Dopo oltre dieci anni di negoziati, offerte e visite diplomatiche, il 21 maggio 2014 Russia e Cina hanno siglato il tanto atteso accordo per la fornitura di gas che garantirà a Pechino un approvvigionamento da 38 miliardi di metri cubi di gas all’anno per un trentennio, a partire dal 2018, anno in cui è stato previsto che verranno ultimate la posa, la messa in sicurezza ed il varo dei circa 4.000 chilometri di gasdotti necessari a collegare i giacimenti russi della Siberia e dell’isola di Sakhalin con la rete di distribuzione cinese.
Il perché sia stato possibile solo recentemente raggiungere un siffatto accordo, agognato per oltre un decennio, è palesemente riconducibile all’attuale situazione geopolitica internazionale.
La situazione ucraina è sui giornali dalla fine del 2013. Dalle proteste di Euromaidan alla successiva fuga del presidente Yanukovich, dalla perdita territoriale della penisola di Crimea alla situazione dell’Ucraina orientale, ormai territorio in stato di guerra e vittima delle numerose fazioni in campo, la crisi vede contrapporsi due schieramenti distinguibili nettamente, ma che si scontrano anche a livello intestino a causa della diversità di vedute in merito a modalità, tempistiche e scopo delle operazioni, nonché per non rischiare gli uni di essere lo specchietto per le allodole o il capro espiatorio degli altri.
La crisi ucraina si è andata a giustapporre alle già tese situazioni siriana e nordafricana che tengono banco da quasi quattro anni, precisamente dallo scoppio della primavera araba. Uno sconvolgimento di tale portata in zone dal potenziale energetico quintessenziale all’economia globale e in particolar modo a quella dell’Unione Europea hanno dato da pensare e non poco agli uomini di Bruxelles e delle varie capitali del vecchio continente.
Il tutto inoltre condito dall’inizio della nuova road map di “smobilitazione” statunitense, una sorta di “exit strategy energetica” dallo scacchiere mediorientale in virtù di una virata politico-energetica che ha aperto la via alla produzione interna di olii e gas di scisto ed al loro ulteriore approvvigionamento dai vicini canadesi e messicani, il quale approvvigionamento risulta essere decisamente più user friendly rispetto al trattare con sceicchi e petro-dittatori.
Dulcis in fundo, particolar menzione va fatta per la Cina. A Pechino i leader del Partito hanno ben chiara la via che si prospetta dinanzi a loro e dall’adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio (11 dicembre 2001), la Repubblica Popolare Cinese ha lavorato macinando una crescita interna costante nutrita di mercantilismo (basti pensare alle politiche di dumping in atto), accaparramento di territori (vedi Africa sub sahariana e Ucraina orientale), incetta di risorse (energetiche ed alimentari), guadagnandosi il soprannome (sicuramente dispregiativo) di Repubblica “Economica” Cinese.
Non siamo dinanzi a mere questioni ideologiche, diverse vedute politiche o banali querelle commerciali. Questo risiko a dimensioni reali vede i differenti attori-giocatori lavorare a strategie e metterle in atto seguendo percorsi prestabiliti e affrontando sfide e crisi già ampiamente preventivate (se non nella forma, quanto meno nella plausibilità).
L’Unione Europea sembrava potersi affrancare dal “giogo” statunitense (Washington è stata la prima vera promotrice di un’Unione “economico-commerciale” e poi anche politica, ma solo in senso collegiale, non federale, allo scopo di contenere l’ascesa di un egemone continentale); eppure, la crisi ucraina ha dimostrato come Bruxelles sia in costante balìa della realpolitik franco-tedesca sul piano interno, mentre un passo più indietro a muovere i fili c’è sempre Washington, la cui preoccupazione principale è quella di mantenere il predominio sul vecchio continente ma a basso costo, in previsione di una futura concentrazione delle proprie forze sullo scacchiere asiatico (si pensi solo al recente schieramento in Vietnam per arginare le manovre cinesi di ricerca ed estrazione di petrolio in quella regione). In secondo luogo, gli Stati Uniti appoggiano l’Ucraina con il duplice scopo di ridurre al massimo “l’europeità dell’impero euroasiatico”, la cui vicinanza geografica lo rende partner naturale delle altre due grandi potenze continentali: Francia e Germania. La rottura Ucraina-Russia ha stroncato l’ascesa inevitabile del Cremlino come prima potenza europea. Ovviamente Mosca aveva poche opzioni dinanzi alla possibilità di un accordo di adesione dell’Ucraina all’Unione Europea: Putin si sarebbe trovato con un crocevia energetico meno incline a trattare bilateralmente con Mosca e quindi meno rispondente alle pressioni e alle offerte che da sempre caratterizzano la politica estera del Cremlino nelle regioni di confine. Inoltre, come già accaduto con le repubbliche baltiche, l’adesione all’Ue avrebbe implicato quasi consequenzialmente una pre-adesione all’Organizzazione del Trattato Nord-Atlantico, il che avrebbe implicato per i russi trovarsi il nemico alle porte con portaerei nel Mar Nero ormeggiate a Sebastopoli battenti il vessillo NATO.
In realtà, la posizione russa in Ucraina si è rivelata essere molto solida. Mosca è il primo partner commerciale di Kiev, coprendone il 35% del mercato; inoltre, il bilinguismo ed il bi-nazionalismo sono risultati essere la chiave di volta sia in Crimea, spingendo la penisola tra le braccia del Cremlino tramite un processo di “auto-annessione”, così come lo potrebbe essere per l’Ucraina orientale in caso di scissione est-ovest del paese. Una tale separazione traghetterebbe le ricche regioni dell’est in orbita russa con un congiungimento naturale all’Unione doganale.
