La politica della Post-verità, termine votato dall’Oxford Dictionaries come parola dell’anno per il 2016, si sta facendo prepotentemente largo come una delle chiavi concettuali principali per comprendere l’evoluzione di molti sistemi politici liberal-democratici nel corso degli ultimi anni, e più in generale per comprendere l’evoluzione degli stati e delle loro istituzioni. I politici, i tecnici e gli esperti vengono quotidianamente messi alla berlina da orde di internauti che, sulla base di conoscenze quantomeno discutibili, offrono giudizi spesso errati ma che, reiterati, formano e danno forza a movimenti di opinione che criticano l’expertise delle élite. Le teorie cospirazioniste, sempre esistite, trovano nuovi canali per propagarsi con facilità. La radicalizzazione della gioventù delle periferie europee corre veloce sulle reti del web, dove predicatori radicali islamisti trovano facili prede per l’indottrinamento, o dove gli eroi criminali del cinema o della realtà trovano cittadinanza in forma di meme che normalizzano la loro immagine.
Questi fenomeni sono, più in generale, legati alla nascita dei cosiddetti “media ibridi”, il cui ruolo sta avendo un impatto significativo anche sulle attuali realtà politiche e sociali. Essi hanno eliminato la mediazione che prima esisteva tra governanti e governati, rendendo i secondi sempre più capaci di influenzare scelte e decisioni dei primi. In questo ambiente, i fatti oggettivi, le conoscenze consolidate e le capacità obiettive stanno diventando sempre meno decisive nell’influenzare l’opinione pubblica, che invece si forma sempre di più sulla base di emozioni, credenze personali, e convinzioni, in una sorta di Polis del Pathos 2.0 di platoniana memoria. Stati, gruppi sociali e politici, organizzazioni di vario tipo, cercano quindi di sfruttare questo nuovo ambiente per promuovere i loro interessi e le loro priorità, e la miscela esplosiva di post-verità, stagnazione economica, media ibridi e globalizzazione della rabbia ha il potenziale, da un lato, per creare una serie di nuove crisi contro le quali gli Stati contemporanei hanno pochi mezzi e, dall’altro, hanno il potenziale per compromettere la capacità delle istituzioni statuali di gestire le crisi. L’idea di questo saggio è di focalizzarsi su quest’ultimo aspetto, cercando di capire come la post-verità possa provocare una crisi nella gestione delle crisi negli stati contemporanei.
L’era della Post-Verità
Nel 2016, l’Oxford Dictionaries ha ‘premiato’ la Post-Verità (Post-Truth) come parola dell’anno per il 2016. Nel mondo anglosassone, già da qualche anno si sta studiando questo fenomeno, mentre in Italia i primi lavori organici su questo argomenti siano arrivati da poco (Cosentino, 2017; Quattrociocchi e Vicini, 2017) anche se qualcuno aveva individuato il trend già da qualche anno (Rositi, 2010). Stando alla definizione tecnica fornita dall’autorevolissima fonte, la post-verità è un aggettivo – ma che viene anche utilizzato sempre di più anche come sostantivo – che «si riferisce, o che denota, circostanze nelle quali i fatti oggettivi sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica rispetto al richiamo all’emozione e alle credenze personali».
Sebbene in auge già da circa un decennio, i responsabili dell’Oxford Dictionaries hanno scelto questa parola visto il rapido susseguirsi di eventi politici in cui il ruolo giocato da narrative intimamente connesse alla post-verità è stato determinante: il referendum britannico per l’uscita dall’Unione Europea, ma soprattutto la vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali americane del novembre 2016. Inoltre, sempre secondo l’Oxford Dictionaries, la post-verità si è trasformata da termine tendenzialmente marginale in un concetto chiave per molte analisi politiche e sociali, e in molti casi utilizzata senza necessità di chiarificazione o definizione ulteriore nei titoli di quasi tutti i principali media mondiali.
