformazione, l’occultamente e l’inganno conoscitivo entrano correttamente in funzione minano il terreno di chi fa, della ricerca dell’informazione, la propria missione. In questa misura «la disinformazione ha come risultato di accrescere il potere di chi se ne serve grazie alla diminuzione delle capacità di azione dell’avversario» (Godson e Wirtz, 2000).
Denial, in italiano “negazione”, consiste nell’attività per cui le informazioni vengono in qualche modo nascoste e occultate agli occhi di un nemico. Nello specifico il termine si riferisce ai metodi destinati a salvaguardare determinate informazioni, classified information (ad esempio lo sviluppo di un programma militare o una politica specifica) bloccando qualsiasi canale di informazione a cui un avversario potrebbe accedere (Shulsky, 2000). L’identificazione dei canali che devono essere bloccati – canali diplomatici (personale diplomatico o servizi di comunicazione utilizzati da questi), di intelligence (agenti o sistemi di raccolta di informazioni tecnologici) o di propaganda (media e social media) – è estremamente importante per il fatto che gli stessi canali potrebbero invece essere utilizzati per far trapelare informazioni false, completamente o parzialmente, mettendo in atto le tecniche della deception.
Sebbene l’effetto della denial raramente sia compreso a fondo, la mancanza di tutte le informazioni è un impedimento significativo per gli agenti che, non avendo un quadro completo, basano parte della loro analisi su pezzi mancanti le agenzie di intelligence ad affidare la propria conoscenza su un terreno lacunoso. Spesso l’azione di negazione da parte di un soggetto è talmente ben riuscita che gli analisti avversari non sono neppure a conoscenza della mancanza di alcune informazioni.
Deception, in italiano “inganno”, è invece una attività «impiegata per nascondere, in tutto o in parte, le effettive intenzioni, capacità e strategie all’avversario (target) e, al contempo, comprometterne le capacità di comprensione in merito ad un dato fenomeno, evento o situazione, al fine di indurlo ad un impiego irrazionale e/o svantaggioso delle proprie risorse» (Montagnese, 2012). Secondo altre definizioni il termine deception, soprattutto nella letteratura americana e britannica, si riferisce al «fenomeno della disinformazione in campo militare, diplomatico, e dell’intelligence» (Germani, 2017) che induce un avversario a ritenere vera un’informazione che, in realtà, non lo è.
La rappresentazione della realtà che viene fuori dalle azioni di deception è pertanto congeniale agli interessi del soggetto che la mette in atto. Il meccanismo di deception mette in luce la figura dell’agente di influenza, essendo colui che è in grado di alterare le percezioni, i comportamenti e le opinioni di una terza parte. L’agente di influenza è un profilo da sempre presente nelle file degli agenti di intelligence ma che ha riscosso particolare successo solo recentemente alla luce delle evoluzioni moderne del warfare e del soft power le cui attività rientrano a pieno titolo nelle misure di deception (Viviani, 1986). Il meccanismo di deception fa dunque parte del processo di influenza, largamente studiato nelle scienze sociali[4] e nella psicologia sociale, che è stato annoverato dall’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga fra le attività d’intelligence non ordinaria per la sua natura offensiva ovvero per la capacità di «aggredire il Paese d’interesse […] influenzandone il processo decisionale» (Cossiga, 2002).
I meccanismi di D&D investono, allo stesso tempo, due dei momenti fondamentali del lavoro di analisi delle organizzazioni di intelligence, vale a dire sia la raccolta sia l’interpretazione delle informazioni. Una previsione sbagliata può infatti essere il frutto di mancanze durante la fase di raccolta dati, così come di interpretazioni sbagliate degli stessi. Come è stato sottolineato dal rapporto Jeremiah[5] in occasione del fallimento della CIA di prevedere i test nucleari indiani, il momento della raccolta dei dati è stato cruciale[6] avendo rilevato uno squilibrio fra la capacità «di raccogliere informazione e l’abilità di leggerle e analizzarle» in favore della prima (Best, 1998).
