Lo scorso aprile a Milano si è tenuto il Jobless Society Forum promosso e organizzato dalla Fondazione Giacomo Feltrinelli, il Comune di Milano e alcuni partner bancari. I tavoli di lavoro hanno avuto come obiettivo quello di tracciare le coordinate dei possibili futuri che tra pochi anni l’Italia, ma nel complesso la società occidentale, si troveranno ad affrontare. I temi discussi andavano dall’impatto degli algoritmi digitali nel mondo del lavoro, ai neet e freelance fino alla cittadinanza sociale. Ma il tavolo con il maggior numero di stakeholders coinvolti si focalizzava sulle innovazioni e problematiche nel campo della sharing economy. Singoli cittadini, cooperative, docenti universitari, ricercatori e manager hanno discusso sulle possibili linee di tendenza del fenomeno, non considerando una necessaria e pur utile storicizzazione del fenomeno. Sembra ormai consolidata l’idea che per parlare di sharing economy bastino pochi elementi, tra cui una piattaforma tecnologica che metta in contatto gli utenti, un bene o un servizio da scambiare o affittare e la possibilità di accederne all’utilizzo. I quattro assi individuati da Marta Minieri, esperta di sharing economy, sono infatti: piattaforma, community, convenienza e tecnologia (Mainieri, 2015). Ma una rigorosa genealogia del fenomeno illuminerebbe quell’ampio cono d’ombra nel quale si nascondono forme di economia della condivisione che non corrispondono necessariamente a questa definizione, che essendo condivisa intersoggettivamente condiziona la comprensione del fenomeno, la sua possibile regolamentazione e le linee di tendenza. La discussione al tavolo di lavoro si è focalizzata infatti su regolamentazione, misurabilità del valore e la remunerabilità del lavoro.
Al di là della retorica di una sharing economy che offre nuove forme esperienziali dell’immateriale è radicata una necessità primaria di sopravvivenza materiale, la possibilità di integrare il proprio reddito di freelance mettendo a rendita una stanza nella propria casa oppure, se disoccupati, come strategia per rientrare nel mercato del lavoro acquisendo talvolta nuove skills. Le motivazioni etiche e ideologiche emergono come elementi atti a giustificare un agire individualizzato che trova senso nelle più ampie e rarefatte narrazioni di equità sociale e sostenibilità ambientale. Il rapporto “The Cost of Non-Europe in the Sharing Econom” (Goudin, 2016) pubblicato dal Parlamento europeo alla fine dello scorso gennaio sostanzia questa prospettiva. Lo studio misura le potenzialità della sharing economy in Europa stimandone il valore intorno ai 572 miliardi di euro, quantificando la spesa pro capite annuale per ogni paese. Inoltre Debbie Wosskow nel rapporto “Unlocking the sharing economy” individua sei settori interessati dallo sviluppo della sharing economy: spazio e ospitalità, tempo e skills, trasporti, moda, cibo e oggetti personali. Come scrive nel rapporto: «La sharing economy è un nuovo eccitante settore dell’economia. L’innovazione digitale sta creando modi del tutto nuovi di fare business. Questi nuovi servizi stanno favorendo l’emergere di una nuova generazione di microimprenditori, persone che stanno guadagnando da asset e skill che già possiedono, affittando una stanza libera attraverso Airbnb, lavorando come designer freelance attraverso PeoplePerHour. La strada per l’autoimpiego non è mai stata più facile» (Wosskow, 2014)
Ma l’ideologia del self-made man e del self-employment sussunta all’interno della sharing economy può generare nuove forme di sfruttamento. Questa diviene realtà sostanziale attraverso i monopoli-abilitanti, così come categorizzati da Peter Thiel (2014). Dal punto di vista dell’autore, le grandi piattaforme che controllano interi settori economici della sharing economy da un lato permettono a qualsiasi utente di entrare a far parte del mercato senza particolari costi di entrata, mentre dall’altra parte l’eliminazione della concorrenza (in quanto monopolisti) permetterebbe loro di concentrarsi su quelle che sono le scelte etiche dell’azienda. Sembra quanto meno improbabile che una piattaforma che opera nel settore degli affitti o del car sharing