Shea è una bimba di nove anni del Wisconsin che ha chiesto a Babbo Natale una protesi che le permettesse di giocare come i suoi coetanei: è nata infatti con la mano destra dotata unicamente di palmo e pollice e alcuni movimenti per molti banali per lei sono impossibili. Liam, un bimbo di cinque anni del Sud Africa, vive la stessa situazione: è nato infatti con una sindrome chiamata da banda amniotica che gli ha causato l’immediata amputazione delle dita; i suoi genitori per anni sono andati alla ricerca di una protesi che gli consentisse cose che prima non avrebbe mai potuto fare. C’è anche Stephens, dodicenne di Moses Lake, che ha voluto una protesi per il suo arto mancante così da potersi sentire più simile ad un supereroe.
Shea, Liam, Sthepens fanno parte dei 1500 bambini che ogni anno nascono con deformazioni agli arti superiori ma anche dell’80% dei 30 milioni di individui nel mondo che ha bisogno di una protesi ma non può permettersela. Un dispositivo di questo tipo con una funzionalità anche minima ha infatti un costo di alcune decine di migliaia di euro e in assenza di disponibilità economica l’alternativa, nel migliore dei casi, è una protesi estetica priva di mobilità, nel peggiore assolutamente nulla.
Quest’ultima era la situazione iniziale di Shea fin quando sua madre, vedendo un video su YouTube di un professore della UNMC University che aveva stampato tramite una stampante 3D una mano giocattolo per il proprio figlio, non ha deciso di mettersi in contatto con Jorge Zuniga e chiedergli se avesse potuto fare lo stesso per sua figlia, stamparle un giocattolo che le avrebbe però cambiato la vita. Da lì molte persone hanno iniziato a vedere nelle stampanti 3D, nel Web, nelle recenti modalità di comunicazione la base per una rivoluzione in ambito biomedicale.
Come possono questi concetti relativamente nuovi stravolgere in maniera così importante questo settore? La stampa 3D è apparsa in realtà alcuni decenni fa quando è stata introdotta nelle industrie. Di recente tuttavia è iniziata ad entrare nelle case delle persone, dando avvio a quella che da molti è stata definita come la Rivoluzione Industriale del XXI secolo. Il funzionamento di una stampante 3D è molto semplice: come le stampanti ad inchiostro depositano su dei fogli minuscole goccioline a formare lettere ed immagini, così nel nostro specifico caso un estrusore deposita, strato su strato, del materiale fuso a formare l’oggetto 3D che vogliamo. Il file da stampare, una semplice immagine vettoriale in 3D, può essere realizzato tramite software molto semplici da utilizzare o può essere scaricato direttamente da Internet, quindi inviato alla stampante che lo renderà un qualcosa di tangibile utilizzando vari materiali possibili: abs, pla, nylon, etc.
Il costo di tale tecnologia è andato pian piano ad abbassarsi e oggi possiamo portarne a casa una con poche centinaia di euro sia già pronta che, per i più avventurieri, da montare in ogni singolo componente: serviranno poi solo una connessione ad Internet, un computer e molta fantasia. Sono stati questi gli ingredienti che hanno permesso a Shea, Liam e Stephens di avere le prime protesi, molto simili a costruzioni Lego a detta dei genitori e che hanno consentito loro di fare cose che prima potevano solo guardare o sognare.
Se si immaginasse la Biomedica come un software e si redigesse il changelog delle varie versioni, potremmo far coincidere la release 1.0 con i dispositivi biomedicali di alcuni decenni fa, lenti, macchinosi, non molto affidabili: protesi goffe, tecnologie di misurazione imprecise, strumenti ingombranti. Con il passare del tempo la tecnologia è andata avanti, ci sono stati enormi progressi e le aziende hanno sviluppato apparecchiature sofisticate, comode, capaci di errori minimi: è la Biomedica 2.0, molto recente, realizzata e diffusa principalmente da e nei Paesi Sviluppati.
La Biomedica 2.1 invece? È quella trattata qui, non sostitutiva della 2.0 ma integrativa, quella che cerca di reingegnerizzare quest’ultima affiancandosi ad essa senza prenderne il posto, con l’obiettivo di realizzare dispositivi che siano accessibili da chiunque indipendentemente dalla posizione geografica e dalla disponibilità economica. Una realtà nata da poco in questo senso, per di più anche italiana, è l’Open Biomedical Initiative, un’organizzazione nonprofit per la realizzazione e la diffusione di tecnologie biomedicali low-cost, open source e stampabili mediante stampanti 3D.
All’interno ci sono ingegneri, biotecnologi, medici, makers, curiosi, ma l’intento è di mettere in contatto quante più persone possibili e da ogni parte del mondo per, insieme, fare la differenza.
Per riassumere l’iniziativa basterebbero sei parole: Low-Cost, Open Source, 3D Printing, Collaborazioni, Organizzazione, Tu. Ma è necessario scendere nel dettaglio per capire meglio di cosa si tratta. Nel mondo oltre 15mila ospedali e centri umanitari non hanno apparecchiature biomedicali adeguate, un miliardo di persone nei paesi emergenti e 100 milioni in quelli industrializzati non potrebbero permettersi alcuna protesi. Questi dispositivi infatti sono molto affidabili ma anche costosi. Esiste la possibilità di realizzarne varianti tecnologicamente meno avanzate ma non meno sicure che riescano ad abbracciare un bacino di utenti globale per via del loro prezzo molto basso. Per permettere ciò è necessario un approccio open-source, in cui ogni aspetto costruttivo sia reso gratuitamente disponibile sul web, quindi replicabile e migliorabile da chiunque, ma anche accessibile ovunque. Trattandosi di oggetti materiali, la semplice documentazione non basta ma è necessaria una tecnologia che trasformi i bit in qualcosa di concreto e la rivoluzione della stampa 3D permette non solo questo, ma anche di raggiungere luoghi altrimenti non raggiungibili con le vie di trasporto tradizionali.
Oltre l’Open Biomedical Initiative, esistono altri gruppi che stanno perseguendo obiettivi simili e la collaborazione tra tutti è il modo migliore per realizzare un obiettivo così ambizioso. Per fare questo però è necessaria un’organizzazione nuova, capace di permettere a persone molto distanti tra loro, che lavorano in orari diversi, che hanno un differente background culturale, che necessitano di aiuto o vogliono fornirlo, che hanno desiderio di partecipare a progetti o avviarne di nuovi, di collaborare in maniera efficiente.
L’Open Biomedical Initiative sta cercando di agire seguendo queste strade, ma la vera forza del progetto sei TU, esattamente tu che stai leggendo queste righe. Ogni aiuto è prezioso e non importa quale sia il tuo lavoro, la tua posizione sociale, il luogo dove abiti: ogni persona può fare la differenza per una biomedica fatta da tutti, per tutti. Il primo progetto di questa iniziativa è una protesi meccanica dell’arto superiore dal costo di qualche decina di euro, il suo nome è First Hand. Stanno nascendo importanti collaborazioni e sempre più persone si stanno unendo, perché a questo punto l’unico limite non è che la nostra immaginazione.