Dal punto di vista della raccolta dati, le attività di denial costituiscono un elemento fondamentale per il fallimento dell’analisi, che, in combinazione con un lack of imagination, potrebbero risultare fatali. Questi aspetti che potenzialmente conducono al fallimento dell’analisi di intelligence possono essere corredati da altri fattori che ne aggravano la riuscita: scarse esigenze di raccolta, scarse informazioni e impatto delle ipotesi errate (Bruce, 2008). I meccanismi di D&D risultano essere una non-attuazione del metodo scientifico da parte delle agenzie e degli operatori di intelligence che usufruiscono delle informazioni di cui vengono in possesso senza attestarne la loro affidabilità (attraverso il metodo scientifico della falsificabilità dell’ipotesi). A tal proposito, il caso della mancata previsione dei test nucleari indiani e pakistani del 1998, in cui si è ravvisato un notevole utilizzo delle tecniche di D&D, sembra confermare questa ipotesi.
Il fallimento della CIA: il caso della proliferazione nucleare in Asia Meridionale
La capacità di informazione e disinformazione, di previsione e prevenzione si fonda sull’oggetto della conoscenza. Alcuni episodi della storia dell’intelligence statunitense raccontano di come i cosiddetti “fallimenti” derivino da una mancata o errata acquisizione della conoscenza da parte degli operatori.
Nell’inaugurare l’inizio della “seconda era nucleare” (Keller, 2003) India e Pakistan si resero protagonisti di una serie di esperimenti nucleari condotti nel Sud-est asiatico. L’11 e il 13 maggio 1998 l’India condusse un totale di cinque test nucleari, eludendo una moratoria autoimposta di 24 anni sui test nucleari. Il Pakistan rispose a sua volta con la detonazione di 5 ordigni fra il 28 e il 30 maggio 1998. Dal canto loro gli Stati Uniti, dopo essere stati sorpresi dall’azione indiana (quella pakistana in risposta era invece facilmente prevedibile), imposero sanzioni economiche e militari a entrambe le potenze in accordo con la sez. 102 della legge sul controllo dell’esportazione di armi (Medalia e Rennack, 1998).
Nonostante le sanzioni americane riguardassero la cessazione dell’assistenza per lo sviluppo delle tecnologie nucleari, della vendita di armi e servizi di difesa, del finanziamento militare off-shore e il rifiuto di qualsiasi assistenza finanziare da parte del governo di Washington, queste non riuscirono nell’obiettivo di distogliere India e Pakistan dai loro intenti e si scontrarono con la determinazione di proseguire la politica di sviluppo e mantenimento delle armi nucleari. L’intervento degli Stati Uniti risultò anche nella mobilitazione della comunità internazionale rispetto ai test nucleari nella regione, spingendo il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e il Gruppo degli Otto (G-8) a esortare India e Pakistan a firmare il Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty (CTBT).
Le elezioni parlamentari che si erano tenute in India nel marzo 1998 avevano portato alla vittoria la coalizione[7] con a capo il Primo Ministro Atal Behari Vajpayee dell’induista Nationalist Bharatiya Janata Party (BJP) che, già nel suo manifesto elettorale, aveva espresso la chiara intenzione di «avvalersi della possibilità di sviluppare le armi nucleari» (Best, 1998), potenziando la capacità missilistica nucleare e balistica. Inoltre, alla luce della debole vittoria alle urne, «il governo BJP aveva chiaramente giocato la carta del prestigio nazionale» (Medalia e Rennack, 1998), facendo della proliferazione nucleare il suo cavallo di battaglia.
Per quanto riguarda il Pakistan invece, si consideri che tutti i governi di Islamabad avevano convissuto per più di vent’anni con il peso della prima detonazione indiana nel 1974, a cui non erano stati in grado di rispondere. Pertanto, i test nucleari pakistani del 1998 sono da considerarsi una risposta ai 24 anni di inferiorità rispetto al subcontinente piuttosto che una semplice reazione ai più recenti test indiani. La spada di Damocle che pesava sulla testa di Islamabad cadde con lo scoppio dei primi cinque ordigni a fine maggio. Lo stesso primo ministro pakistano definì la sua decisione come “inevitabile” dichiarando che «abbiamo pareggiato i conti con le esplosioni nucleari indiane». Il Pakistan reagì dimostrando a sé stesso la capacità di confrontarsi, ad armi pari, con l’India per la prima volta dopo decenni e cercando di impressionare Nuova Delhi così come gli altri attori internazionali (Medalia e Rennack, 1998).
