In questi mesi si è ripetuto molte volte – e non a torto– che il programma statunitense Artemis segna un punto di svolta epocale nel percorso verso la (ri)conquista umana della Luna e dello spazio. È oltremodo importante sottolineare che oltre alla definizione degli aspetti ingegneristici ed economici che ne permetteranno la concreta realizzazione, mediante un accordo multilaterale ne è stata recentemente determinata anche la linea politica. In questo modo, i responsabili governativi dei Paesi che hanno aderito al programma hanno assicurato ai propri Stati un posto in prima linea per la realizzazione del Lunar Gateway e per lo sfruttamento dell’ingente ritorno scientifico ed economico che deriverà da Artemis. In cambio, preoccupandosi di proporre (e imporre) ai partner desiderosi di far parte del programma la ratifica degli Artemis Accords, gli Stati Uniti hanno raccolto un’importante dose di consenso internazionale riguardo la visione statunitense del diritto dello spazio applicato alla Luna e al suo sfruttamento. Gli Artemis Accords per molti versi superano fino a negarlo il diritto internazionale dello spazio così come definito dai Trattati: l’interpretazione statunitense vuole superare in particolare il Trattato sulla Luna, nel quale è stata esplicitata la dibattuta definizione del nostro satellite naturale come patrimonio comune dell’umanità e la cui lettera è di ostacolo allo sviluppo della piena potenzialità della Space Economy.
Davanti al passivo silenzio con cui il legislatore internazionale ha accolto nel concreto l’audace e innovativa proposta statunitense, è praticamente certo che questi accordi diventeranno il nuovo canovaccio su cui si formerà il futuro diritto dello spazio. Il quale, al netto delle proteste russe e cinesi, avrà almeno nei prossimi anni cospicue sfumature made in USA. E questa impostazione avrà senz’altro un impatto notevole su un particolare ambito in cui si sta modellando l’odierna sfida spaziale: la costruzione di insediamenti permanenti nello spazio.
Andando oltre l’imminente costruzione del Gateway, è noto che nei piani delle agenzie coinvolte nel progetto, oltre all’insediamento stabile di attività economicamente significative sulla Luna, quanto previsto dal programma Artemis costituirà il punto di partenza per la realizzazione del primo insediamento umano permanente in orbita o sulla superficie del nostro satellite. Ciò che fino a poco tempo fa era poco più che fantascienza sta prendendo forma e si sta concretizzando rapidamente: presto non sarà più solamente il tempo di riflettere su come costruire e sostenere una colonia umana nello spazio, ma sarà piuttosto il caso di domandarsi come farla funzionare dal punto di vista sociale nella sua quotidianità. Quella quotidianità permeata di regole in grado di far convivere pacificamente persone, gruppi e comunità.
È assodato che per regolare la vita quotidiana dei futuri coloni spaziali non sarà possibile replicare il modello attualmente in uso nell’unico avamposto umano nello spazio attualmente esistente, la Stazione Spaziale Internazionale. La ISS è infatti progettata per essere abitata sì permanentemente, ma con un costante ricambio di personale altamente qualificato che vi staziona per periodi di tempo relativamente brevi. Al di là delle peculiarità riguardanti la giurisdizione dei singoli moduli e quella relativa a incidenti o illeciti, è facile intuire che per quanto riguarda la convivenza ordinaria in quel particolare ambiente e per quel peculiare tipo di soggetti coinvolti una gerarchia di tipo militare sia una soluzione più che accettabile. Tanto non si potrà dire nel caso di insediamenti permanentemente abitati da civili, per i quali una legislazione emanata dall’alto (o meglio, dall’altro) sarebbe impraticabile e, a lungo andare, persino dannosa.
Sarebbe impraticabile poiché, a norma dei Trattati internazionali che regolano l’attività umana nello spazio, quegli insediamenti non potranno in primo luogo neppure definirsi colonie. Essendo vietato agli Stati terrestri ogni rivendicazione di sovranità su quanto c’è fuori dall’atmosfera terrestre, è esclusa la possibilità che gli insediamenti nello spazio possano configurare quanto etimologicamente descrive il termine colonia, ovvero un “gruppo di cittadini di uno stato che per decreto pubblico o di propria spontanea volontà si stabilivano in passato in un paese lontano, per abitarlo, coltivarlo, incivilirlo, acquisirlo” . Quando si parla di insediamenti permanenti nello spazio è necessario tenere presente che, al netto delle posizioni predominanti detenute da determinati Stati, essi saranno il risultato di una partecipazione collettiva e multilaterale a cui prenderanno parte soggetti provenienti da Nazioni caratterizzate da sensibilità culturali e interessi politico-economici eterogenei. Sarà su questo piano che si giocherà lo scontro tra le logiche di diritto “esportate” insieme ai propri interessi dalle Nazioni dominanti nell’economia dell’insediamento spaziale, le regole di diritto internazionale e, soprattutto, i diritti propri degli stessi insediamenti.
