Lo scopo del presente articolo è quello di offrire un quadro d’insieme sul reddito di base ed il lavoro di cura, mettendo in luce le problematicità degli attuali assetti di welfare in relazione a bisogni sociali emergenti, in particolare alla remunerazione del care work. La riflessione portata avanti mira ad evidenziare le criticità attorno al tema dell’economia di cura ed opera su tre livelli d’analisi principali: la questione della non retribuzione del lavoro di cura, la questione di genere e quella relativa alle future sfide sociali derivanti dall’invecchiamento della popolazione. Nello specifico, il Paragrafo che segue analizza il tema del reddito di base, fornendo definizioni e ponendosi interrogativi sulla fattibilità economica e sulla desiderabilità etica di questo strumento. In seguito, il Paragrafo 3 esamina il tema del lavoro di cura, anzitutto nella sua forma gratuita, stressandone la centralità per i sistemi welfaristici e passando in rassegna le diverse forme di retribuzione accordategli nei paesi europei. Infine, il Paragrafo 4 collega i due temi sopracitati, indagando la possibilità di introdurre un reddito di base per far fronte al futuro aumento dei bisogni di cura e per conferire al care work la dignità e l’importanza che gli spettano.
Nel 1918 Bertrand Russell fu uno tra i primi intellettuali a proporre ciò che oggi definiamo come reddito di base. Egli affermava: “Una certa somma di reddito, sufficiente per coprire le prime necessità, dovrebbe essere assicurata a tutti, sia a chi lavora sia a chi non lavora; chi poi è disposto a impegnarsi per una qualche attività utile alla collettività dovrebbe ricevere una somma più consistente” (Russell, 1918). Più di un secolo è trascorso dalle idee di Russell e molte sono state le iniziative in materia di reddito garantito, sia in Europa che altrove. In questo senso, un esponente di spicco del cosiddetto ‘egualitarismo liberale’ e principale sostenitore del basic income è Philippe Van Parijs, filosofo belga che ha tentato di dare una giustificazione non solo filosofica ma anche pragmatica ed economica a questo strumento di politica sociale che ha il pregio di conciliare capitalismo di mercato e giustizia distributiva (Van Parijs et al., 2017).
Il reddito di base: profili generali
Il reddito di base è definito come un trasferimento monetario che spetta a tutti, erogato su base individuale e indipendente da qualsivoglia forma di condizionalità (cioè non è basato sulla cosiddetta prova dei mezzi, indipendente quindi da reddito, bisogno e disponibilità al lavoro). Nella sua forma “pura” esso è stato adottato in alcuni Paesi in modo permanente (perché facilmente finanziabile grazie ad una peculiare ricchezza di risorse naturali come nel caso dell’Alaska, cfr. Goldsmith, 2002), o comunque per periodi di tempo limitati e in regioni geografiche circoscritte (quindi più sostenibile dal punto di vista demografico). Nelle sue diverse declinazioni è possibile distinguere una varietà di forme che spaziano dal reddito minimo garantito al reddito di cittadinanza, e ancora dal dividendo sociale al sussidio di disoccupazione. Ognuna di queste forme specifiche trova la sua logica e si contraddistingue per la sua giustificazione sul piano teorico ed etico. Così, ad esempio, il sussidio di disoccupazione trova la sua ratio fondante nella scarsità di posti di lavoro (e quindi nella necessità di sopperire ad una mancanza di occupazione spesso strutturale o prolungata), mentre il reddito di cittadinanza, così come suggerisce il termine stesso, si basa sulla cittadinanza.
La vexata quaestio del finanziamento del reddito di base e la sua giustificazione sul piano della giustizia morale rappresentano i due ostacoli principali all’avviamento di un dibattito più compiuto intorno al tema. In questo senso, nel dibattito pubblico e politico emergono spesso alcune questioni particolarmente pregnanti: quanto sia giusto offrire una somma di denaro a tutti indipendentemente dalla condizione socio-economica; se il reddito possa disincentivare le persone al lavoro; se l’etica “lavorista” non debba finalmente lasciare il passo a forme alternative di società e di lavoro.
Gli ostacoli della sostenibilità finanziaria e dell’accettabilità morale non scalfiscono, in ogni caso, la portata di questa proposta, in particolar modo nel modo in cui mette in discussione il moderno sistema welfaristico alla luce delle trasformazioni economiche e produttive contemporanee.
