La sera del 26 settembre si è svolto il primo dibattito presidenziale tra Hillary Clinton e Donald Trump, i principali candidati alla presidenza degli Stati Uniti d’America. Il sistema bipartitico statunitense ha retto anche durante questa ultima campagna: il modesto successo dei Verdi e in particolare del Partito Libertario non ha permesso ai loro leader di superare i requisiti richiesti per partecipare ai dibattiti televisivi. Con un’audience di circa 80 milioni di persone – senza contare le visualizzazioni in streaming – è stato il dibattito presidenziale più visto di sempre, e come da tradizione, al suo termine media e analisti politici si sono prontamente espressi sulla performance dei partecipanti e su chi dei due avesse “vinto”. In assenza di gaffe è difficile stabilire un chiaro vincitore, ma entrambi sembrano aver soddisfatto le aspettative dei rispettivi sostenitori, senza però incidere in modo significativo sulle opinioni degli indecisi. Il celebre sito FiveThrityEight, ritenuto tra le fonti di prim’ordine in fatto di politica statunitense, ha segnalato un leggero miglioramento nei sondaggi da parte di Clinton in seguito al dibattito, ma ritiene che ci sia ancora il 33% di possibilità che il magnate repubblicano possa trionfare a novembre.
Perché noi europei dovremmo interessarci all’esito di queste elezioni è chiaro: i ricchi Stati Uniti posseggono l’esercito più potente al mondo, con capacità di dispiegamento quasi istantanea in ogni angolo del globo. Si tratta del principale alleato dell’Unione Europea e dei singoli stati europei ed è inoltre membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Lunedì la politica estera non ha avuto molto spazio nel dibattito, ma quel che è emerso riassume le visioni ufficiali di entrambi: Trump ha riportato a galla la dottrina isolazionista, sostenendo che gli Stati Uniti “non possono essere il poliziotto del mondo”. Ha criticato gli alleati europei che godono dei benefici dell’Alleanza Atlantica ma che di fatto si comportano da free riders, senza rispettare l’obbligo che prevede di spendere almeno il 2% nella difesa in proporzione al proprio PIL; solo cinque dei ventotto paesi membri rispettano questa regola (Stati Uniti, Polonia, Grecia, Regno Unito ed Estonia). Insomma, Trump è emerso come la scelta giusta per chi non vuole che il paese si impegni in ulteriori conflitti all’estero. Come vedremo, però, non tutto è come sembra. Hillary Clinton invece, specularmente a Trump, ha voluto tranquillizzare gli alleati, quelli europei in particolare, chiedendo di continuare a fidarsi degli Stati Uniti e ricordando a Trump il loro impegno al fianco del paese durante i difficili giorni post-11/9. Clinton sembra quindi decisa a impegnarsi affinché gli Stati Uniti non perdano la supremazia militare mondiale e vengano ancora considerati un paese sul quale contare in caso di attacchi diretti ai propri alleati da parte di potenze come la Russia e la Cina. Ha inoltre criticato Trump per aver invitato i russi ad hackerare le proprie mail, considerandolo un atto di tradimento verso la patria.
Il caso di un’amministrazione Clinton
In un articolo pubblicato su Limes l’esperto di politica estera John C. Hulsman sostiene che, nonostante i suoi numerosi difetti, un Trump presidente sarebbe preferibile per l’Europa a una possibile amministrazione Clinton. Le sue osservazioni sono legittime e comprensibili: Clinton è generalmente considerata un falco in politica estera, in particolare per due ragioni. La prima, il suo sostegno attivo all’invasione dell’Iraq, illegale secondo il diritto internazionale e soprattutto considerato un fallimento dalla stragrande maggioranza degli esperti. Secondo, il disastro dell’operazione in Libia, dove l’eliminazione fisica di Gheddafi – sulla quale l’allora Segretario di Stato Clinton ha anche scherzato – ha provocato un buco di potere colmato da innumerevoli fazioni ribelli tra le quali anche estremisti wahhabiti che hanno dichiarato la loro fedeltà al gruppo che si definisce “Stato Islamico”. Questi due eventi hanno entrambi avuto ripercussioni negative sugli alleati europei, causando profonde instabilità politiche a pochi passi dal nostro continente.
Guardando al record della politica estera dell’ex Segretario di Stato e agli esperti che le fanno da consiglieri o la supportano, Clinton sembra essersi affidata alla dottrina neoconservatrice, che ha dominato la scena della politica estera statunitense durante gli anni dell’amministrazione di Bush junior. Il neocon Robert Kagan, tra i più celebri promotori dell’invasione dell’Iraq, ha dichiarato il suo supporto per la candidata democratica, sottolineando la loro affinità ideologica in materia di politica estera. La stessa Clinton è una grande ammiratrice di Henry Kissinger, responsabile negli anni ’70 di scelte costate molto in termini di vite umane per salvaguardare gli interessi nazionali statunitensi e per questo accusato di essere un criminale di guerra in un celebre libro di Christopher Hitchens. Questi indizi, uniti alle sue ultime dichiarazioni riguardanti un approccio più duro da intraprendere nei confronti della Siria, lasciano pensare ad una presidenza Clinton caratterizzata da un interventismo molto più duro di quello esperito in questi anni di presidenza Obama, la cui dottrina si è basata sull’imperativo “don’t do stupid shit”. C’è quindi la possibilità, sostiene Hulsman, che Clinton trascini l’occidente in un altro pantano dal quale sarebbe difficile uscire.
