Chi sostiene che il cambiamento climatico sia provocato unicamente dalle attività recenti dell’Uomo? Seguendo la congettura antropogenica della dinamica delle emissioni di gas serra sulla scala di migliaia di anni, si potrebbe affermare che tali emissioni siano causate dalla crescita della popolazione e dell’attività umana da sempre. Se in particolar modo si considerasse la diversa intensità di uso del terreno agricolo al variare della popolazione, sarebbe possibile ottenere stime del territorio deforestato correlate alla quantità di anidride carbonica presente nell’atmosfera. Ciò vorrebbe dire che l’umanità sarebbe in grado di controllare i gas serra da migliaia di anni e non solo recentemente (Ruddiman e Ellis, 2009). I primi agricoltori usavano sistematicamente il fuoco per disboscare grandi aree, provocando così una forte emissione di CO2. La motivazione per la quale sussiste una correlazione tra densità demografica ed intensità agricola è che in passato un singolo individuo utilizzava più terra per sé rispetto ad oggi.
L’ipotesi del global warming antropogenico incontra, però, degli ostacoli di natura empirica. Dai dati analizzati si evince, per quanto riguarda la misurazione delle temperature, che le osservazioni dirette ricoprono epoche ed aree geografiche disgiunte. Solo a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo i dati disponibili sono realmente globali: le osservazioni indirette precedenti a questo periodo ricoprono essenzialmente l’area nordamericana. La presenza di una specifica zona di cui si dispongono dati dei secoli passati porta ad un’inevitabile constatazione circa il Medioevo Caldo (il cosiddetto Mediaeval Warm Period, decenni in cui le temperature erano insolitamente più alte rispetto alle epoche precedenti): non può esser considerato tale nell’intero globo o, per meglio dire, non si può sapere se lo è stato in assenza di strumenti che possano attestarlo (Deming, 2005). Ogni tipo di osservazione mostra un evidente limite: il polline è presente solo in alcune tipologie di vegetazione, oltre a sottostimare i dati con i termometri, essendovi un’informazione ogni cento anni; le carote di ghiaccio sono recenti ed è possibile riscontrarle unicamente a certe latitudini; per la cosiddetta dendroclimatologia, ovvero lo studio del clima passato estrapolando informazioni dagli alberi, l’anello di accrescimento annuale è tanto maggiore quanto più alta è stata la temperatura (e viceversa), ma va considerato che abbondanti piogge o forti umidità potrebbero falsare l’esito dell’analisi.
Sebbene sia più ragionevole restringere le analisi della temperatura alle regioni con una maggiore copertura di stazioni, c’è un maggiore incentivo a cercare di ottenere stime sul cambiamento della temperatura globale sul lungo periodo. Tali dati globali consentirebbero un confronto più adeguato di modelli del clima globale e migliorerebbero la capacità di scoprire effetti possibili di destabilizzazione del clima globale, quali l’incremento atmosferico di CO2 nei decenni futuri.
Il cambiamento climatico, tra le diverse attività antropiche, ha un significativo rapporto di causa-effetto con l’agricoltura. L’intensità di coltivazione nel cinquantennio che va dal 1700 al 1750 era evidente solo nell’Europa occidentale, in India, Nepal, Bangladesh e con una percentuale più bassa (intorno al 20%) in alcune aree dell’Europa orientale, nella zona costiera della Cina e nell’Africa Sub-sahariana.
Alla fine del XIX secolo, se da un lato si raggiungono zone con il 100% di aree coltivate, dall’altro macro-regioni come America Latina, Africa del Nord, Medio Oriente, oltre a Canada, Alaska e Australia, mostrano un’intensità di coltivazione persistentemente bassa, se non nulla. È invece a partire dall’ultimo decennio del Novecento che si assiste ad una crescita esponenziale dei terreni agricoli in diverse zone del globo (Fig. 2).
L’esplorazione del potenziale impatto del cambiamento dell’uso pro-capite della terra negli ultimi millenni palesa che il maggior disboscamento dei primi agricoltori potrebbe aver avuto un impatto sproporzionatamente ampio sulle emissioni di CO2. Oggi, dati del World Resources Institute attestano che il 33% delle emissioni globali di gas serra proviene dell’attività agricola, generando in modo rilevante metano e protossido di azoto.
Sebbene non analizzato, tutt’altro che secondario è l’effetto inverso: il settore agricolo subisce impatti negativi dal cambiamento climatico (riduzione della produttività e della sicurezza alimentare in primis). Trattasi, dunque, di un circolo virtuoso dal quale solo incoraggiando una ri-localizzazione delle risorse produttive agricole e favorendo l’innovazione delle tecniche di coltivazione sostenibili se ne può uscire.
Per approfondire:
- Deming D., Global Warming, the Politicization of Science, and Michael Crichton’s State of Fear, in “Journal of Scientific Exploration”, Vol. 19 n. 2, 2005, pp. 247-256.
- Hansen J., Lebedeff S., Global Trends of Measured Surface Air Temperature, in “Journal of Geophysical Research”, Vol. 92 n. D11, 1987, pp. 13345-13372.
- Ramankutty N., Foley J. A., Estimating historical changes in global land cover: Croplands from 1700 to 1992, in “Global Biogeochimical cycles”, Vol. 13 n. 4, 1999, pp. 997-1027.
- Ruddiman W.F., Ellis E.C., Effect of per-capita land use changes on Holocene forest clearance and CO2 emissions, “Quaternary Science Reviews”, Vol. 28,