L’importanza del lavoro di cura per il welfare state
Nel quadro di un decadimento delle condizioni socio-economiche della popolazione, le politiche sociali europee sono andate nella direzione di tagli al welfare e di introduzione di politiche di workfare. Il termine workfare sta per work for welfare (lavorare per avere un beneficio) indicando quindi quei sistemi di welfare che subordinano l’assistenza sociale alla stabilità di un’occupazione, inpieno stile Tatcheriano. Suddette politiche, in teoria, avrebbero dovuto produrre più lavoro, ma nei fatti non hanno fatto altro che alimentare manodopera a basso costo e obblighi serrati per i percettori di sussidi (Rueda, 2015). Il corpus di regolamentazioni indirizzate alla tutela del lavoro salariato tipico del novecento, confluito poi in ciò che comunemente definiamo modello sociale europeo, ha storicamente rappresentato il patto avvenuto tra capitale e lavoro. Già a partire dagli anni ’80, tuttavia, con la materializzazione in Europa della disoccupazione di massa e l’avvento del precariato, questo modello ha mostrato i suoi limiti in quanto incapace di dare risposte coerenti alle trasformazioni avvenute nell’organizzazione del lavoro. Al contempo, la cosiddetta transizione post-industriale (o post-fordista) ha portato come lascito una trasformazione dei bisogni sociali, così come una nuova serie di rischi ed opportunità. Nello specifico, il declino e la crisi della società “salariata”, l’inasprimento della disoccupazione e della precarietà lavorativa, la crisi della famiglia tradizionale in stile breadwinner, l’invecchiamento demografico e l’avvento dell’automazione hanno portato con sé nuove esigenze che richiedono nuovi paradigmi welfaristici. Se il welfare state ha come suo scopo ultimo quello di correggere (o dirigere) il ruolo delle forze sociali o di mercato allo scopo di realizzare una più ampia eguaglianza sociale (Briggs, 1961), non è ad oggi più possibile prescindere da quel settore di politiche sociali che è rimasto perlopiù ai margini del dibattito pubblico e che ha come suoi soggetti i servizi di cura e il sostegno dell’occupazione femminile. Questi ultimi rappresentano ambiti di welfare collegati a bisogni sociali emergenti, e che per la loro interdipendenza con gli altri ambiti di policies richiedono una risposta coesa e di ampio respiro a livello europeo.
Quando si parla di lavoro di cura (care work) generalmente ci si riferisce ad un’ampia gamma di prestazioni di tipo assistenziale indirizzate alla cura dei figli, al lavoro domestico e cura della casa, all’assistenza agli anziani e così via. Nelle parole di Knijn e Kremer, «la cura è il quotidiano sostegno sociale, psicologico, emotivo e l’attenzione fisica alle persone. Essa può essere fornita sotto forma di lavoro remunerato o non remunerato, sulla base di un contratto o in forma libera e volontaria, in modo professionale o sulla base di un’obbligazione morale» (Knijn et al., 1997). La peculiarità del care work risiede nel fatto che esso è ascrivibile principalmente alla sfera privata, confinato quindi nelle mura domestiche, ed è svolto perlopiù dalle donne sotto forma di lavoro non retribuito. L’assenza di remunerazione ci dice molto riguardo il sistema culturale e quindi valoriale che soggiace ad un modello sociale che considera il lavoro di cura come improduttivo (per questo esente da remunerazione monetaria). È proprio all’interno di questi modelli di solidarietà e obbligazioni familiari che ristagna un grosso equivoco, e cioè la convinzione che giacchè collocato al di fuori del mercato, il lavoro di cura debba rimanere all’interno delle forme di ‘dipendenza’ familiari già legittimate. Contrariamente a questa convinzione diffusa, il lavoro di cura può essere invece, e a buona ragione, considerato fondamentale per il funzionamento di tutti i sistemi di welfare. Già negli anni Settanta alcune femministe rivendicavano la compensazione del lavoro di cura lato sensu svolto all’interno della famiglia, ponendo al centro del dibattito il basic income; al contempo, queste teoriche riflettevano anche su come il diritto al reddito possa essere concepito al di fuori della prestazione lavorativa tradizionalmente intesa (Federici, 1976). Dunque, la riproduzione della società garantita dal lavoro di cura non è da considerarsi come un fatto meramente privato, ma al contrario come una questione di cui la collettività dovrebbe farsi carico attraverso mirate politiche sociali.
