Quando si pensa al Transumanesimo, si tende spesso a pensare a un movimento basato su speculazioni per lo più fantascientifiche, e inconsapevole delle premesse antropologiche e filosofiche rilevanti. In realtà, le cose non stanno propriamente così.
Quest’articolo punteggerà brevemente tali premesse, senza entrare nel dettaglio riguardo alle prospettive e alle innovazioni scientifiche e tecnologiche più entusiasmanti che si stanno aprendo dinanzi a noi. Quel che mi preme fin d’ora sottolineare, però, è che già oggi ci sono tutti i presupposti affinché le idee transumaniste possano trovare realizzazione in un futuro non lontano: le conquiste di ingegneria genetica, biotecnologie, medicina rigenerativa, nanotecnologie, robotica e intelligenza artificiale renderanno verosimilmente possibile ridurre, e in prospettiva sconfiggere, malattia, sofferenza, povertà, ignoranza, nonché vincere la vecchiaia e conquistare così una longevità estrema. In altre parole, ciò che spesso viene indicato, sinteticamente, con la triade superintelligenza, superabbondanza e superlongevità.
Naturalmente, verranno da ultimo affrontati anche i possibili rischi connessi alla prospettiva transumanista – essenzialmente dal punto di vista sociale, economico e politico –, come del resto una seria discussione sul futuro impone, anche perché – e questo ci tengo a sottolinearlo – la riflessione transumanista certamente è, anche e soprattutto, una riflessione di tipo futurologico.
Fatta questa premessa, possiamo partire da un dato di fatto inoppugnabile, e cioè che, nonostante gli indubbi progressi, la condizione dell’Uomo – del singolo uomo –, in fondo e tutto considerato, continua ad essere non molto diversa da quella di ogni altro essere vivente: un semplice anello, privo di intrinseco valore, nella lunga catena delle nascite e delle morti. La scienza, in effetti, inizialmente ha sembrato volerci privare di quel posto privilegiato nell’universo che ritenevamo di avere (da tradizione religiosa: si pensi alla Genesi; o filosofica: si pensi al Timeo di Platone). Prima la rivoluzione copernicana ci ha messo – potremmo dire – all’angolo, collocandoci su di un piccolo pianeta di un sistema solare periferico di una tra le innumerevoli galassie. Poi la rivoluzione darwiniana ci ha dato il colpo di grazia, considerato che il processo evolutivo per selezione naturale postula la totale irrilevanza degli individui delle singole specie; individui che sono strutturalmente da sacrificare – devono necessariamente nascere, riprodursi e morire – affinché la specie nel suo complesso evolva (o, per meglio dire, i geni si propaghino). Come dice Richard Dawkins nella prima pagina del suo celebre libro, Il Gene Egoista: «Noi siamo macchine per la sopravvivenza, veicoli automatici ciecamente programmati per preservare quelle molecole egoiste conosciute come geni». In effetti, possiamo ben dire che l’accoppiata “autocoscienza più mortalità” determina la tragicità della condizione umana. Di questo hanno dato lucidissima testimonianza i vari “pessimismi cosmici” ottocenteschi, da Leopardi a Schopenhauer.
A questo punto, però, sorge spontaneo porsi una domanda. Ciò che è naturale, è anche giusto? E in particolare, ciò che è naturale va considerato necessariamente anche giusto dal punto di vista di un soggetto consapevole e autocosciente?