rifletta sull’etica delle sue azioni anteponendole alla performance di mercato. I monopoli-abilitanti operano in una dimensione globale e non nazionale e in quanto operatori unici di mercato tendono a consolidare la propria posizione piuttosto che lavorare per “un mondo migliore”. In risposta a questo complesso scenario sembrano emergere nel recente dibattito sulla sharing economy due distinti approcci, il primo a un livello macro, che potremo definire strutturale, mentre il secondo a un livello micro, attraverso la capacità di agire attivamente e trasformativamente delle persone nel e sul contesto che potremo definire l’agency degli individui. L’approccio strutturale rientra in una specifica politica di regolamentazione e normalizzazione messa in atto dal governo italiano e dall’Europa. Nel mese di giugno 2016 la Commissione Europea ha varato un pacchetto di linee guida che i paesi dell’Unione saranno obbligati a seguire per costruire le proprie politiche di regolamentazione. Queste linee guida da un lato serviranno per evitare che ogni singolo paese colpisca i leader del settore con provvedimenti ad hoc, mentre dall’altro intendono favorire lo sviluppo e l’utilizzo di servizi e piattaforme di sharing economy. L’indirizzo sembra quindi andare nella direzione di una maggiore libertà per gli operatori che già operano nel mercato e dare nuove possibilità per coloro i quali vogliono offrire nuovi servizi. L’obiettivo è di armonizzare le diverse regolamentazioni dei 28 paesi, eliminare i divieti di operare imposti dai governi nazionali, introdurre limitazioni di tempo per l’affitto dei beni e liberalizzare la contrattazione tra operatori e clienti senza l’intermediazione della piattaforma. Tra gli aspetti non regolamentati rientrano la tutela dei lavoratori e la regolamentazione delle forme contributive. Problemi che sono alla base delle numerose tensioni che hanno caratterizzato il rapporto tra piattaforme e utenti. In tal senso l’obiettivo è di distinguere tra chi affitta un bene o offre un servizio per arrotondare le entrate e al contrario chi ne fa un mestiere a tempo pieno.
Anche l’Italia, grazie al lavoro dell’intergruppo parlamentare sull’innovazione, ha presentato la prima proposta di legge per regolamentare le attività economiche che operano in questo settore. Lo Sharing Economy Act è una proposta di legge in merito alla “disciplina delle piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi e disposizioni per la promozione dell’economia della condivisione”. La proposta coinvolge soprattutto le attività ricettive, il settore dei trasporti e del food. Trasparenza, tutela dei consumatori, concorrenza leale ed equità fiscale sono i principi ispiratori della legge che chiama in causa l’Antitrust come garante della concorrenza e del mercato, nonché l’istituzione di un registro elettronico nazionale delle piattaforme digitali che dovranno sottoporre all’autorità competente anche un documento di politica aziendale. La legge infatti regolamenta solo le piattaforme abilitatrici e non tutti gli operatori del settore, lasciando fuori players come Uber. Questo non è l’unico aspetto della legge che non convince; infatti, la definizione di sharing economy che è stata utilizzata dai parlamentari sembra non cogliere la complessità del fenomeno, dal momento che l’economia della condivisione viene definita come «generata dall’allocazione ottimizzata e condivisa delle risorse di spazio, tempo, beni e servizi tramite piattaforme digitali». D’altro canto la legge ha il merito di intervenire sulla fiscalità, facendo distinzione tra coloro che guadagnano meno di 10mila euro, che quindi rientrano in una microattività non professionale finalizzata all’integrazione del proprio reddito, e coloro i quali operano a livello imprenditoriale superando la soglia dei 10mila euro. La proposta regolamenta inoltre la gestione dei dati degli utenti e intima alle piattaforme di chiedere l’autorizzazione agli utenti nel caso di cessione di dati riservati a terze parti. Allo stesso tempo si esclude la nascita di qualsiasi rapporto di lavoro subordinato tra gestore e utenti, che saranno considerati dei freelance.