Le responsabilità di cura sono tendenzialmente divise tra pubblico e privato, tra lavoro di cura formale e informale. I sistemi di cura informali rappresentano una parte predominante del lavoro di cura. Quest’ultimo è svolto per la gran parte da donne, e per tale motivo si parla di gender care gap (Commissione Europea, 2021). In base ai differenti regimi di welfare adottati dai vari paesi europei, si configurano, di conseguenza, sistemi differenti atti a favorire l’accesso e la permanenza delle donne nel mercato del lavoro e la coinciliazione tra attività lavorativa e responsabilità familiari (work-life balance) (Naldini, 2016). E’ possibile quindi distinguere al riguardo quattro principali clusters: paesi con alti livelli di servizi di cura come Danimarca, Svezia e Finlandia; paesi con scarso sviluppo di dati servizi come Portogallo, Grecia, Spagna, Irlanda e Germania; paesi in cui vi è un forte sviluppo del long-term care system ma scarso sviluppo per i servizi dell’infanzia (Olanda, Norvegia e Gran Bretagna); paesi con buoni servizi per i bambini ma scarsi servizi per gli anziani (Belgio, Francia, Italia) (Naldini, 2016).
Il corso di vita della donna negli anni Cinquanta e Sessanta era fondato prevalentemente sul matrimonio e sulla maternità, di conseguenza la presenza femminile nel mercato del lavoro appariva ‘debole’, poiché caratterizzata da frequenti interruzioni (in corrispondenza del matrimonio, della nascita dei figli e così via). L’assetto di welfare predominante era quello del male breadwinner, basato su una netta divisione dei ruoli all’interno della famiglia e sul presupposto della piena occupazione maschile. Ciò che oggi viene drasticamente a mancare sono i presupposti su cui si fondava il vecchio modello sociale: piena occupazione maschile, stabilità del lavoro, famiglia stabile e basata su una rigida divisione del lavoro. Questo nuovo corso di vita, affiancato da un’accelerazione nei processi di invecchiamento demografico e dal calo della natalità (assenza di ricambio generazionale), ha modificato i bisogni di cura e pone una sfida cruciale agli attualli assetti di welfare. Sempre più donne entrano e restano nel mercato del lavoro, riducendo così il tempo necessario che possono dedicare al lavoro di cura non retribuito.
Ciò che è avvenuto a partire dagli anni Novanta in poi è stato uno sviluppo delle politiche di conciliazione famiglia-lavoro, divenuto dominante nei documenti e nei programmi promossi dall’Unione Europea ed in particolare dalla Commissione, con particolare focus sui sistemi di long-term care. Quest’ultimo si riferisce a quella serie di prestazioni assistenziali indirizzate alla cura degli anziani o di soggetti con malattie croniche, invalidanti e di lungo decorso. Il lavoro di cura informale rappresenta la quota più rilevante delle prestazioni di aiuto fornite agli anziani (circa l’80%) (Commissione Europea, 2020). D’altro canto, il lavoro di cura formale è diviso primariamente in servizi residenziali e servizi domiciliari. Per favorire la domiciliarietà del servizio, spesso i governi optano per gli assegni di cura, che costituiscono essenzialmente contributi monetari. In generale, le responsabilità di cura sono la ragione per l’inattività del 31% delle donne, mentre l’inattività maschile è rappresentata solo dal 4.5% (Commissione Europea, 2020). Per far fronte alle responsabilità di cura, le donne scelgono nella maggior parte dei casi lavori part-time, o la definitiva uscita dal mercato del lavoro in corrispondenza di eventi quali la nascita di un figlio, o la necessità di prendersi cura di un genitore anziano o non autosufficente. Ciò comporta inevitalmente, da un lato, stipendi ridotti, aumentando quindi il gender pay gap, e a cascata anche pensioni più basse per il futuro.
È cruciale sottolineare il fatto che il valore economico della cura informale (non immediatamente visibile) oscilla tra il 2.4% e il 2.7% del PIL per i 27 paesi europei, valore che eccede anche la spesa indirizzata alla cura formale nella gran parte degli stati membri (Commissione Europea, 2021). D’altro canto, l’invecchiamento demografico e l’allungamento dell’età di vita porterà a un forte incremento nella richiesta di cura per gli anziani, ed il numero di persone potenzialmente bisognose di cure salirà a 33.7 milioni nel 2030 e a 38.1 milioni nel 2050 (Commissione Europea, 2021). La spesa per il long-term care system aumenterà più di tutte le altre spese sociali, richiedendo quindi l’implementazione di meccanismi sostenibili di finanziamento.
