Introduzione: visioni mediterranee
Nell’indagare la realtà del Mediterraneo e cercare di comprendere i trend che caratterizzeranno questo spazio nei prossimi anni e decenni, bisogna innanzitutto accettare una sfida concettuale, una necessità analitica che – sebbene negli ultimi anni sia diventata una sorta di mantra usato e abusato nelle scienze sociali – nell’analisi del Mediterraneo diventa uno strumento di orientamento fondamentale nei meandri di uno spazio che «non è solo geografia» (Matvejevic 2010) riprendendo l’insegnamento di Predrag Matvejevic: sfuggire la linearità di pensiero, la coerenza paradigmatica, e accettare la complessità, essendo disposti a essere meno rigidi e usare più lenti concettuali allo stesso tempo. Questo era l’ammonimento che, agli inizi degli anni Duemila, Raffaele Cattedra dava a coloro che si approcciavano allo studio del Mediterraneo e che resta valido a distanza di anni. Cattedra riprendeva un vecchio adagio di Edgard Morin. Nella sua concezione del Mediterraneo bisognava «concepire l’unità, le diversità e le opposizioni: c’è bisogno di un pensiero che non sia lineare, che comprenda sia la complementarietà sia gli antagonismi» (Cattedra, 2005). Partendo da questo presupposto analitico, per passare all’analisi propria dei “futuri mediterranei” bisogna dare uno sguardo alla storia di questo spazio, al modo in cui la sua non-linearità si è dispiegata nei secoli e come le sue contraddizioni strutturali abbiano modellato questo spazio storicamente liquido – utilizzando la definizione di Salvatore Bono – dove spesso il mare rappresentava una pianura liquida che favoriva lo scambio e l’incontro, e dove – riprendendo Zygmunt Bauman – si parla di una realtà “liquida” nel Mediterraneo dei nostri giorni, cioè rapidamente mutevole, incerta, contraddittoria, sfuggente ad analisi e definizioni durature (Bono, 2016). Come vedremo, però, tale pianura liquida non ha favorito solo scambio e conoscenza, ma anche scontri e reciproche incomprensioni che, probabilmente, nei prossimi anni si radicalizzeranno ancora di più. Chiaramente, dati i limiti di spazio di questo articolo, non c’è alcuna ambizione di sviscerare tutti i dettagli di una storia estremamente ricca e, data questa ricchezza, in molti tratti anche contraddittoria. Riprendendo ancora Morin, «il Mediterraneo esiste solo nelle nostre soggettività» e probabilmente è vero, sebbene tratti di un qualche modo di “essere Mediterranei” esistono, come si vedrà in seguito. In tal senso, esiste un Mediterraneo diverso per ogni paia di occhi che guardano a esso. L’obiettivo, qui, è semplicemente quello di rendere conto del dibattito emerso negli anni sul Mediterraneo e utilizzarlo per situare la nostra analisi non-lineare del futuro del Mediterraneo in questo contesto.
Nel parlare del Mediterraneo, non si può non iniziare da Fernand Braudel, di gran lunga l’autore più influente per ciò che concerne lo studio di questo spazio e, più in generale, uno dei principali intellettuali del Novecento. Nella sua opera monumentale, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II[1], Braudel descrive un Mediterraneo unito, basato su dati ambientali ed economici comuni e che hanno così dato vita a società connesse, parte di un unicum mediterraneo in cui le divisioni sono artificiali e l’unità dettata dalla società e dalla geografia era ben più profonda degli eventi che provocavano conflitto e divisione, nel caso di specie il confronto militare tra Spagnoli e Ottomani (Braudel, 2010). Quest’attenzione per l’unità dello spazio Mediterraneo ha comportato una sorta di polarizzazione del campo degli studi Mediterranei tra coloro che lo percepivano come spazio unitario, riprendendo la lezione di Braudel, e altri che invece criticavano tale approccio. La critica classica è quella di Henry Pirenne, per il quale l’arrivo dell’Islam nel Mediterraneo distrusse l’unità romana del mare, forzando i popoli europei del Mediterraneo a guardare verso nord (Pirenne, 1997) mentre, con un approccio più micro, David Abulafia rovesciava la prospettiva mettendo l’individuo – e non la struttura ambientale ed economica – al centro della vita mediterranea (Abulafia, 2011). Peregrine Horden e Nicholas Purcell, partendo da una prospettiva intimamente multidisciplinare, parlano di un Mediterraneo diviso in distinte microregioni, prodotto della peculiare ecologia del bacino, e che sono definite dalla loro interazione con le altre unità di questo sistema, in ciò che i due autori definiscono connettività (Horden e Purcell, 2000). In questo senso, Bernard Keyser in un libro mai troppo pubblicizzato – in particolar modo nel mondo anglosassone – ben descrisse il Mediterraneo come un mare caratterizzato principalmente dall’esistenza di fratture che si dispiegavano a vari livelli, ambientale, culturale, politico ed economico (Kayser, 1996). Jacques Levy, nel suo eccezionale lavoro sull’Europa e l’europeanità, descrive l’unità del Mediterraneo come un mito basato principalmente su «quattro principi di unità apparenti: natura, romanità, turismo e civiltà» che, per Levy, «rivelano rapidamente la loro appartenenza al mito»; parlare di un «Mediterraneo come di uno spazio coerente e strutturante significa, per le periferie mediterranee, cercare di resuscitare le grandezze passate» e anche nel Mediterraneo europeo il quadro non è cosi unitario, visto che per Levy possono distinguersi tre spazi distinti: la Padania e la Catalogna, regioni che affacciano formalmente sul mare Mediterraneo ma guardano agli spazi dell’Europa centrale e industriale; le riviere, principalmente votate al turismo, e le periferie di stato, le zone depresse degli stati europei rivieraschi (Lévy, 1999). Certamente, molti di questi elementi sono veritieri, ma essi non fanno interamente giustizia all’esistenza di un modo di vivere mediterraneo che, al netto delle differenze chiare e visibili a livello di sviluppo economico, credo religioso, lingue e capacità statuali, è riscontrabile da chiunque abbia camminato, vissuto o si sia approcciato con occhi e testa pronti a riconoscere tali similitudini in Andalusia, nel Mezzogiorno Italiano, nei Balcani, nel Levante, nel Maghreb. Per dirla con le parole di Luigi Mascilli Migliorini, parlando della socialità nel Mediterraneo definita da specifici elementi geofisici, come la distanza mai eccessiva delle sue coste, o il clima mai particolarmente ostile: «Di questa socialità…si alimenteranno gli scambi materiali di cui questo mare sarà sempre ricchissimo, realizzando una sorta di comunità mediterranea riconoscibile da tratti del comportamento, della concezione dell’esistenza, dell’immaginario, omogenei anche al di là delle differenze di etnia, lingua e religione». (Mascilli Migliorini et al., 2017). Senza volere cadere in alcuna tentazione di ‘cerchiobottismo intellettuale’ ma rendendo giustizia alla non-linearità di cui sopra, parlare di un Mediterraneo unito vs. un Mediterraneo diviso rischia di essere un esercizio di mera categorizzazione intellettuale senza una reale attinenza alla realtà concreta del mare, delle sue rive e degli spazi, vicini e lontani, in cui la sua influenza sociale, economica e politica si riverbera. In tal senso, nel Mediterraneo convivono questi elementi, e nel delineare il futuro di questo spazio si cercherà di dare conto di come essi si svilupperanno nei prossimi anni e decenni.