Lo stato dell’arte indica che le manovre a stelle e strisce di arginamento dell’avanzata russa nel vecchio continente hanno avuto buon fine, ma il boomerang di tale intervento è risultato essere l’avvicinamento russo-cinese in materia di approvvigionamento energetico (del resto il Cremlino, via Gazprom, prima o poi avrebbe dovuto piazzare il gas di cui madre natura l’ha dotato in maniera così ingente).
La scommessa statunitense è che, nonostante il neonato accordo energetico, nonostante la partecipazione e promozione reciproca di Mosca e Pechino per L’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione, nonostante le posizioni comuni adottate nei consessi ONU in sede di Consiglio di Sicurezza (vedi veto alla risoluzione concernente la Siria), nonostante le forniture militari del Cremlino alla Repubblica Popolare, in realtà i rapporti siano più opportunistici che non amichevoli.
Mosca diffida di Pechino e a ben ragione: la tecnologia militare che i russi vendevano alle industrie pesanti cinesi è stata riprodotta da queste ultime per tentare di eliminare l’intermediario e far perdere le tracce dei propri progressi; inoltre, lo sviluppo dell’estremo oriente russo necessità di ingenti investimenti cinesi, ma la preoccupazione al Cremlino è che l’immigrazione cinese sarà massiccia e lo sviluppo dell’area in futuro sarà sotto ingerenza cinese e sempre più difficile da arginare anche in considerazione della distanza geografica dell’area con la Russia europea.
Quello russo-cinese è di certo un matrimonio di interessi, tendente ad arginare i colli di bottiglia che le rispettive politiche regionali hanno creato (se si è detto abbastanza per quanto concerne la situazione russa in Europa e nei rapporti con l’Europa e gli Stati Uniti, bisogna aggiungere che da par suo la Cina ha chiuso il sopracitato accordo energetico in previsione di “meno agevoli condizioni” di approvvigionamento via mare, in un futuro prossimo, provenienti dal Pacifico occidentale), ma non per questo va preso alla leggera, come se decontestualizzato dal panorama che lo circonda.
I cambiamenti epocali appena menzionati comportano una serie di sfide ad ampio raggio e che trasversalmente coinvolgono tutti i paesi facenti parte del sistema internazionale e del mercato internazionale.
L’Unione Europea ha il dovere di trovare una risposta comune che possa agevolare la transizione da continente principe delle vicissitudini internazionali a mera provincia esecutrice di politiche varate e pilotate altrove.
Innanzitutto, cruciale è per l’Europa accedere a nuove linee di approvvigionamento energetico. Due sono al momento le strade percorribili: la realizzazione del gasdotto trans-adriatico (TAP) che renderebbe nel medio termine l’Italia un “micro” hub energetico per l’Europa con rifornimento continuo dal bacino di Shah Deniz in Azerbaigian (passando per Turchia, Grecia ed Albania); oppure il South Stream, voluto dai russi con caparbietà e spalleggiato direttamente da Austria ed Ungheria (declassate politicamente dal TAP in quanto depennate dalla lista dei Paesi attraverso i quali far passare il gasdotto).
L’Italia da parte sua può giocare un ruolo fondamentale sfruttando la propria collocazione geografica, le proprie competenze tecniche e gli ottimi rapporti diplomatici con i competitors in gara. Se Roma giocherà bene le proprie carte, e riuscirà a superare le insidie mediatiche e politiche che Parigi e Berlino le porranno dinanzi, allora l’Europa nel medio-lungo periodo potrebbe beneficiare dell’azione italiana e continuare a rivestire un ruolo di potenza (quantomeno commerciale) sul palcoscenico internazionale.
Se si prendono in analisi i progetti di costruzioni delle varie pipelines ad oggi al varo, vediamo emergere due principali rotte energetiche: l’una che dal Caspio convoglierà verso occidente portando gli interessi di Bruxelles e quelli di Mosca alla conflagrazione; l’altra diametralmente opposta con direzione Repubblica Popolare Cinese e India, ma passando attraverso Pakistan ed Afghanistan, e dunque scatenando la competizione tra Pechino e Nuova Delhi da un lato e toccando un tasto a dir poco dolente per la “sicurezza energetica” statunitense dall’altro.
D’altronde, come già ben chiarito nel gennaio 1980 dall’allora presidente Jimmy Carter in occasione dell’invasione sovietica in Afghanistan, del 1979, la risposta statunitense a qualsivoglia azione che possa mettere a repentaglio la sicurezza dello stretto di Hormuz (principale hub del greggio mondiale) sarà affrontata dali USA al massimo delle proprie possibilità, rischiando anche l’uso della forza (l’Afghanistan è a 300 miglia dall’Oceano Indiano e dunque molto vicino allo stretto di Hormuz nei pensieri/incubi geo-strategici di Washington).
Obama è conscio del bisogno strategico di una maggior presenza in Asia centrale, Estremo oriente e Pacifico occidentale; non a caso nuovi accordi anche militari sono sulle scrivanie dei ministri degli esteri di molti paesi tra cui in primis Australia, Filippine e Indonesia (motivi per i quali, da parte cinese, è stato più saggio giungere in breve tempo ad un accordo energetico con i russi).
Gli stretti di Hormuz e Malacca, il bacino del Caspio e la zona Artica che presto vedrà portata alla luce la propria riserva di oro nero, sono i punti nevralgici della nuova geo-politica energetica delle grandi potenze mondiali. Come nell’antico gioco estremorientale del Go, i vari attori internazionali stanno prendendo campo sullo scacchiere, stringendo il maggior numero di alleanze che servano bene lo scopo.