Il riverbero della class-action di 385mila conducenti nei confronti di Uber chiusa lo scorso aprile sembra quindi essere arrivato anche in Italia. Gli autisti di Uber avevano infatti chiesto di essere riconosciuti in qualità di dipendenti dell’azienda, ma l’accordo di 100 milioni di euro che Uber ha raggiunto ha determinato l’azzeramento di qualsiasi tipo di rapporto di dipendenza. I conducenti saranno quindi considerati dei freelance a tutti gli effetti e potranno essere bannati dalla piattaforma se offriranno un servizio non coerente con gli standard. Secondo Manolo Farci, sociologo dell’Università di Urbino, il rischio è di confondere la rental economy dalle altre forme di economia collaborativa. Nel caso italiano sembra emergere, scrive, «una incapacità concettuale di capire cos’è davvero la sharing economy e quale differenza sussiste tra sistemi che si fondano sull’idea di condivisione di beni e servizi rispetto a forme di business vere e proprie, che fino ad adesso hanno agito senza alcun quadro normativo in grado di regolamentarle» (Farci, 2016). Un chiarimento utile a regolamentare anche la dimensione previdenziale e le leggi in materia di tutela dei lavoratori. Nell’attuale modello di sharing economy le piattaforme “scaricano” sul lavoratore tutti i rischi connessi all’attiva senza, dall’altra parte, prevedere norme di supporto che ne tutelino l’attività. Pensiamo per esempio al servizio UberPop (attualmente vietato in Italia) che dà la possibilità a un singolo cittadino di iscriversi sulla piattaforma e utilizzare la propria auto per offrire passaggi agli utenti tramite sistemi di geolocalizzazione. Il conducente offre un servizio utilizzando un’auto che è di sua proprietà e i costi di usura o eventuali danni sono completamente a suo carico. Allo stesso tempo è necessario aderire agli standard di qualità del servizio stabiliti da Uber e rispettare le regole della piattaforma per non essere bannati e perdere il rating “conquistato”, che definisce il livello di reputazione e affidabilità. Gli autisti inoltre, proprio per incrementare il proprio rating che è costruito sulle recensioni degli utenti, devono incarnare l’immagine felice della sharing economy con i passeggeri, che scelgono qual servizio anche per motivi etici e quindi pretendono dai conducenti un comportamento coerente con quell’immaginario, pena una recensione negativa sulla piattaforma. Uber, quindi, sembra incarnare lo spirito di una rental economy piuttosto che di una economia della condivisione che Elanor Colleoni descrive in questi termini: «Essa viene organizzata attraverso la costruzione collettiva di norme sociali condivise e il costante confronto orizzontale fra i partecipanti alla produzione. In secondo luogo, la produzione così come organizzata nell’economia collaborativa non è orientata alle economie di scala, ovvero non si basa sulla privatizzazione dei mezzi di produzione, i cui costi vengono coperti dal fatto che vi sia un numero sufficiente di consumatori a cui vendere il prodotto. Al contrario essa si fonda sullo sviluppo di economie di scopo, un sistema produttivo localizzato costituito da microrelazioni collaborative in cui le infrastrutture per la produzione di un bene vengono condivise e costantemente rifunzionalizzate a seconda dei singoli bisogni, mentre a livello globale, attraverso Internet, viene condiviso il sapere per la loro produzione» (cit. in Bauwens, 2015). Per dirla con Polany (1944), un’economia che sia radicata nella società dove la produzione, distribuzione e consumo di beni sia incorporata nella dimensione culturale, di senso e di responsabilità sociale. Un’economia che sia al servizio della società e non viceversa. La sharing economy dovrebbe costruirsi come un modello basato sul alcuni asset principali come la condivisione di risorse e spazi inutilizzati, la riduzione dei costi di transizione e il risparmio energetico, incentivare il riutilizzo di beni e la redistribuzione del valore materiale e immateriale all’interno della comunità.