Le esplosioni nucleari del maggio 1998 dimostrarono che «gli scienziati di entrambi i paesi aspettavano solo il clima politico favorevole, mentre i leader politici di ciascun paese aspettavano che i loro omologhi facessero la prima mossa» (Medalia e Rennack, 1998).
Il ruolo dell’intelligence americana nei test nucleari di fine anni Novanta
Gli USA, seppur a conoscenza della proliferazione nucleare che pullulava nella regione del Sud-est asiatico, condannarono tempestivamente i test nucleari. Dal canto suo Vaipayee, presidente indiano, in una lettera al presidente americano Clinton sostenne che, considerato «il momento di deterioramento della situazione politica e nucleare», la detonazione era stata necessaria anche alla luce del presunto «supporto del Pakistan agli insorti nelle regioni indiane del Punjab e del Jammu e Kashmir»[8].
Washington era ben al corrente dei piani nucleari delle due nazioni, tanto che nel maggio 1990 (otto anni prima delle detonazioni in questione) il presidente George H. W. Bush aveva già inviato una delegazione a Nuova Delhi e una a Islamabad per avvertire le potenze di essere a conoscenza dei loro progressi in ambito nucleare e delle loro intenzioni (George e Bruce, 2008). Alla luce di questo coinvolgimento degli USA nella regione, ciò che viene notoriamente imputato alla CIA non è la mancata previsione dei piani nucleari (militari) che India e Pakistan stavano portando avanti nel Sud-est Asiatico a partire dagli anni Ottanta, quanto il fallimento nel prevedere la fattibilità ed effettività dei test nucleari che, puntuali, arrivarono nel 1998.
La CIA non aveva certezze che l’India avrebbe compiuto test nucleari, tanto meno si può pretendere dalle agenzie di intelligence una conoscenza anticipata di ogni sviluppo significativo a livello mondiale. È inoltre necessario considerare la componente dell’effetto sorpresa che, secondo molto studiosi, non può essere eliminato dalle dinamiche che coinvolgono le agenzie di intelligence. La stessa CIA nacque dall’attacco a sorpresa della base navale di Pearl Harbor nel dicembre 1941, che trovò del tutto impreparati gli americani (forse l’effetto sorpresa più riuscito nella storia, se non si tiene in considerazione la sorpresa dei romani nel trovarsi di fronte degli elefanti che valicavano le alpi)[9].
Oltre all’effetto sorpresa, un’altra variabile cruciale per la mancata azione della CIA nel subcontinente furono i pregiudizi cognitivi che portarono gli analisti a sottovalutare il subcontinente. L’India non è mai stata al centro delle preoccupazioni statunitensi durante la Guerra Fredda, essendo fra i più grandi paesi non allineati. Il continente indiano era, ed è, la più grande democrazia del mondo e ha sempre ottenuto una buona dose di simpatie dagli USA. Al pari, gli Stati Uniti erano fiduciosi del fatto che l’India valutasse l’impegno e i benefici derivanti dalla loro collaborazione superiori a quelli che sarebbero potuti derivare dalla proliferazione e dai test nucleari (Fair, 2005). Questo presupponeva anche un livello generale di fiducia nell’esistente regime di non proliferazione e nella sua capacità di imporre sanzioni determinanti in caso di infrazione.
Queste ragioni potrebbero essere il motivo per cui gli analisti statunitensi sottovalutarono la potenziale pericolosità dello sviluppo delle tecnologie nucleari soprattutto in ambito militare. Alcuni osservatori sospettano che tra i funzionari dell’intelligence ci fosse un pregiudizio a favore delle politiche dell’India che derivava da un tacito e palese sostegno che in passato era stato garantito dall’Ufficio di Servizi strategici americani al movimento di indipendenza indiano durante la Seconda guerra mondiale. Tuttavia, altri elementi dovevano e potevano essere captati e inseriti nel contesto dell’analisi strutturata che avrebbe evitato alla CIA lo scivolone internazionale: alcuni segnali che sono stati sottovalutati o male interpretati dall’agenzia statunitense.