Per quanto concerne i servizi e le politiche per l’infanzia, distinguiamo congedi di maternità, congedi genitoriali (che giustificano un periodo di assenza dal lavoro e prevedono una retribuzione totale o parziale), i servizi pubblici per l’infanzia come asili nido e scuole materne, e il childcare leave. I problemi che i congedi pongono sono diversi, ad esempio se questi abbiano potere emancipatorio in relazione ad una più equa redistribuzione del lavoro di cura tra uomini e donne. Vi sono indubbiamente alcune tipologie di congedo che facilitano una maggiore eguaglianza tra i generi nella redistribuzione del lavoro di cura, mentre altre forme la ostacolano (si pensi ai diversi fattori quali la durata del congedo, il reddito sostitutivo per il mancato salario/stipendio, il tipo di diritto e la flessibilità del congedo stesso). Ad esempio, in Italia, Olanda e Gran Bretagna, il congedo si configura come diritto individuale e non trasferibile, mentre in Francia e Germania si presenta come diritto familiare, ovvero è lasciata ai padri e alle madri la facoltà di scegliere chi dei due e in quale misura farne uso (caratteristica che tavolta ostacola una più equa ripartizione del congedo, basti pensare che in Germania il 96% delle madri ne fa uso a fronte dell’1% dei padri) (Naldini, 2016).
Oltre ai servizi di cura di tipo “collettivo” (pubblici e privati) e ai congedi, esistono altre forme di riconoscimento della cura individuale, non genitoriali e non parentali, ma sostenute con risorse pubbliche, che si sono affermate negli ultimi anni in tutti i paesi europei. Ad esempio, in Francia, la strada imboccata è quella delle agevolazioni fiscali, cui beneficiano quei genitori che o per motivi lavorativi o per scarsità di offerta di servizi, decidono di ricorrere ad un’assistente materna riconosciuta (assistante maternelle agrée), o acquistano servizi direttamente sul mercato. Similmente, in Olanda è stato introdotto il Personal Budget che consente ad una famiglia con bisogni di cura di avere un sostegno attraverso un assegno che consente di acquistare servizi sul mercato (Naldini, 2016). Al contrario, nei paesi mediterranei, le misure che sostengono indirettamente le responsabilità di cura restano carenti e le politiche sociali continuano perlopiù a fare affidamento sulla rete familiare e parentale, in accordo con il sistema valoriare che vede le istituzioni (pubbliche e private) avere un ruolo sussidiario e residuale in merito alla cura (Naldini, 2016).
Futuro del lavoro, cura e reddito di base
Riconoscere il tempo dedicato alla cura, le responsabilità che essa comporta, i rischi che ne derivano per i caregivers, è obiettivo di prima importanza. Per tale motivo si parla di paid to care: dare denaro per la cura. Ciò trova la sua ratio nella retorica della scelta, e nel riconoscimento e nella valorizzazione del lavoro di cura informale.
Se quest’ultimo resta appannaggio del genere femminile e lo scenario futuro rivela un ineluttabile incremento dei bisogni di cura per via dell’invecchiamento demografico, non si potrà più prescindere dall’indagare quale strada imboccare per far fronte alle nuove esigenze. Queste due questioni prioritarie ed interconnesse, affiancate da una strutturale precarizzazione della vita e da una profonda revisione del sistema produttivo tardo-capitalista, aprono la strada per una reale valutazione del reddito di base come strumento capace di sfidare gli attuali assetti di welfare. L’implementazione di un reddito di base avrebbe lo scopo di mitigare le diseguaglianze generate dall’assenza di retribuzione della cura domestica ed eleverebbe lo status sociale accordato a questo lavoro, aumentandone l’attrattiva per tutti. In altre parole, dal momento che il carework verrebbe remunerato, anche le responsabilità di cura tra i sessi sarebbero potenzialmente ripartite in maniera più equa, incrementando l’appetibilità del lavoro per il genere maschile. Ma come evitare l’esito comunque possibile (e perverso) del rafforzamento dell’attuale divisione di genere del lavoro? Come garantire effettivamente quella spinta all’autodeterminazione femminile?
Un’altra importante riflessione da portare alla luce è la questione della cittadinanza: nelle economie moderne, i benefici più consistenti sono destinati ai cittadini concepiti come lavoratori (si parla quindi di una cittadinanza ‘produttivista’) (Bergmann, 1998). Ne consegue che alle persone impegnate esclusivamente nel lavoro di cura non retribuito viene accordata una cittadinanza incompleta ed iniqua, godendo di fatto di minori tutele e benefici.
