Sarà mai possibile compiere ottant’anni e averne biologicamente trenta? In quest’articolo parleremo esattamente di questo, dell’estensione della vita, che amo dividere in quantitativa – quindi se è possibile o meno avere degli anni in più allungando la propria vita e rallentando il tempo, ma anche se è possibile “fermarlo” tramite la crionica parlando del progetto LIFEXT Cryonics Group – ed estensione qualitativa, quindi quanto sia importante vivere quegli anni in più da “giovani” e soprattutto permettendo a tutti di poter accedere a queste tecnologie, citando a tal proposito un mio secondo progetto, l’Open BioMedical Initiative.
Parlando di estensione della vita non possiamo non parlare di invecchiamento, di cui ne darò una definizione più precisa più avanti. Per il momento mi piacerebbe che vi allontanaste dal considerare questo processo qualcosa che debba avvenire per forza e lo iniziaste a vedere come un qualcosa di non scontato e che si può modificare, prendere quindi l’invecchiamento come una malattia che come tale ha delle cause, un decorso o sviluppo, delle conseguenze (nel nostro caso la morte), ma che come tale si può curare, ed in maniera piuttosto superficiale lo abbiamo sempre fatto.
Nella fig. 1 il verde più scuro indica un’età media maggiore e quest’immagine ci mostra che nei paesi industrializzati l’età media è di 84 per le donne e 80 per gli uomini, mentre a livello mondiale, per la prima volta nella storia, è superiore ai 50: grazie alle migliori condizioni igieniche, alla sanità, ai farmaci, agli interventi chirurgici aumentiamo la nostra vita media di tre mesi ogni anno. Ad oggi la percentuale di chi ha 20, 50, 80 anni di viverne 100 è rispettivamente, in media, del 23%, 14,2% e 7,7%. In realtà sarebbe il caso di portare questo numero a 120 in quanto questo è il limite comunemente ritenuto valido per un’estensione “naturale” della vita. Anche in questo caso però ci sono le eccezioni, esempi illustri tra tutti Jeanne Calment (francese) che ha vissuto fino a 122 anni ed è recente la scomparsa della palestinese Maryam, 124 anni.
Tuttavia l’uomo ha sempre cercato di modificare la biologia prendendo spunto da essa: una medusa, la Turritopsis Nutricula, chiamata anche “la medusa immortale”, quando incontra un pericolo o entra nella fase della vecchiaia, tramite transdifferenziazione fa tornare le sue cellule adulte a staminali totipotenti divenendo a tutti gli effetti com’era all’inizio, cioè un polipo, e può farlo un numero teoricamente illimitato di volte. Gli scienziati quindi stanno percorrendo diverse vie che puntano a un’estensione radicale della vita, anche di diversi secoli, attraverso farmaci antinvecchiamento (antiinfiammatori/di restrizione calorica), analisi e modifica genetica delle cellule. In particolare cito due progetti molto famosi e nati nel 2014: lo Human Longevity Inc. del famoso Craig Venter, ideatore della prima forma di vita sintetica sintetizzando artificialmente il genoma di un batterio, che ha lo scopo di sequenziare 40.000 genomi umani allo scopo di elaborare terapie anti-invecchiamento basate su interventi genici e cellule staminali; e Calico di Google. A questi approcci più “tradizionali” vanno integrati quelli più di frontiera, dalla sostituzione degli organi alla nanomedicina fino al mind-uploading, ossia il trasferimento del contenuto informazionale di un cervello su un substrato artificiale: in termini semplici, la mente in un computer.
Discorso a parte merita il SENS. Infatti, tra queste strade quella che sta avendo ottimi risultati, soprattutto sui topi con cui condividiamo gran parte del nostro patrimonio genetico, è proprio quest’iniziativa, avviata dal famoso biogerontologo Aubrey de Grey, autore del libro Ending Aging, di cui tra poco uscirà una traduzione anche in Italia. Prima di parlarne è necessario che vi ponga però una domanda, per essere sicuro abbiate capito che dobbiamo fare qualcosa per combattere l’invecchiamento. Non posso vedervi, ma conto che lo farete lo stesso mentre state leggendo questo articolo. Alzate le mani se siete favorevoli alla tubercolosi. Ok, questa era facile, lo ammetto. Ci provo di nuovo: alzate le mani se dovete pensarci due volte se considerare la tubercolosi un male. Immagino che veramente poche persone abbiano una mano alzata tra voi lettori (spero nessuno), quindi tutti pensiamo che la tubercolosi sia qualcosa di negativo. Questa è proprio una buona notizia, perché è esattamente quello che mi aspettavo. La questione è che la principale ragione per cui pensiamo che la tubercolosi sia qualcosa di negativo è per quella caratteristica che questa malattia ha in comune con l’invecchiamento, cioè che uccide esseri viventi, con la differenza che l’invecchiamento ne uccide molti di più.