Alcune voci autorevoli però sono contrarie a questa ipotesi. Tra queste, il professore di Harvard Stephen Walt e Jeremy Shapiro, ricercatore dell’European Council on Foreign Relations; questi esperti sostengono che alcuni fattori spingeranno la Clinton ad assumere una posizione meno interventista di quanto ci si aspetti. Un sondaggio del Pew Reaserach Center ha rivelato che il 57% degli statunitensi vorrebbe che gli USA risolvessero i problemi interni mentre solo il 27% crede che il paese stia facendo troppo poco per “risolvere” i problemi del mondo; dunque impegnarsi in ulteriori scenari di conflitto e utilizzare strategie più aggressive in politica estera potrebbe alienare il supporto alla base del partito democratico, soprattutto degli elettori più progressisti che prima erano al fianco di Bernie Sanders. L’opinione pubblica, quella dei millennials in particolare, vede sempre più negativamente l’utilizzo delle forze armate in conflitti lontani; da Presidente, Clinton dovrà tenere conto dell’indice di gradimento e dare priorità agli affari interni: cose di cui non doveva preoccuparsi quando era Segretario di Stato o senatrice. Un altro argomento è quello economico: le riforme annunciate dalla Clinton richiederebbero miliardi e queste avrebbero la precedenza su nuove ipotetiche imprese militari di natura non difensiva.
Trump sarebbe preferibile per l’Europa?
Per quanto una presidenza Clinton possa dimostrarsi imperfetta, sostengo che sarebbe migliore per l’Europa rispetto ad un’amministrazione Trump. Nel suo articolo Hulsman non ha considerato fattori fondamentali, tra i quali il principale è l’imprevedibilità delle intenzioni future di Trump. Se l’altro giorno il repubblicano è apparso isolazionista, molte sue precedenti dichiarazioni fanno pensare esattamente l’opposto. Trump ha accolto con favore l’invasione dell’Iraq e ha sostenuto che gli Stati Uniti sarebbero dovuti entrare in possesso delle riserve di petrolio del paese. Lo scorso anno durante un suo comizio ha detto di voler bombardare a tappeto il territorio controllato dall’ISIS e far esplodere ogni suo centimetro tanto da “non far rimanere più nulla” in piedi. Affermazioni del genere non potrebbero mai essere pronunciate da un coerente isolazionista. Nel concentrarsi esclusivamente sulla politica estera, Hulsman ha inoltre dimenticato di trattare un punto di estrema importanza: il riscaldamento globale. Mentre Clinton ha riconosciuto il problema e ha fatto della battaglia contro di esso uno dei punti principali della campagna, Trump crede che si tratti di una bufala creata dalla Cina per contrastare economicamente gli Stati Uniti. Eleggere a capo del paese più ricco del mondo un negazionista dei cambiamenti climatici provocherebbe danni irreparabili alla causa, compromettendo indirettamente anche l’Europa.
È facile dunque comprendere perché gran parte dei leader europei centristi e moderati sostengano Clinton: l’ex Segretario di Stato è un politico di professione che ha più volte espresso la sua volontà di rispettare gli accordi stretti con i propri alleati, sostenerli in caso di bisogno e lavorare affinché gli USA continuino ad essere il principale attore occidentale dello scacchiere geopolitico. Trump è un imprenditore lunatico, imprevedibile e bugiardo: il sito statunitense PolitiFact, che controlla la veridicità di ciò che affermano le figure politiche del paese, lo ha nominato “Bugiardo dell’Anno 2015” con un record del 71% di affermazioni false in parte o del tutto. Trump ha più volte minacciato l’equilibrio dell’alleanza atlantica e si è dimostrato vicino alla Russia di Putin: il suo consulente in politica estera Carter Page ha criticato le sanzioni imposte alla Federazione in seguito all’invasione dell’Ucraina e ha confessato di essere stato economicamente danneggiato da queste in quanto investitore dell’azienda russa Gazprom, in gran parte proprietà del governo. È sostenuto da chi solitamente è collocabile nell’area della destra autoritaria, come il primo ministro ungherese Viktor Orbán, Matteo Salvini, Nigel Farage e molto probabilmente Vladimir Putin. Si tratta di politici che esprimono quotidianamente visoni antioccidentali e che avrebbero molto da guadagnare con un miliardario ideologicamente affine nello studio ovale: una vittoria di Trump potrebbe dare uno slancio ulteriore alle loro campagne anti-europiste e nazionaliste. Con tutti i suoi difetti e le sue macchie, un futuro presidente Clinton è di gran lunga preferibile a Trump. Per l’Europa e per il mondo intero.
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