Sono stato subito attratto dal titolo dell’ultimo libro di Mario Tozzi, Tecnobarocco. Un neologismo affascinante che ha colpito la mia immaginazione per via di una serie di riflessioni che da un po’ di tempo mi stanno interessando, riguardo alcuni aspetti problematici dell’attuale era tecnodigitale (anche questo è un neologismo). Un pamphlet, naturalmente, come chiarisce subito l’editore Einaudi, tant’è che il libro di Tozzi è veloce, agile e senza note a piè di pagina. Il noto geologo e divulgatore scientifico se la prende con una svolta dell’evoluzione tecnologica che ha prodotto la maggior parte dei ritrovati che riempiono la nostra vita. Ma la speranza che Tozzi avviasse, pur con toni leggeri, un’intelligente critica alla ridondanza tecnologica dei nostri tempi e alle sue conseguenze sulla vita sociale, si è rivelata illusoria. Tozzi non è Evegenij Morozov, che con le sue opere – altro che pamphlet, quelli sono dei bei tomi estremamente dettagliati – sta conducendo un’importante riflessione critica sugli effetti collaterali della rivoluzione digitale. Non è neanche Nicholas Carr, l’autore del celebre Internet ci rende stupidi? È un loro pallido imitatore, alla stregua del connazionale Gianni Riotta, che tratta la questione con una sconcertante superficialità producendo nient’altro che un inquietante libro neo-luddista.
Tozzi ha un bel dire che, dall’alto della sua posizione di scienziato del CNR, il sospetto di luddismo non può toccarlo. Leggendo Tecnobarocco, questa premessa riportata nelle prime pagine del libro suona chiaramente come una excusatio non petita, accusatio manifesta. Con il termine “tecnobarocco”, Tozzi definisce tutti quegli sviluppi del progresso scientifico e tecnologico che hanno prodotto più danni collaterali che miglioramenti e che, in ultima analisi, non ci hanno fatto progredire molto rispetto ad analoghe tecnologie già utilizzate in passato, anche se meno “luccicanti” (ossia prive di quell’élan che cerchiamo disperatamente in ogni ritrovato moderno: l’elettronica). Un punto di partenza certamente interessante, che l’autore coniuga con un altro neologismo molto azzeccato: turbotecnologia, ossia l’ossessione di velocizzare continuamente tutto – sistemi produttivi, mezzi di trasporto, tempi di risposta – da parte dell’odierna industria dell’innovazione.
Ma la parte interessante del libro finisce qui. Chi si aspettasse riflessioni nuove e originali resterebbe presto deluso. La sagra dei luoghi comuni inizia prestissimo, con il rimpianto del vecchio telefono a disco (proprio così: e non avrei mai immaginato che qualcuno potesse rimpiangere una tecnologia così poco intuitiva); continua confrontando le gioie del vinile con gli MP3 moderni – e qui i puristi della musica, almeno, condivideranno – e prosegue fino ad altre vette che avremmo ritenuto irraggiungibili: meglio il dirigibile che l’aereo come mezzo per viaggiare, le scala piuttosto che l’ascensore, addirittura la foglia di fico invece della carta igienica. In molti di questi casi, alla base c’è ovviamente una considerazione ecologista, talvolta anche salutista. Tozzi si dilunga spesso sull’inquinamento degli oceani prodotto dalla plastica (altro esempio di tecnologia barocca), sui consumi enormi degli aerei e sul pessimo effetto degli ascensori sui nostri stili di vita. Come non condividere? Se non fosse che si tratta di banalità che conosciamo benissimo e che non hanno nulla a che vedere con l’idea originale dello spunto di partenza, la tecnologia barocca. Discorsi come quelli sui vantaggi della dieta vegetariana o della bicicletta al posto dell’auto sono completamente scollegati dalla discussione iniziale e tradiscono l’impostazione di fondo del libro, che altro non è se non un elogio passatista e luddista del mondo di una volta (e qui si sprecano i ricordi nostalgici dell’autore, come la condivisione della linea con il vicino del piano di sotto e la semplicità del pestare il piede a terra per sollecitarlo a terminare la chiamata per lasciare libero il telefono).
Non c’è nulla, in Tecnobarocco, dell’intelligente impostazione di un Morozov a molti dei problemi posti da Tozzi. Per esempio, l’ascensore. Dovremmo considerarla una tecnologia sbagliata? Piuttosto dovrebbe essere il nostro buon senso a spingerci a scegliere di fare le scale quando non dobbiamo portare pesi eccessivi o non andiamo di fretta. La tecnologia non ha nulla di sbagliato, è l’uso sbagliato che ne si fa che impatta negativamente sulla nostra vita. Tozzi se la prende con chi difende il tappo di plastica perché basterebbe non dispenderlo nell’ambiente per evitare che migliaia di uccelli ogni anno restino strozzati tentando di inghiottirlo. Ma la critica è ragionevole: il tappo di plastica, di per sé, non è destinato a essere gettato per strada; ha un’altra funzione. Certo non mancano, in Tecnobarocco, delle considerazioni condivisibili, ma anche in questo caso ridotte a banalizzazioni, come quelle sul tempo che la tecnologia ci fa risparmiare. Che ce ne facciamo di quel tempo risparmiato? Perché andiamo sempre di fretta?