Da un lato, il modello universal breadwinner mira a garantire parità di genere principalmente promuovendo l’occupazione femminile, e di conseguenza richiede la presenza di servizi di supporto sul mercato che liberino le donne dalle responsabilità di cura. L’idea di fondo che sostiene questo modello accorda una primaria importanza alla sfera pubblica per l’empowerment del singolo e più in particolare quello femminile. Il lavoro domestico è dunque inquadrato come problema da risolvere attraverso la commodificazione, cioè attraverso l’incremento di disponibilità di queste tipologie di lavoro sul mercato. Eppure, ad un’analisi più approfondita, questo modello redistribuisce la cura non tra i due stessi, bensì tra le donne e lo stato, tra donne agiate e donne povere (Fraser, 1997; Zelleke, 2008).
D’altro lato, il modello caregiver parity mira a promuovere l’uguaglianza tra i sessi principalmente attraverso il supporto del lavoro di cura informale e richiede che esso venga considerato e remunerato alla pari di qualsiasi altro lavoro. Questo modello però fallisce nel considerare la distribuzione di genere del lavoro come problematica a sé stante. Il compenso per il care work è pensato come sufficiente per elevare lo status sociale e materiale delle donne, permettendo a donne e uomini di raggiungere l’eguaglianza nonostante la scelta di occupazioni diverse. Ciononostante, considerare il care work come un lavoro rischia di avallare l’idea che esso sia una scelta libera dettata dalle preferenze del singolo piuttosto che un’attività obbligatoria che qualcuno deve pur svolgere, o meglio, una responsabilità universale a cui tutti dovrebbero partecipare (Fraser, 1997; Zelleke, 2008).
Entrambi i modelli promuovono solo superficialmente il valore del care work, poiché riguardano la redistribuzione di ciò che è primariamente lavoro maschile (remunerato), mentre la vera uguaglianza di genere richiederebbe redistribuire ciò che è primariamente il lavoro femminile (di cura).
Il modello universal caretaker abolisce la divisione di lavoro remunerato e lavoro di cura rispettivamente per lavoratori e caregivers, suggerendo che tutti i cittadini dovrebbero essere parte attiva dell’uno e dell’altro, e le istituzioni sociali (il posto di lavoro e il sistema di welfare), dovrebbero essere ristrutturati al fine di supportare questa responsabilità duale. Mediante questo rinnovato paradigma di cittadinanza, un reddito di base andrebbe a promuovere l’uguaglianza meglio di altri schemi di sicurezza sociale. Esso compenserebbe il lavoro di cura ed altri lavori non retribuiti senza esacerbare l’esistente divisione di genere del lavoro e senza eguagliare la cura ad un lavoro come un altro derivante da una libera scelta. Il reddito di base permetterebbe agli individui di scegliere il giusto mix di lavoro remunerato e lavoro di cura che meglio soddisfa i loro bisogni. Dal momento che nessuno dovrebbe scegliere di essere un lavoratore ‘standard’ o un caregiver (non sarebbero quindi lavori mutualmente esclusivi) per ricevere il reddito, esso avrebbe più potenziale di qualsiasi altro schema di supporto sociale. Nell’ottica di distribuzione del lavoro all’interno del nucleo familiare e tra la donna e l’uomo, un reddito di base incondizionato e la riduzione della dipendenza del partner caregiver dal partner occupato nel mercato incoraggerebbe entrambi a combinare i ruoli come meglio preferiscono. Proprio in virtù della sua incondizionalità, universalità e mancanza di prova dei mezzi o status, esso riconoscerebbe la responsabilità condivisa che tutti i cittadini posseggono, anche (e soprattutto) al di fuori del mercato del lavoro remunerato (Fraser, 1997; Zelleke, 2008).