Nel corso di quest’ultimo decennio, la post-verità ha anche modificato progressivamente il proprio ambito di senso. Steve Tesich fu il primo ad utilizzarla, nel 1992, in un articolo sul The Nation (Tesich, 1992), partendo dallo scandalo del Watergate, l’ultima volta in cui la verità oggettiva è servita per smascherare i giochi dei potenti; questo fu il momento in cui, per Tesich, la società americana iniziò a «stare lontana dalla verità» decidendo volontariamente di «voler vivere nel mondo della post-verità». In questo senso, lo scandalo Iran-Contras e la guerra del Golfo del 1991 rappresentavano, per Tesich, l’emblema di questa deriva. Sebbene, in tale sede, Tesich si riferisse alla post-verità come alla fase «successiva al momento in cui la verità è stata conosciuta», in un certo senso egli colse una serie di fremiti sociali che negli anni successivi sarebbero diventati ben più diffusi. Da questo punto di vista, se Tesich avesse scritto questo articolo nel biennio successivo agli attacchi dell’11 settembre, avrebbe probabilmente aggiunto alla lista il tentativo – alquanto maldestro – dell’amministrazione americana di giustificare dal punto di vista del diritto internazionale tale intervento utilizzando una serie di ‘prove’ che già allora destarono dubbi, e che negli anni sono state derubricate a “bugie” tout court (Krugman, 2015).
In maniera più organica e organizzata, il primo lavoro in cui questo termine è apparso è un libro del 2003 scritto da Ralph Keyes dal titolo The Post-Truth Era: Dishonesty and Deception in Contemporary Life (traducibile come “La post-verità: disonestà e inganno nell’era contemporanea”). In questo libro, Keyes parlava più che altro di disonestà tout court. Richiamando la quantità di sinonimi ed eufemismi utilizzati per descrivere la disonestà, questi rispondono alla necessità, secondo l’autore, di creare una sorta di scudo difensivo per gli uomini sulle implicazioni della disonestà. In questa epoca, quindi, l’umanità non dispone solo di verità e bugie – concetti con contorni chiari, cristallini, e ben definiti, ontologicamente separati da una chiara demarcazione – ma si assiste all’emersione di una terza categoria, quella delle verità relative: parole ed espressioni intrinsecamente ambigue, che non sono verità inoppugnabili ma al tempo stesso non sono neanche bugie. Keyes nel suo libro esplora diverse, possibili espressioni per definire questa evoluzione e dare un nome a questa dinamica: Enhanced truth, Neo-truth, Soft truth, Faux truth, Truth lite (Keyes, 2004). L’oggetto dell’analisi di Keyes è la società americana, descritta come una società in cui le persone raccontano sempre di più bugie su base quotidiana. Mentre questa è una caratterista che difficilmente può essere considerata esclusiva della società americana, al tempo stesso è interessante notare che una società descritta, all’alba degli anni Duemila, come una società progressivamente abituata a dire verità relative se non bugie tout court, abbia eletto un decennio dopo un presidente che su verità relative ha costruito – e vinto – una doppia campagna elettorale impostata da un (sebbene ricchissimo) political underdog, prima nelle primarie repubblicane sfidando l’establishment del partito e dopo sfidando la candidata dell’establishment “per definizione”, e sulla quale si era riversato anche l’establishment repubblicano, quella Hillary Clinton che – nelle narrative dell’alt-right americana – ben rappresentava, da un lato, l’ennesimo appartenente a una delle dinastie politiche americane simbolo di immobilismo, nepotismo e (nel caso specifico) “oppressione fiscale” delle sinistre mentre, dall’altro, rappresentava anche il simbolo della deriva globalista ed elitista della politica americana.
In tal senso, la post-verità va quindi intesa non come fase successiva della verità. Come notato sempre dall’Oxford Dictionaries, questa espressione non si limita semplicemente a fornire una connotazione di tempo, intendendo con post-verità il ‘dopo-verità’. In questo contesto, il post indica «l’appartenenza a un tempo in cui il concetto specificato è divenuto o non importante o irrilevante», in questo tratteggiando in questo senso una similitudine con i concetti di post-nazionale o post-razziale.