Non ci troveremo infatti davanti a un laboratorio orbitante ma a una comunità viva, inedita nella propria identità, in cui i suoi abitanti avranno diritto e interesse di riconoscersi. Non potendo costituire una classica colonia nazionale, essa potrebbe essere definita “colonia mondiale” sulla scia del principio più idealistico che fattuale secondo cui gli astronauti sono ambasciatori dell’intera umanità. Ma per quanto un buon lavoro di revisione del diritto internazionale e un generoso sforzo di collaborazione tra Stati sarebbero in grado di definirne i contorni principali nel primo periodo, il diritto dei trattati non è sufficiente a regolare nel dettaglio i rapporti quotidiani negli insediamenti spaziali. E nonostante la pressione economico-politica che proverrà dalle Nazioni più influenti per il sostentamento dell’insediamento, sul lungo periodo la comunità stabilita nello spazio non avrà interesse né vantaggio nel sottostare al diritto di una Nazione situata su un altro Pianeta in cui le condizioni di vita e gli interessi rilevanti sono totalmente estranei ai propri.
La conseguenza è che senza un intervento ad hoc che ne crei il diritto praticamente da zero, sugli aspetti quotidiani e più stringenti delle vite dei “coloni” rimarrebbero enormi voragini normative che renderebbero impervia e abbandonata al caso la definizione dei rapporti civili tra persone e tra gruppi e, infine, condannerebbero al fallimento l’esperienza di vita civica nello spazio.
Analogamente, è altrettanto impercorribile la strada di una regolamentazione del vivere quotidiano di un gruppo eterogeneo di civili per mezzo di una gerarchia militare, mutuando l’esperienza della ISS. Sebbene possa per sua natura garantire la rapidità decisionale di cui necessiteranno gli insediamenti a causa delle particolari condizioni ambientali in cui verranno fondati, una gerarchia militare non è democratica per definizione, né è democratica la base a cui è diretta e che è chiamata a subire il comando di soggetti a lei imposti e i cui ordini deve eseguire senza possibilità di obiezione. Da ciò deriva che soggiogare a una gerarchia di tipo militare la comunità spaziale sarebbe come piantare un albero i cui germogli sono già marciti in partenza: si tratterebbe una degenerazione della democrazia intollerabile per l’equilibrio geopolitico terrestre e, soprattutto, per i diritti dei coloni.
In questo senso l’imposizione di una gerarchia militare e quella di una specifica giurisdizione nazionale terrestre rappresenterebbero entrambi e allo stesso modo violazioni dei diritti umani di libertà e autodeterminazione dei coloni, i quali avranno interesse e diritto ad auto-governarsi e a costituirsi in un’entità autonoma. Non riconoscere il diritto dei coloni ad autodeterminarsi sarebbe non solo un insopportabile vulnus alla vita democratica dell’insediamento, ma costituirebbe anche una mossa poco lungimirante in grado di corrompere le relazioni politiche ed economiche con la Terra e con i soggetti, pubblici o privati, che avranno interesse a mantenere stabili i rapporti con gli insediamenti produttivamente rilevanti per svolgere durevolmente la propria attività economica nello spazio.
È indubbio che anche nella più futuristica visione dell’espansione umana nello spazio per moltissimo tempo il centro economico, sociale e politico del Sistema Solare rimarrà la Terra, Sole relazionale a cui tutti gli insediamenti extra-terrestri rimarranno legati. Ciò è ancor più vero per quanto riguarda gli insediamenti posti in orbita attorno alla Luna, i quali per posizionamento spaziale rimarranno a strettissimo contatto col nostro Pianeta. Da e per una città cislunare ci potremo aspettare un sostenuto traffico quotidiano di merci e persone, le quali manterranno relazioni personali e economiche molto intense con la Terra. Non traggano in inganno una fitta rete di scambi e la possibilità, condizioni fisiche permettendo, di spostarsi regolarmente da e per il nostro Pianeta: questi elementi di vicinanza e interdipendenza economica non inficiano il diritto di autodeterminarsi e autogovernarsi in capo alla popolazione stabilmente insediata fuori dalla Terra.