La vera occasione sprecata è nella mancata critica alla degenerazione tecnobarocca a cui stiamo assistendo, di cui Tozzi probabilmente è ignaro (del resto ha scoperta Whatsapp solo l’anno scorso, come precisa nel suo libro). Quali sono le tecnologie davvero barocche? Vediamo. La prima che mi viene in mente è quella dei Google glass: così barocca e complicata che, nonostante l’enorme investimento in ricerca, sviluppo e marketing, è stata rapidamente ritirata dal mercato e probabilmente non ne sentiremo più parlare. A che serve? L’Apple Watch, l’orologio ipertecnologico che ci fornisce una miriade di informazioni ridondanti di cui non sentiamo la mancanza, dal momento che l’orologio serve solo per leggere l’ora. Il cinema 3D, orpello inutile dell’industria dell’entertainment che, dopo essere stato relegato in soffitta, è stato riportato in auge alcuni anni fa con investimenti miliardari – veicolati dal trionfo al botteghino di Avatar – e introdotto a forza nelle nostre case con televisori costosissimi che presto nessuno più guarda indossando gli occhialini. Ancora, le SmartTV, che offrono la connessione a Internet nelle nostre televisioni: certo, ci posso guardare le serie tv in streaming (illegalmente) senza i limiti dello schermo da soli 15 pollici del mio laptop. Ma poi avrò comunque davanti a me il computer, perché mentre vedo la serie tv devo anche chattare su Facebook e guardare gli ultimi aggiornamenti, e la SmartTV non me lo consente.
Altro esempio: le stampanti 3D utilizzate per produrre chincaglieria; il più grande spreco per una tecnologia autenticamente rivoluzionaria. Invece di impiegarle per innovare i nostri sistemi produttivi, le utilizziamo per produrre cover personalizzate per i nostri cellulari o modellini in scala del nostro volto: un pericoloso eccesso narcisistico. Ancora, le nuove auto stracolme di funzioni di nessun rilievo, dal bluetooth ai sensori per il parcheggio (costa davvero troppo guardare dallo specchietto retrovisore per parcheggiare, evidentemente). Se poi qualcuno si è guardato qualche reportage dal recente Mobile World Congress di Barcellona, avrà incontrato un profluvio inquietante di tecnologie di dubbia utilità, per lo sviluppo delle quali saranno stati spesi molti soldi – probabilmente da fondi di investimento composti dai nostri risparmi – senza conoscere mai il successo di mercato.
Il fenomeno delle start-up digitali a cui stiamo assistendo negli ultimi anni è impregnato di tecnobarocco e turbotecnologia. Quasi ogni innovazione serve a risparmiare tempo e permette di compiere un’operazione in modo diverso – teoricamente migliore – rispetto a quanto facevamo prima: possiamo prenotare una pizza con una app sul cellulare, invece di telefonare, così risparmieremo tempo che potremo utilizzare per controllare gli ultimi aggiornamenti su Facebook; oppure potremo andare a fare la spesa con un carrello dotato di tablet che ci suggerirà il percorso più veloce per trovare le cose che ci siamo appuntate sulla lista.
Mi ricorda, quest’ultima invenzione, alla cui presentazione ho assistito alcuni mesi fa, un gioco da tavolo molto bello a cui giocavo da bambino con la famiglia, venduto mi pare da un famoso gruppo di supermercati italiani. Il giocatore estraeva dal mazzo una lista di prodotti da acquistare e vinceva chi arrivava prima alla cassa. Le peggiori maledizioni arrivavano quando c’era qualche prodotto da acquistare al banco della carne o del pesce che, come si sa, anche dal vivo fanno perdere un po’ di tempo. Lì però l’obiettivo di arrivare primo era funzionale al divertimento del gioco, che altrimenti non avrebbe avuto senso. E non nego che a volte la ricerca di qualche prodotto ci faccia davvero perdere tempo prezioso. Ma quante cose di buon senso a volte può suggerirci la paziente attesa al banco del pesce, o il rilassante rito del percorrere le corsie del supermercato? Tempo che il mondo contemporaneo considera speso inutilmente e che invece può essere molto più produttivo di quello risparmiato per correre a controllare l’email (o, mi si perdoni la cattiveria, a leggere l’ultimo di Mario Tozzi).