Infatti, da questo punto di vista, la post-verità denota più prosaicamente un’atmosfera in cui la verità oggettiva è irrilevante nella formazione delle opinioni di individui e gruppi sociali. In tal senso, prevalgono invece le credenze dettate dalle emozioni. Come fatto notare da Adriana Cavarero sul Corriere della Sera, una tale dicotomia non è per nulla nuova, ma era già stata concettualizzata da Platone nella sua critica alla democrazia nella Repubblica, in cui Platone contrapponeva la polis ideale, costruita sulle verità, alla polis del “grosso animale” delle moltitudini, la cui polis è basata sul pathos, sulle emozioni, e quindi facilmente modellabile da quelli che quelle emozioni sapevano cavalcarle, come ad esempio i sofisti (Cavarero, 2017; Fattori, 2017).
Media ibridi e la globalizzazione della rabbia
In effetti, i moderni demagoghi populisti sono i sofisti attaccati da Platone, ma dotati di smartphone, tablet e capacità di interpretare la pancia delle persone. Sebbene le radici della post-verità, come appena visto, siano ben più antiche e, probabilmente, intimamente connaturate alla natura dell’uomo come animale sociale e politico, al tempo stesso il contesto attuale è profondamente – e chiaramente – diverso da quello su cui rifletteva Platone. Esistono quindi una serie di fattori che attualmente agiscono come elementi di amplificazione che modificano, da un lato, la qualità intrinseca di queste narrative basate sulla post-verità e, dall’altra, sull’impatto che queste narrative hanno su gruppi sociali e corpi politici. In tal senso, il richiamo alle emozioni spesso più viscerali e non mediate; le strategie comunicative di una pluralità di attori – politici, siti web, giornali, semplici utenti di sociali media particolarmente attivi sul web – volontariamente orientate allo stuzzicare le pulsioni meno amene del popolo, in particolare di coloro che, a torto o a ragione, si sentono emarginati negli attuali ordini politici o percepiscono gli attuali trend globali come una minaccia al loro status economico e sociale; l’allergia ai fatti; l’incapacità nel distinguere il relativamente vero dall’oggettivamente falso; e la mancanza di una cultura – e di una capacità – di fact-checking; sono tutti fattori moltiplicanti che aumentano la potenza di fuoco di tali narrative.
Come spiegato da Jane Suiter, queste narrative incentrate sulla post-verità creano una combinazione tossica quando si mischiano agli effetti delle politiche di austerità, della guerra o, più in generale, di situazioni varie di instabilità politica che hanno anche dei lasciti psicologico-sociali, nonché della globalizzazione. Queste dinamiche si saldano poi alla trasformazione qualitativa dei media, creando una miscela letale che corrode nelle sue fondamenta le strutture portanti delle democrazie liberali e, più in generale, degli Stati (Suiter, 2016).
In tal senso, l’emersione di quelli che sono stati definiti “media ibridi” ha ridefinito lo spazio di significato in cui si muove la comunicazione politica. L’ossessione dei politici e dei leader per il rapporto diretto con le masse è da sempre una cifra fondamentale, indipendentemente dal tipo di regime politico esistente in un determinato paese. In passato, però, le possibilità tecniche per fare a meno della mediazione dei media e dei giornalisti era limitata. Con la stampa cartacea, tutto ciò era difficile se non impossibile e gli operatori dell’informazione svolgevano un ruolo fondamentale di mediazione tra i leader, l’autorità politica e il pubblico. Con la radio, il quadro iniziò a cambiare, sebbene questa mediazione rimase presente. La radio divenne presto uno strumento fondamentale dei leader che volevano creare un rapporto diretto con il popolo. Si pensi, ad esempio, all’utilizzo da parte di Nasser della radio come strumento per raggiungere il popolo e la creazione di Sawt al-Arab (la Voce degli Arabi), come leva per la mobilitazione delle masse non solo egiziane, ma arabe in generale, vista l’ambizione del leader egiziano di unire le masse arabe in un’unica nazione araba. (Hammond, 2005). L’arrivo, e la generalizzazione, della televisione, darà ulteriore impulso a questa ricerca del contatto diretto dei leader con le masse, ma anche in questa caso la mediazione restava presente, sebbene la televisione abbia rappresentato uno strumento fondamentale nella personalizzazione politica, lo strumento adatto per sostituire le oramai arrugginite strutture della mediazione partitica tra leader e cittadini (Calise, 2011). In Europa Occidentale, la fine dei partiti di massa ha portato allo sviluppo di partiti fortemente centrati sul leader fotogenico, televisivamente attraente e capace di parlare alla gente, come ad esempio Silvio Berlusconi in Italia e Tony Blair nel Regno Unito. Un’ulteriore dimensione di questa dinamica fu data dalla crescente centralità dei sondaggi e degli strumenti per testare l’opinione pubblica. Da questo punto di vista, i leader volevano utilizzare la televisione per creare questo rapporto diretto, e i sondaggi per capire gli umori e regolarsi di conseguenza nella retorica e nella scelta degli argomenti centrali delle proprie narrative.
