Attraverso l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile sottoscritta il 25 settembre 2015, i governi dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite si sono impegnati a raggiungere entro l’anno 2030 diciassette obiettivi improntati all’implementazioni di un modello di sviluppo sostenibile.
L’obiettivo 2, «sconfiggere la fame», dovrebbe essere raggiunto promuovendo politiche agricole sostenibili e garantendo la sicurezza alimentare a livello globale. Si tratta di un risultato ambizioso, nel perseguimento del quale un ruolo di primo piano dovrà essere svolto dalle città, considerato che entro il 2030 circa il 60% della popolazione mondiale sarà costituita dai residenti all’interno delle aree urbane. Non a caso, l’obiettivo 11 mira a «rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili». Si può facilmente arguire che la sicurezza alimentare di cui all’obiettivo 2 non potrà essere conseguita se non ripensando lo sviluppo del tessuto urbano attraverso un approccio ecosostenibile e partecipativo.
Si tratta di un approccio che David Harvey – riproponendo un’idea espressa dal filosofo Henry Lefebvre nel saggio Le droit à la ville, pubblicato a Parigi nel 1968 – definisce come il diritto alla città o «il diritto di trasformare noi stessi attraverso la trasformazione della città […] un diritto collettivo più che un diritto individuale, poiché tale processo di cambiamento non può prescindere dal ripensamento dei meccanismi di urbanizzazione tramite l’esercizio di una volontà collettiva» (Harvey, 2008).
Questo percorso può essere intrapreso iniziando un processo di decommodification dell’alimentazione, ossia trasformandola in una finalità irrinunciabile e, in quanto tale, per favorire best practices di sostenibilità e inclusività. Così facendo, le comunità urbane realizzerebbero quella che è definita food sovereignty[1], ossia il diritto di ogni comunità di scegliere il proprio sistema di produzione e distribuzione del cibo.
Pertanto, risulta necessario invertire quel ciclo che tende a marginalizzare il ruolo dell’agricoltura, iniziato con la rivoluzione industriale, e riconnetterlo al tessuto urbano come già era stato sperimentato in passato, ad esempio a opera dell’urbanista inglese Ebenezer Howard, fondatore del garden city movement, sorto in risposta al sovraffollamento delle città dovuto proprio alla rivoluzione industriale.
La città che egli immaginava era basata su un nucleo abitativo circondato da sei “città-giardino”, le quali avrebbero dovuto garantire la fornitura di cibo necessaria al tessuto abitativo. Questo progetto può essere rilanciato con diverse modalità, per esempio affidando aree verdi a locatari che manifestano la volontà di prendersene cura, oppure costituendo consigli municipali sull’alimentazione a composizione eterogena (produttori, consumatori, istituzioni pubbliche), affinché i relativi membri possano condividere le proprie competenze ed esperienze in modo tale da promuovere uno sviluppo più equo e sostenibile. Una ulteriore possibilità in questo senso è data dall’implementazione dell’istituto del community land trust.
Il community land trust è un’istituzione no profit volta a promuovere un regime socialmente sostenibile della proprietà terriera e immobiliare, al fine di garantire il diritto alla casa e l’accesso ai servizi sociali delle comunità urbane. Secondo J.E. Davis, accademico statunitense dedito allo studio degli sviluppi dell’istituto, dalla nascita negli Stati Uniti sino al trapianto in Europa e nel Regno Unito, il community land trust è caratterizzato da tre aspetti in particolare: 1) l’acquisto di una o più porzioni di terreno in un’area determinata, da parte di un ente no-profit; 2) la vendita dei nuovi immobili ivi costruiti (o degli immobili preesistenti) a persone fisiche, cooperative o altri enti no-profit; 3) la sottoscrizione di una forma contrattuale di leasing di lunga durata, generalmente della durata di 99 anni, necessario per legare l’interesse del proprietario del fondo con quello dei proprietari degli immobili.
Per comprendere più nel dettaglio il funzionamento del community land trust può essere d’aiuto approfondire il ruolo svolto dall’ente no profit acquirente del suolo al quale verrà applicato l’istituto giuridico in esame. Innanzitutto, l’ente gestisce il fondo acquistato come un trustee, dunque a a beneficio dei suoi abitanti. Di conseguenza, il fondo viene rimosso in via permanente dal mercato, giacché non può più essere oggetto di vendita; inoltre, esso è amministrato in accordo a un criterio di open membership, che consente una gestione aperta e inclusiva. Ogni abitante che condivida scopi e valori del CLT può partecipare alla gestione e acquistare il diritto di votare nell’assemblea. Quest’ultima è affiancata da un organo esecutivo che comprende non solo gli abitanti, ma anche le autorità pubbliche e coloro che risiedono presso nei pressi del fondo interessato. La membership dell’organo esecutivo garantisce il diritto di intervenire formalmente nell’organizzazione e su ogni decisione assunta nell’ambito del CLT.
Attualmente, l’istituto è impiegato precipuamente per scopi abitativi. Ciononostante, in origine il CLT fu immaginato allo scopo di garantire l’accesso al suolo per i contadini, più che per assicurare abitazioni. In particolare, fu nel 1962, in seguito all’incontro tra due uomini, che l’istituto iniziò a prendere forma. Uno di essi era Robert Swann, nato nel Midwest e attivista non violento per i diritti umani, influenzato dal pensiero di Mahatma Gandhi. L’altro era Slater King, afroamericano cresciuto in Georgia e membro dell’Albany National Association for the Advancement of Coloured People, oltre che cugino di Martin Luther King.