Le particolari condizioni in cui vivranno i coloni, il legame territoriale che li unirà e la presenza di una vita economica comune sono ragioni innegabilmente meritevoli di riconoscimento e tutela. Tali argomenti si spendono a favore della necessità di riconoscere alla comunità insediata nello spazio la qualifica di popolo, laddove tale termine indica “qualsiasi particolare comunità umana unita dalla coscienza e dalla volontà di costituire una unità capace di agire in vista di un avvenire comune”. Un comune futuro e un progetto politico condiviso sono certamente fattori tanto essenziali da essere in grado di superare gli elementi originariamente eterogenei derivanti dalla multiculturalità e internazionalità dei primi coloni, diversamente da quanto accade nel caso dei territori transnazionali oggi presenti sulla Terra.
Postulata la necessità di riconoscere l’autonomia e l’autogoverno degli insediamenti extra-terrestri, è doveroso precisare che lasciare completamente nelle mani dei primi coloni la costruzione dell’architrave normativa su cui reggere la vita quotidiana della loro comunità non sarebbe auspicabile per un duplice motivo.
Da un lato, e molto concretamente, è improbabile che i pionieri dello spazio avranno la formazione giuridica adeguata per affrontare un compito colossale come sarà la formulazione di un corpus normativo totalmente inedito sotto ogni suo punto di vista, dalla regolamentazione delle più piccole questioni di vicinato ai principi fondamentali che fonderanno i rapporti con un altro Pianeta. Ciò nonostante, è auspicabile che tra le tante discipline in cui dovranno essere formati i primi coloni spaziali sia dato il giusto spazio anche al diritto. Questo perché, se non dovranno essere abbandonati completamente al proprio destino, essi avranno tutto il diritto nonché il dovere di parteciparvi, formandolo e adattandolo alla propria realtà quotidiana e alla volontà espressa dalla comunità sotto l’auspicata guida di un organismo internazionale (e interplanetario) adatto allo scopo.
Dall’altro lato, è opportuno per una pacifica e proficua relazione Terra – Spazio che il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione e all’autogoverno degli insediamenti indipendenti nello spazio segua gli stessi criteri adottati per i popoli sulla Terra. Sarà necessario, ad esempio, che le comunità spaziali facciano riferimento ai diritti umani, non facciano uso di violenza ma adottino gli strumenti propri del metodo democratico, si impegnino a non essere un’entità armata e si associno all’autorità delle Nazioni Unite riconoscendone il ruolo a garanzia della propria vocazione democratica.
In conclusione, è auspicabile che a fronte del diritto ad autogovernarsi proprio delle comunità nello spazio vi sia un concreto supporto e controllo finalizzato a garantire il rispetto del principio democratico per contrastare le possibili ingerenze perpetrate dalle Nazioni economicamente più influenti nella New Space Economy. Allo stesso tempo, ciò sarà necessario per tutelare i diritti umani e guidare lo sviluppo della legislazione propria delle comunità spaziali in accordo con i principi fondanti dei diritti umani. Questi tutelano gli esseri umani in quanto tali, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. E senza distinzione rispetto a quale luogo dello spazio essi chiamano casa.
Bibliografia
- Agenzia Spaziale Italiana, Firmata dichiarazione d’intenti tra governo italiano e governo degli Stati Uniti sul programma lunare Artemis, ASI.it, Settembre 2020.
- Direzione del Centro diritti Umani dell’Università di Padova, Autodeterminazione, diritti umani e diritti dei popoli, diritti delle minoranze, territori transnazionali, Conferenza generale della Helsinki Citizens’Assembly, HCA, Bratislava, 25-29 marzo 1992.
- Gros E.H., The Right to Self Determination: Implementation of United Nations Resolutions, Organizzazione delle Nazioni Unite, 1980.
- Mini F., La rivincita di Sparta, “Limes”, marzo 2012.
- Stern P., International law and the ‘art of living in space’, “Space Policy”, agosto 1993.