Questa evoluzione, nonostante la differenza sostanziale e concettuale delle diverse tecnologie al servizio della comunicazione politica, ha avuto un denominatore comune: il rapporto tra il mondo politico e istituzionale – in questo caso rappresentato dal leader – e il popolo era sempre, anche se in misura progressivamente minore, mediato, e soprattutto era tendenzialmente monodirezionale: i leader interagivano con il popolo, eventualmente attraverso l’uso sempre più massiccio di sondaggi cercavano di capire cosa il popolo volesse e quali fossero le sue priorità, ma il popolo aveva occasioni tendenzialmente limitate per interagire direttamente con il leader e per fargli sentire il fiato sul collo, se non con imponenti manifestazioni di piazza o sotto elezioni, nei paesi a democrazia liberale, o con rapidi sollevamenti di piazza nei paesi autoritari. Nello specifico, nei paesi a democrazia relativamente matura ed elezioni competitive, regolari e costanti, il mandato elettorale e il lasso temporale che divideva un’elezione dell’altra offriva la possibilità teorica, per un governo, di essere relativamente indipendente dall’umore del popolo, caratteristica precipua e vitale di ogni democrazia liberale.
Questa indipendenza, oggi, si è assottigliata prepotentemente, data la natura dei nuovi media ibridi. Nella definizione di Andrew Chadwick, il nuovo modello di media ibridi, largamente basato sul Web 2.0 che include i social media, blog, reality show e via discorrendo, ha spezzato la catena della dipendenza tra politici e operatori dell’informazione (Chadwick, 2013). I politici possono ora bypassare e comunicare direttamente con l’elettorato, e la politica si definisce sempre di più attraverso l’utilizzo congiunto di media vecchi e nuovi che dettano l’agenda e formano le narrative dominanti. Inoltre, tutto questa informazione è più immediate e fruibile, ma non per questo più intelligibile. Anzi, da questo punto di vista, è vero esattamente l’opposto: se la storia dell’umanità si è dispiegata in ambienti sempre avari a livello informativo, l’umanità ora si confronta con un problema diametralmente opposto: la rete fornisce una cascata di informazioni difficilmente gestibile senza strumenti intellettuali ed euristici di una certa sostanza. Il problema, però, è che non tutti hanno questi strumenti, e nella maggior parte dei casi – visto che i novelli Leonardo da Vinci o Pico della Mirandola sono pochi – chi ha strumenti cognitivi per comprendere pienamente le implicazioni di determinanti sviluppi in certi settori non ne ha in altri. Da questo punto di vista, la capacità di elaborare l’informazione non riesce a stare al passo con il flusso di informazione che arriva dinanzi ai nostri occhi quotidianamente. Mentre nelle persone colte e consapevoli di questo fenomeno, questo flusso non crea problemi di vario genere essendo loro stesse consce dei propri limiti cognitivi, in altri ambiti, invece, questo flusso di informazioni gestito da persone che non hanno gli strumenti cognitivi per comprendere le implicazioni di molte di queste informazioni e che, soprattutto, non comprendono la complessità e i loro limiti cognitivi, favorisce l’emersione di narrative e teorie che possono provocare danni anche significativi. Basti pensare alla virulenta campagna anti-vaccini che ha preso piede in Italia negli ultimi anni: gruppi di persone prendono informazioni su basi molto selettive sul web, senza controllarle o accettando solo le conclusioni parziali che confermano le loro idee, e le utilizzano, trasformandole da opinioni parziali e pilastri delle loro verità.