Ma quindi, per riprendere la domanda di cui sopra, cos’è l’invecchiamento? Un effetto collaterale dell’essere vivi, innanzitutto, vale a dire del metabolismo, e non importa quali sono i processi metabolici che causano il deterioramento proprio dell’invecchiamento, ma il deterioramento stesso. Un quarantenne ha davanti a sé meno anni senza malattie o disturbi di quanti ne abbia un ventenne, a causa delle differenze nella loro composizione molecolare e cellulare, non a causa dei meccanismi che hanno dato luogo a tali differenze. Quindi il metabolismo, definito come qualcosa che ci tiene in vita, ha degli effetti collaterali e questi effetti, se accumulati, possono causare patologie.
Come si interviene ad oggi su questa reazione a catena? Ci sono due approcci: quello geriatrico, che interviene a valle quando la patologia è ormai evidente, cercando di impedire che l’accumulo di effetti collaterali possa sfociare in patologia, ma che soffre del problema dovuto al fatto che questi danni aumentano mano a mano che passa il tempo; quello gerontologico, che sembra più promettente, perché prevenire è meglio che curare, ma che è limitato dal fatto che, sfortunatamente, non capiamo ancora bene il metabolismo. Quindi? C’è un terzo approccio, quello ingegneristico, che non interviene su alcun processo, quindi non sta perdendo una battaglia a priori e dice semplicemente: ripariamo quotidianamente tutti questi tipi diversi di danni, non tutti per forza, ma in gran parte, così da mantenere il livello di danno sotto la soglia che lo rende patogenico. Sappiamo che questa soglia esiste perché non abbiamo malattie legate all’età fino a quando non raggiungiamo una certa età. Tale approccio ingegneristico punta a sette fattori, chiamati “i sette volti dell’invecchiamento” e che dal 1982 non sono stati modificati, quindi possiamo presumere siano effettivamente quelli giusti: rifiuti intracellulari ed extracellulari, cellule dannose e impoverimento cellulare, mutazioni del nucleo e dei mitocondri, legami reciproci extracellulari tra proteine.
Le terapie per questi fattori non saranno però risolutive, non ci sarà la scoperta da un giorno all’altro che permetterà di vivere secoli, piuttosto ci saranno tanti piccoli passi di riparazione (un po’ come quando si ripara l’auto di volta in volta), che daranno degli anni in più, che permetteranno a loro volta di godere di terapie più efficaci che doneranno altri anni in più e così via, questo perché nuovi aspetti dell’invecchiamento verranno scoperti e perché più passa il tempo e più i problemi da risolvere saranno più complessi. Questa idea è stata chiamata “velocità di fuga della longevità” e la si capisce meglio facendo l’analogia con la velocità di fuga letterale, cioè il superamento della gravità. Supponiamo di trovarci in cima ad un dirupo e di tuffarci. Le nostre aspettative di vita sono piuttosto brevi e si accorciano man mano che precipitiamo verso le rocce sottostanti. Questa è esattamente la situazione che incontriamo con l’invecchiamento: più invecchiamo, più le nostre aspettative di vita si accorciano. Con l’arrivo di periodiche terapie di ringiovanimento, però, la situazione cambia. A quel punto sarebbe come buttarsi da un dirupo con un jet pack. All’inizio il jet pack è spento, ma accendendolo in caduta libera riceviamo un impulso che rallenta la nostra discesa. Poi, premendo sull’acceleratore, rallentiamo ulteriormente per poi cominciare persino a risalire. E più in alto saliamo, più facile è salire.
C’è un limite a queste terapie di estensione delle vita? Alcuni matematici, inserendosi nella migliore situazione possibile, hanno fatto dei calcoli e hanno stabilito che a causa degli incidenti, di nuove malattie e di imprevisti sociali, la vita media di un essere umano non potrebbe mai essere illimitata ma al massimo di 1200 anni!