Conclusioni
Molteplici sono le questioni del presente che mostrano in maniera eloquente come la gran parte dei sistemi di welfare europei siano rimasti ancorati ad un mondo appartenente ormai al passato. Nuove esigenze imperversano nell’Europa odierna e nuovi bisogni cercano risposte non solo sul piano teorico e astratto ma soprattutto nella prassi. Il mondo del lavoro, ormai lontano dai vecchi paradigmi fordisti e post-fordisti, è, ad oggi, contrassegnato dal protagonismo del soggetto precario e sotto-occupato; la caratterizzazione del lavoro è fortemente mutata con l’avvento della robotica; l’ingresso della componente femminile nel mercato del lavoro aumenta e fa emergere questioni prima d’ora poco indagate o comunque considerate di importanza marginale. La cosiddetta ‘conciliazione famiglia-lavoro’ così come la si intende oggi, non è altro che una rivisitazione di un problema sempre esistito ma mai preso sul serio dall’agenda politica. Il lavoro di cura, in Italia come negli altri stati europei, è una componente imprescindibile del benessere sociale ed economico dei paesi. E la sua pressocchè totale gratuità nasconde il reale valore e l’effettiva importanza che possiede per l’intera comunità umana. Esso ha permesso e tutt’ora permette il funzionamento dei sistemi produttivi a scapito delle donne, nella gran parte dei casi. La sua remunerazione, oltre a riconoscerne la dignità e ad ammetterne la centralità nella vita di ogni paese, è un’urgenza a cui si può dare risposta attraverso l’introduzione di un reddito di base. Quest’ultimo, per sua natura slegato da condizionalità e selettività, permetterebbe una più equa ripartizione dei compiti tra i sessi andando a ristrutturare l’attuale divisione di genere del lavoro. In aggiunta, l’invecchiamento della popolazione e l’assenza di ricambio generazionale pongono un’ulteriore sfida alla questione di chi si prenderà cura (e come) dei più anziani. Il reddito di base, in definitiva, fungerebbe da strumento di autodeterminazione individuale idoneo a rispondere alle sfide della contemporaneità.
Bibliografia
- Basic Income Network Italia, Verso il reddito di base. Dal reddito di cittadinanza per un welfare universale, 2021.
- Basic Income Network Italia, Diritti sociali e reddito garantito pilastri per un’Europa 2.0, 2016.
- Bergmann B.R. The Only Ticket to Equality: Total Androgyny, Male Style, «Journal of Contemporary Legal», n. 9, primavera 1998, pp. 75–86.
- Briggs A., The Welfare State in Historical Perspective, «European Journal of Sociology», vol. 2, n. 2, 1961.
- Carmichael F., Charles S., The opportunity costs of informal care: does gender matter?, «Journal of Health Economics», n. 22, 2003, pp. 781-803.
- Commissione europea, Factsheet: A new start to support work-life balance for parents and carers, 2020.
- Commissione europea, Peer Review on “Work-life balance: promoting gender equality in informal long-term care provision” – Synthesis Report, 2020.
- Commissione europea, Social Protection Committee, Long-Term Care Report. Trends, challenges and opportunities in an ageing society, 2021.Esping-Andersen G., Politics against Market. The Social Democratic Road to Power, Princeton University Press, Princeton, 1985.
- Federici S., Salario contro il lavoro domestico, Collettivo femminista napoletano per il salario al lavoro domestico, 1976.
- Ferrera M., La società del Quinto Stato, Laterza, Bari-Roma, 2019.
- Fraser N., After the Family Wage: A Postindustrial Thought Experiment, in Justice Interruptus: Critical Reflections on the “Postsocialist” Condition, Routledge, New York, 1997.
- Gheaus A., Basic Income, Gender Justice and the Costs of Gender-Symmetrical Lifestyles, «Basic Income Studies», vol. 3, n. 3, 2008.
- Goldsmith S., The Alaska Permanent Fund Dividend: an experiment in wealth distribution, 9th International Congress, BIEN, Ginevra, 2002.
- Knijn T., Kremer M., Gender and the Caring Dimension of Welfare States Toward Inclusive Citizenship, «Social Politics», vol. 4, n. 3, 1997.
- McKay A., The Future of Social Security Policy: Women, Work and a Citizens’ Basic Income, Routledge, New York, 2005.
- Naldini M., Le politiche sociali in Europa. Trasformazioni dei bisogni e risposte di policy, Carocci, Roma, 2016.
- Russell B., Roads to Freedom, George Allen and Unwin, Londra, 1918.
- Saraceno C., Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi, Feltrinelli, Milano, 2015.
- Van Parijs P., Vanderborght Y., Basic Income. A Radical Proposal for a Free Society and A Sane Economy, Harvard University Press, 2017.
- Zelleke A., Institutionalazing the Universal Caretaker Through a Basic Income?, «Basic Income Studies», vol. 3, n. 3, 2008.