Il secondo approccio infatti, descritto come la capacità degli individui di agire attivamente e trasformativamente (agency), si struttura su questa visione alternativa. Secondo Roberto Ciccarelli, «la sharing economy è un modo di produzione che non assomiglia al capitalismo classico, ma a qualcosa di peggio che sta cambiando e permette anche di configurare un’alternativa» (Ciccarelli, 2016). Trebor Scholz (2014) la definisce Platform Cooperativism, ovvero una cooperazione di piattaforma che connette tecnologie digitali e forme mutualistiche dell’economia cooperativa. Accade che, per rispondere a una visione alternativa di sharing economy che non sia votata soltanto al profitto ma, al contrario, alla redistribuzione del valore e alla tutela degli individui, gli utenti agiscano attivamente e trasformativamente sul contesto implementando piattaforme proprietarie e quindi sottraendosi al controllo dei monopoli-abilitanti. Tra le esperienze più significative vi è sicuramente Stocksy, una piattaforma di stock di immagini fondata da un gruppo di fotografi che ne detiene la proprietà e che redistribuisce gli utili generati tra gli stessi proprietari. Altre esperienze si stanno sviluppando nel campo dei trasporti e del cibo, dove sono gli stessi utenti che implementano piattaforme abilitanti di cui sono i proprietari e i cui valori sono tradotti in pratiche mutualistiche attraverso le nuove tecnologie.
L’approccio macro e quello micro descrivono quindi le due attuali tendenze di sviluppo nei prossimi anni dell’economia della condivisione. Approcci che dovranno necessariamente tener conto del diffondersi delle tecnologie legate ai sistemi basati sulla blockchain. Tecnologie che determinano nuovi tipi di soggettività e comunità. Assumendo il punto di vista proposto del determinismo tecnologico, sembra delinearsi un futuro distopico per la sharing economy, dove la tecnologia sussume ogni forma relazionale e fiduciaria. Mentre, credo, sarebbe più utile adottare un approccio culturalista e interrogarsi sulle influenze che la sharing economy ha sullo sviluppo delle tecnologie abilitanti. Ma, ancor più importante per un ruolo militante delle scienze che si occupano di questi fenomeni, è necessario reintegrare una dimensione umana, comunitaria e anche spirituale (Morin, 2005) per proporre una dialettica critica con le nuove forme di turbocapitalismo: la sharing economy come pratica di re-esistenza del singolo e della società contemporanea.
Per approfondire:
- Bauwens M., Come realizzare un’economia collaborativa per il 99%, Fondazione Giacomo Feltrinelli, Milano, 2015.
- Ciccarelli R., Cooperazione 2.0. Le alternative alla sharing economy, “Che Fare.com”, 29 gennaio 2016.
- European Commision, A European agenda for the collaborative economy, 2 Giugno 2016
- Farci M., Sharing Economy, tutti i limiti della proposta di legge italiana, “Agenda Digitale.eu”, 4 marzo 2016.
- Goudin P., The Cost of Non-Europe in the Sharing Economy: Economic, Social and Legal Challenges and Opportunities, EPRS – European Parliament Research Service, gennaio 2016.
- Hamari J., Sjöklint M. e Ukkonen A., The sharing economy: Why people participate in collaborative consumption, in “Journal of the Association for Information Science and Technology”, 2015.
- Minieri M., Le quattro caratteristiche fondamentali (e i rischi) della sharing economy, “Che Futuro.it”, 16 giugno 2015.
- Morin E., Lo spirito del tempo (Vol. 11), Meltemi Editore, Roma, 2005.
- Polanyi K., The great transformation: The political and economic origins of our time, 1944; tr. it. La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino, 2010.
- Scholz T., Platform Cooperativisms Vs the Sharing Economy, “Medium.com”, 5 dicembre 2014.
- Thiel P. e Masters B., Zero to one: notes on startups, or how to build the future, 2014; tr. it. Da zero a uno. I segreti delle startup, ovvero come si costruisce il futuro, Rizzoli, Milano, 2015.
- Wosskow D., Unlocking the sharing economy. An indipendent review, novembre 2014. Url: http://tinyurl.com/nmol3yx.