Inoltre, questo accesso diretto, immediato e aperto all’informazione ha provocato il progressivo e costante declino della fiducia del popolo nei media tradizionali e nei governanti, con i primi percepiti come la voce acritica e asservita dei secondi. Inversamente proporzionale rispetto a questo declino è lo scetticismo che molti nutrono rispetto a ciò che viene loro detto dalle istituzioni, che non sono più percepite come agenti di garanzia per la sicurezza, declinata in vari ambiti, del cittadino, ma vengono sempre di più percepite come macchine succhiasoldi o smistatori di privilegi al servizio dei politici di turno, che le utilizzano per il proprio tornaconto. Che ciò sia vero o no, non importa in questa sede; ciò che conta è il tipo di percezione pubblica e comune che i governati hanno dei governanti.
Da questo punto di vista, si crea così un cortocircuito: l’informazione immediata permette alle persone di conoscere, spesso in tempo reale, le decisioni prese dai governanti, decisioni che spesso hanno un impatto significativo sulle loro vite senza che essi siano parte del processo decisionale. Storicamente, i governati hanno sempre subito le decisioni dei governanti, ma prima erano agenti tendenzialmente passivi, fino a quando una serie di circostanze non portavano a rivoluzioni o cambiamenti violenti, dopo i quali però si tornava a una situazione di passività e consapevolezza molto relativa. La tecnologia non ha solo modificato le relazioni mediatiche tra governanti e governati, ma anche modificato profondamente le strutture economiche, aumentando la forbice della disuguaglianza economica e sociale nel mondo delle democrazie mature. Paradossalmente, però, queste dinamiche hanno provocato un livellamento globale verso il basso della classe media: come notato da Branko Milanovic (2016), la classe media nei principali paesi in via di sviluppo come la Cina e l’India si sta avvicinando sempre di più ai livelli di reddito e di capacità di spesa della classe media delle economie capitaliste mature, il cui reddito e capacità di spesa è in declino costante e marcato. Questi ingredienti, mescolati insieme, creano un ambiente perfetto per l’emersione di movimenti sociali e politici più o meno radicali che mettono in questione, in maniera più o meno aperta, le fondamenta istituzionali e politiche di molti paesi. In quella che Pankaj Mishra ha definito “la globalizzazione della rabbia”, un moto di reazione comune a molti paesi nel globo contro élite globali-egoistico-cosmopolite, considerate slegate rispetto ai sentimenti profondi dei territori da cui esse provengono, in cui gruppi caratterizzati da narrative violente, xenofobe, segreganti hanno lentamente occupato il centro della scena, in particolare nell’era dei media ibridi (Mishra, 2016). Sebbene questi movimenti si trovino spesso a doversi confrontare con il paradosso che Luhmann già aveva individuato negli anni Novanta, e cioè che i movimenti di protesta contro il potere politico, una volta al potere, perdono la loro carica e diventano a loro volta bersaglio di nuovi movimenti che criticano la loro accettazione di sistema (Luhmann, 1996), la loro capacità erosiva delle istituzioni è cumulativa, e quindi indipendente dal movimento in sé per sé. In questa dinamica, essi continuano a rigenerarsi, spesso in forme nuove o con partecipanti più giovani. Questa dinamica, ripetuta negli anni, può portare a una decisa erosione della legittimità degli organi istituzionali degli stati, erosione che in realtà già è in atto da alcuni anni ma che potrebbe avere effetti molto più dirompenti negli anni a venire.