Molti osservatori (e alti funzionari di intelligence) ritengono che, in vista dell’elezione di un governo indiano che pubblicamente aveva espresso l’intenzione di consolidare l’impegno nucleare, molta più attenzione sarebbe dovuta essere riservata alle indicazioni di imminenti test nucleari (Best, 1998). Una serie di segnali non erano stati colti dalla CIA, come il fatto che, nell’aprile 1998, il ministro della Difesa indiano George Fernandes aveva indicato, in diverse occasioni pubbliche, la Cina come “la più grande minaccia dell’India” accusandola anche di aver fornito al Pakistan la tecnologia per un missile a medio raggio e di aver esteso i suoi campi di aviazione militari in Tibet (Medalia e Rennack, 1998). Ancora prima, nel 1995, le agenzie di intelligence degli Stati Uniti avevano rilevato dei preparativi per un test nucleare a Pokharan, nello stato federale del Rajasthan, inviando rappresentanze diplomatiche statunitensi per dissuadere il governo indiano dai progetti nucleari. Questa visita, al contrario, permise a Nuova Delhi di tastare il terreno in merito alle capacità e agli sforzi della CIA nel raccogliere informazioni su quanto stesse avvenendo nel Sub-continente.
Attività di D&D nel Subcontinente indiano
Immediatamente dopo i test nucleari indiani, una commissione, sotto la guida di Admiral David Jeremiah, fu creata per accertare ed esaminare la performance dell’intelligence americana con l’obiettivo di migliorare le future prestazioni, sottolineando, ancora una volta, l’importanza di imparare dagli errori. In questo Report veniva riscontrato un atteggiamento costante della agenzia di intelligence: l’inclinazione «a sottovalutare iniziative apparentemente irrazionali da parte di altri paesi» (Best, 1998). Spesso i paesi terzi seguono logiche che appaiono, agli occhi statunitensi, controproducenti o, addirittura, illogiche e gli analisti sono portati ad ignorare gli indicatori di azioni etichettate come irrazionali. In questo senso anche la CIA ha fallito nel tentativo di «pensare l’impensabile» (Fair, 2005) e ha sottovalutato la possibilità di test nucleari.
All’indomani dei test nucleari non mancarono le critiche da parte della comunità di intelligence, tanto che la maggior parte degli osservatori, compresi membri del Congresso e funzionari senior delle agenzie di intelligence, concordarono sul fatto che l’incapacità della CIA di fornire avvertimenti sui test indiani fosse un grave fallimento con significative implicazioni per la previsione degli sviluppi nucleari in altri paesi. Tuttavia è necessario chiedersi quanto questo fallimento sia stato il frutto di demeriti del servizio di intelligence statunitense e quanto di meriti dell’agenzia indiana: «Il fallimento inizia con una attività di negazione di successo e con una scarsa attività di raccolta» (George e Bruce, 2008).
Le forze indiane avevano messo in atto numerose attività di D&D che riuscirono nel tentativo di disorientare o almeno non insospettire gli analisti della CIA che monitoravano l’andamento della base nucleare indiana di Pokhran dal satellite. La tecnologia satellitare ebbe un ruolo cruciale nelle operazioni di deception messe in piedi da Nuova Delhi. Procedendo con ordine: l’India era consapevole che la CIA avesse accesso alle immagini satellitari di Pokhran visto che nel 1995 fu la stessa agenzia statunitense a venire allo scoperto denunciando le attività e le intenzioni nucleari indiane. Alla luce di questa conoscenza, Nuova Delhi aveva un “canale diretto” per la comunicazione con Washington. Allo stesso tempo, lo sviluppo tecnologico del subcontinente aveva permesso agli scienziati indiani di avere accesso alle immagini satellitari e, con il tempo, di imparare a discernere cosa fosse visibile dallo spazio e cosa non lo fosse. Questo fece sì che gli scienziati indiani iniziassero a lavorare di notte sui siti di prova, sfruttando i momenti di buio in cui i satelliti americani non sarebbero stati in grado di catturare immagini chiare a causa dell’assenza di luce. Gli scienziati indiani, inoltre, cronometrarono le loro attività in coincidenza con i momenti ciechi (Fair, 2005). Le attività indiane furono, a pieno titolo, meccanismi di deception volti a eludere ingannare la sorveglianza tecnica degli Stati Uniti destinata a tracciare eventuali attività di carattere nucleare nel Pokhran. Inoltre, per gli Stati Uniti sarebbe stato difficile rilevare movimenti “sospetti” dato il momento di attività intensa che durava da mesi: in prossimità delle detonazioni del maggio 1998 non fu possibile per la CIA osservare un’attività diversa, in quantità o in qualità, nella regione tale da far insospettire gli osservatori.