Fino ad adesso abbiamo parlato di estendere la vita, di rallentare il tempo. Ma se volessimo stopparlo? Se volessimo permettere a chi non potrà accedere a determinate tecnologie di estensione della vita o comunque a chi sarà colpito da malattie sempre nuove di avere un’altra possibilità? Un giorno probabilmente sarà possibile mediante la crionica, o ibernazione umana. Un progetto che ho avviato qualche anno fa, il LIFEXT Cryonics Group, che è un gruppo di studio online, si occupa proprio di analizzare questo ramo scientifico. La crionica è l’abbassamento della temperatura (-196 gradi centigradi) per permettere che un individuo non invecchi, in attesa che tecnologie future, ma oggi in uno stato embrionale, possano correggere la causa di morte (vecchiaia compresa). L’abbassamento della temperatura agisce rallentando le interazioni molecolari che accadono ogni secondo della nostra vita (e morte) in modo tale che, per invecchiare quanto invecchiamo ora a 37 gradi, a -200 gradi impiegheremmo circa 22mila anni. Nell’immagine a
destra potete vedere un dewar dove si possono trovare i pazienti criopreservati, ma la ricerca crionica oggi ha enormi effetti anche in altri campi che vediamo quotidianamente e che salvano vite. Si passa quindi dalla conservazione del cibo al trapianto degli organi, dalla conservazione di embrioni da cui sin da oggi nascono persone perfettamente sane ai criointerventi, realtà molto recente che permette di operare in situazioni veramente estreme, dove si ha necessità di più tempo e di un margine di errore maggiore. Questo concetto fisico della crionica lo applichiamo quindi con grandi risultati tutti i giorni, ma si tratta di estremizzarlo.
Finora abbiamo parlato di quella che è un’estensione quantitativa della vita, ma pari importanza ha la sua estensione qualitativa. In un sondaggio in cui è stato chiesto se verrebbe presa una pillola che garantisca di vivere fino a cent’anni, ma senza garanzie circa le condizioni fisiche o mediche, il 72% di quelli che hanno risposto ha detto “No”. Perché quindi dubitiamo che l’estensione della vita sia una cosa positiva? Perché non è solo questione di vivere più a lungo naturalmente, ma è questione di vita sana; diventare fragili e depressi e dipendere da qualcuno non è divertente, perché estendere in maniera importante la nostra vita aumenta di gran lunga la possibilità di sviluppare tutte quelle patologie legate alla vecchiaia quali demenza senile, malattie neurodegenerative, problemi cardiovascolari e così via. La vera sfida allora è quella di riuscire a portare la giovinezza nella vecchiaia, permettendo agli anziani di fare tutto ciò che avrebbero fatto da giovani anche ad un’età avanzata. È proprio su questo concetto che si basa l’idea di estensione qualitativa della vita, cioè l’utilizzo di tutte quelle metodologie e terapie tese a migliorare i vari aspetti della vita, in particolar modo gli ultimi decenni, ma anche con una prevenzione negli anni giovani tramite stili di vita, psicoterapia longevista ecc. che vadano poi a migliorare tutto l’arco della vita.
Ma bisogna permettere a tutti di godere di queste tecnologie. Cito in conclusione, a tale riguardo, un mio secondo progetto, avviato qualche mese fa, di cui in fig. 4 potete vedere un prodotto. Sto parlando dell’Open BioMedical Initiative, un progetto con cui cerchiamo di democratizzare la Biomedica, sviluppando tecnologie biomedicali in un modo completamente nuovo ed avvalendoci di tecnologie innovative. In primo luogo siamo un grande laboratorio virtuale formato da persone provenienti da molti paesi del mondo; inoltre sviluppiamo questi dispositivi a basso costo avendo come target tutti coloro (nei paesi industrializzati e non) che non possono accedere a dispositivi biomedicali e usiamo stampanti 3D in modo da poter arrivare dove chiunque altro non può arrivare, perché basta avere a casa o in un ospedale umanitario una macchina di questo tipo (da un costo inferiore ai 1000 dollari), andare sul nostro sito, scaricare i file e stampare ad esempio una protesi, così come in ufficio stamperemmo un testo su di un foglio di carta. Ma la parte più bella è che davvero chiunque può partecipare, indipendentemente dal background culturale, professionale e dal tempo a disposizione: l’unico ingrediente necessario è solo tanta voglia di aiutare il prossimo.