Cinque anni dopo, ad Albany, fu costituito il primo CLT come mezzo per liberare gli afroamericani dall’oppressione e dall’insicurezza derivanti «dall’accesso limitato che essi avevano ai suoli sui quali coltivare, edificare case o avviare nuove attività commerciali» (Davis, 2014). Nell’arco degli anni immediatamente successivi, attraverso l’utilizzo del CLT, le comunità rurali afroamericane riuscirono a ottenere circa 5000 acri di suolo coltivabile. L’istituto potrebbe allora ricondotto alla sua funzione originale o comunque impiegato per garantire parallelamente diritto all’abitazione e sicurezza alimentare. Attraverso regimi giuridici diversi (es. proprietà, locazione, servitù prediale etc.) in grado di favorire la sua realizzazione, il CLT persegue finalità diverse come «garantire in maniera affidabile e con continuità la disponibilità di suoli per progetti urbani di agricoltura abitativa urbana» (Rosenberg e Yuen, 2012) o incrementare la produzione agricola all’interno del tessuto urbano. Inoltre, il CLT può riunire e soddisfare anche tutti quei bisogni della comunità differenti dall’abitazione, come «l’educazione sanitaria, la bonifica dei suoli in disuso e la sicurezza dei quartieri» (Yuen, 2014). Inoltre, grazie alla sua componente agricola, l’istituto può favorire l’impiego di progetti innovativi quali le food forests, gli edible landscapes e le permacultures. Sicuramente, il contributo che l’impiego del CLT può fornire nel supporto allo sviluppo dell’agricoltura urbana può variare con riguardo a diversi fattori: i bisogni della singola comunità, le risorse finanziare disponibili, i sistemi di tassazione e le capacità organizzative. Talvolta le persone coinvolte non posseggono le conoscenze teoriche e l’esperienza necessarie all’amministrazione dell’istituto ed il più delle volte i profitti scaturenti dalla vendita dei prodotti del CLT non risultano sufficienti a coprire le spese. Risulta pertanto evidente, sia a livello logistico che economico, l’importanza del supporto fornito dalle istituzioni pubbliche, centrali e locali, ad esempio attraverso esenzioni fiscali.
Non a caso, il coinvolgimento delle istituzioni pubbliche è auspicato anche dalle Voluntary Guidelines to support the progressive realization of the right to adequate food in the context of national food security, adottate nel 2004 dal Consiglio della FAO. In particolare, la direttiva n. 8 e n. 8B esortano gli stati a «favorire l’accesso e l’utilizzazione delle risorse naturali secondo modalità sostenibili, non discriminatorie e sicure» e ad «adottare le misure necessarie a tutelare l’accesso alla proprietà terriera […] attraverso legislazioni che configurino un diritto alla proprietà terriera pieno ed egualitario».
In conclusione, ulteriori sviluppi del CLT che si spingano oltre la funzione abitativa necessitano di un ripensamento del concetto di highest and best use (ossia la modalità di utilizzo della proprietà che ne massimizza il valore ed i ricavi), valutando anche quei benefici non immediatamente monetizzabili come la salute pubblica ed il benessere psicofisico dei residenti. Pertanto, una maggiore diffusione dell’istituto potrebbe contribuire alla diffusione di una concezione più saggia dell’idea di benessere all’interno del tessuto urbano, mutando l’opinione comune che ritiene inconciliabili lo sviluppo urbano e i benefici tipici di un contesto agricolo.
In copertina: crediti Trevis Watson.
Bibliografia
- Davis J.E., Origins and Evolution of the Community Land Trust in the United States, 2014.
- De Schutter O., The right to food guidelines, food system democratization and food sovereignty: reflections by Olivier De Schutter, “Impressum”, 2014.
- Elver H., Resilienza Urbana, diritto al cibo adeguato e diritto alla città, “Quaderno Labsus”, Roma, 2016.
- Harvey D., The Right to the City, “New Left Review” n. 53, 2008.
- Howard E., Garden Cities of Tomorrow, S. Sonnenschein & Co., Londra, 1902.
- Mares T., Pena D., Environmental and food justice: toward local, slow and deep food system, in Akon A., Agyeman J., Cultivating Food Justice, MIT Press, Cambridge (MA), 2011.
- Rosenberg G., Yuen J., Beyond Housing: Urban and Agriculture and Commercial Development by Community Land Trusts, Lincoln Institute of Land Policy, 2012.
- Schmelzkopf K., Urban Community Gardens as Contested Space, “Geographical Review”, vol. 85 n. 3, luglio 1995.
- Vercellone A., Urban Commons e modelli di governo, in Quarta A., Spanò M., Beni Comuni 2.0. Contro-egemonia e nuove istituzioni, Mimesis, Milano, 2016.
- Yuen J., City Farms on CLTs. How Community Land Trusts are supporting urban agriculture, Lincoln Institute of Land Policy, 2014.
[1] L’espressione è contenuta nel Report redatto da Jean Ziegler, Relatore Speciale sul diritto all’alimentazione per il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (E/CN.4/2004/10).