Gli sforzi indiani di D&D nel 1998 privarono gli Stati Uniti del tipo di informazioni di cui erano entrati in possesso tre anni prima e con le quali erano riusciti ad individuare i preparativi dei test indiani bloccando sul nascere l’iniziativa (George e Bruce, 2008). Fra le altre attività di D&D risulta particolarmente riuscita l’operazione di denial della diplomazia indiana che, in più di una circostanza, rassicurò il governo di Washington sulla possibilità o sulla volontà di effettuare test nucleari (Evan, Barry e Liu,1998).
Implicazioni della D&D per il futuro dell’intelligence
È doveroso leggere l’analisi delle misure di Denial e Decepetion, ampiamente discusse in precedenza, nell’ottica delle implicazioni presenti e future di queste misure nella proliferazione nucleare, nel modus operandi dei gruppi terroristi e in generale nelle guerre asimmetriche.
Le attività di D&D sono strettamente legate alla proliferazione delle armi nucleari poiché ne facilitano lo sviluppo. È, infatti, molto improbabile che gli Stati già possessori di tecnologie nucleari forniscano apparecchiature o tecnologie utili alla costruzione di armi chimiche, biologiche o nucleari ad altri Stati. Pertanto, gli Stati intenzionati ad acquisire o ingrandire il proprio potenziale nucleare (“proliferatori”) mettono in campo azioni di D&D come deterrente per evitare la condanna e le sanzioni internazionali che seguono a delle prove evidenti di tali intenti nucleari (Godson e Wirtz, 2000).
Il dibatto sul ruolo delle attività di D&D è diventato di estrema attualità alla luce degli sviluppi successivi all’11 settembre 2001, quando alcuni esperti cercarono di riaccendere l’interesse per il tema «con riferimento a due fenomeni specifici: le tecniche di taqqiya (inganno) praticate dal radicalismo islamico, e la capacità di gruppi terroristici e degli “Stati canaglia” di disinformare i servizi d’intelligence occidentali per vanificare le attività di contrasto» (Germani, 2017). Secondo alcuni esperti, la deception dovrebbe essere utilizzata in chiava offensiva nella lotta ai gruppi terroristi, a organizzazioni criminali transnazionali e a «stati impegnati in programmi di proliferazione di armi di distruzione di massa» (Godson e Wirtz, 2000).
L’attenzione da prestare alle misure di D&D in futuro è soprattutto in relazione alla loro interferenza nelle forme di conflitto asimmetrico caratterizzate non tanto dallo scontro diretto fra due soggetti quanto dal controllo, ex ante, delle informazioni e dalla capacità di condizionare il nemico che si appropria di informazioni volutamente distorte e manipolate. La forma di conflitto asimmetrico rientra nell’immaginario di guerra del futuro (Cohen et al., 2020), coinvolgendo soprattutto attori non-statali, e lascia largo margine di manovra per l’utilizzo delle misure di D&D permettendo ad attori, tecnologicamente e militarmente inferiori, di competere e attaccare, con buone possibilità di successo, una potenza sulla carta più forte. L’acquisizione, la manipolazione e il possesso di dati e informazioni diventano il centro nevralgico delle dinamiche politiche internazionali e rendono possibile il conflitto asimmetrico nella misura in cui l’attore in posizione di vantaggio non lo è per questioni che riguarda la superiorità di risorse militari o finanziarie bensì per la capacità di entrare in possesso di dati e informazioni con tecniche che rientrano nel quadro della negazione e dell’inganno.
Un aspetto peculiare dei conflitti asimmetrici è l’attacco sistematico alle infrastrutture informatiche di un paese con il fine di acquisire dati o semplicemente destabilizzare il naturale funzionamento di servizi fondamentali e di strutture critiche per la vita di un paese (Finn, 2007). Gli attacchi informatici sono una delle frontiere del warfare maggiormente esplorate nel presente e utilizzabili nel futuro. La notevole rilevanza che i dati e le informazioni stanno acquisendo fa sì che anche le tecniche di D&D si adattino ai nuovi modelli di warfare. Uno dei casi più noti e recenti di attacco informatico è quello avvenuto in Estonia nel 2007 allo scopo di paralizzare i sistemi informatici (Distributed Denial of Service: Ddos) di istituzioni pubbliche, banche e imprese private interrompendo il funzionamento dei servizi essenziali. L’impatto dell’attacco informatico ai danni delle istituzioni estoni è racchiuso nelle parole di Ene Ergma, presidente del Parlamento estone, che sostenne «quando penso all’esplosione nucleare e l’esplosione che è avvenuta nel nostro paese a maggio, non vedo differenze» (Shackelford, 2009), rivelando il potere distruttivo che questo tipo di attacco può avere.
Il potenziale delle misure di D&D in un mondo globalizzato e fortemente tecnologico è di facile comprensione alla luce di almeno due concetti: l’utilizzo attivo delle tecniche di D&D nella sicurezza informatica (Heckman et al., 2013) e l’incorporamento delle tecniche di counter-deception nella difesa informatica (Heckman e Stech, 2015). Le operazioni di cyber-inganno per contrastare gli attacchi informatici rendono disponibili all’avversario delle informazioni false il cui valore non permette la compromissione del sistema informatico che viene attaccato. In questo senso un esperimento interessato è stato condotto al fine di dimostrare la validità e la potenzialità delle operazioni di cyberdeception e counter-deception. Gli attacchi informatici, sempre più in crescita, sono la nuova frontiera del warfare e la disponibilità di dati e informazione rendono sempre più utilizzabili le tecniche di Denial e Deception in scenari futuri (Godson e Wirtz, 2003).
In sintesi, l’approccio errato degli operatori d’intelligence, che sia fuorviato da meccanismi esterni o da elementi umani fisiologici, concorre all’elaborazione di informazioni sbagliate e dannose per l’istituzione politica che proprio in funzione di questi dati dovrebbe prendere provvedimenti. L’utilizzo di misure di Denial e Deception mette in discussione la logica del metodo scientifico nell’analisi di intelligence che è alla base delle loro attività portando a una conoscenza deviata e falsata della realtà in cui intervengono. Se il metodo scientifico costituisse la base di tutte le analisi fatte dalle diverse agenzie di intelligence, probabilmente non ci si troverebbe nella situazione di dover elencare gli episodi accertati in cui l’intelligence ha mancato nei suoi compiti. La pericolosità di una conoscenza infondata è lampante quando questa, una volta trasmessa dalle agenzie di intelligence al decisore politico, si concretizza in disposizioni o decisioni del tutto inutili o dannose per la res pubblica.
Bibliografia
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Note
[1] Platone, Repubblica, Il mito della caverna, libro VII, 514a-517d, pp. 841-851 a cura di M. Vegetti, Rizzoli, Milano, 2006.
[2] Nel panorama letterario internazionale altri autori si sono espressi in relazione all’utilizzo del metodo scientifico nell’intelligence. Fra gli Prunckun, 2014.
[3] Un’idea analoga a quella della falsificabilità di Popper è la “fallibility of hypothesis” di Ben-Israel, fautore dell’applicazione del metodo scientifico all’ analisi di Intelligence (Ben‐Israel, 2008)
[4] Fra gli altri si ricorda la definizione di influenza data dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza, Il linguaggio degli Organismi Informativi – Glossario Intelligence, Quaderni d’Intelligence, Gnosis, e la riflessione di Alfonso Montagnese “L’agente di influenza” e A. Mucchi Faina, L’influenza sociale.
[5] Press Statement by the Director of Central Intelligence George J. Tenet on the Release of the Jeremiah Report, 2 giugno 1998, riprodotto su http://www.odci.gov.
[6] Oltre ai processi di raccolta dati, Jeremiah evidenziò altre tre aree in cui intervenire: pratiche analitiche, manodopera e formazione, organizzazione (Best, 1998).
[7] Accanto al BJP, la coalizione era formata da 12 partiti più piccoli. Per approfondire la composizione del governo Vaipayee cfr. Blood. (1998).
[8] “Indian’s Letter to Clinton on the Nuclear Testing,” New York Times, May 13, 1998: A12.
[9] È’ parere dell’autrice che difficilmente un’altra sorpresa ha suscitato lo stesso effetto ottenuto da Annibale che, come racconta Tito Livio in Ab Urbe Condita Libri, nel 218 a.C. scavalcò le alpi con 37 elefanti al seguito impiegandoli nella battaglia sul fiume Trebbia.