Erosioni statuali e la crisi prossima ventura nella gestione delle crisi
Nelle democrazie liberali, questa miscela esplosiva ha creato le condizioni per l’emersione prepotente di gruppi populisti, nazionalisti, e in molti casi apertamente, e ferocemente, xenofobi e segregazionisti. Questa corrosione va a sovrapporsi, inoltre, a dinamiche di ben più ampio respiro, che negli ultimi decenni hanno ridotto la capacità degli Stati di essere effettivi come in passato. In tal senso, la capacità statuale di ottenere output dando determinati input si è ridotta, visto che in molti casi le variabili delle equazioni politiche in molti settori di azione statuali sono aumentante a dismisura, riducendo così la capacità relativa statuale di determinare il risultato finale di questa equazione e di tradurre in azione concreta la propria volontà. In tal senso, gli ambiti economico e finanziario forniscono una miriade di esempi di questa progressiva incapacità statuale di essere efficace, ma in realtà questo ambito si va allargando sempre di più. In questa analisi, l’intreccio perverso tra erosione statuale e realtà della post-verità sta creando le basi per la crisi prossima ventura delle capacità degli stati di gestire le crisi.
Come detto in precedenza, la post-verità non è per forza di cose un concetto ‘nuovo’, ma certamente nuovo, o quanto meno inesplorato, è il suo attuale impatto sulle realtà sociali, politiche ed economiche, impatto amplificato dal turbinio dei social media e della produzione costante di informazione proveniente dalle fonti più disparate i cui gradienti di veridicità sono quantomeno variabili, e in molti casi veementemente discutibili. Questa nuova realtà informativa si declina in un mondo in cui gli Stati classici hanno perso, e continuano a perdere – gradualmente – le proprie prerogative e soprattutto la capacità di impattare.
L’erosione dello Stato è un concetto emerso con prepotenza alla fine degli anni Novanta (Strange, 1997), in piena ubriacatura transitologica e globalista; ma se allora era declinato in particolare sulle conseguenze che la globalizzazione aveva sull’autonomia e la sovranità degli stati vestfaliani, questo concetto ora va discusso in una cornice più ampia di capacità di prendere decisioni e ottenere i risultati voluti.
Questa erosione non comporta la creazione di nuovi ‘stati falliti’ – la cui definizione dottrinale normalmente riguarda uno corpo politico che si è disintegrato in modo tale da essere incapace di funzionare o prendere responsabilità decisionali – ma implica semplicemente la crescente difficoltà di trasformare le decisioni prese in risultati concreti e visibili. Chiaramente, la dinamica di erosione delle capacità statuali non è per forza di cose lineare. Ad esempio, la Russia post-Unione Sovietica ereditava le capacità di uno stato altamente efficace nell’implementare decisioni, ma nel giro di pochi anni questa capacità collassò a un livello tale che l’ossessione putiniana per la ricostruzione della verticale di potere in Russia nell’era post-Yeltsin ha rappresentato la cifra principale dei primi dieci anni al potere dell’attuale presidente russo e che, nonostante problemi di sorta, è riuscito a riconsolidare (Monaghan, 2012). Negli stati a democrazie liberali mature, questa erosione di capacità sembra essere invece più costante, e all’orizzonte non si intravedono agenti capaci di fermare tale declino, sebbene in molti paesi – anche europei – molti politici continuino a giocare la carta di riforme costituzionali accentranti per migliorare la performance istituzionale degli stati.
Le fine della mediazione comunicativa tra governanti e governati, la rafforzata bi-direzionalità del flusso informativo, e l’emersione – o per meglio dire l’amplificazione e la polarizzazione – della post-verità favorita dalla rivoluzione tecnologica e dell’informazione sono tutti elementi che cambieranno, e non poco, le capacità e il modo in cui le autorità gestiranno il potere e la res publica, e in questo senso il tipo di regime politico non sarà decisivo, visto che anche paesi non-democratici o a democrazia limitata, se non hanno un controllo ossessivo e permanente sulle fonti di informazioni, tipo la Nord Corea, possono doversi piegare alle dinamiche innescate dall’interazione sociale promossa dai social media o dalla cascata di flussi di informazione che possono mettere a repentaglio il controllo che essi esercitano sulla popolazione. In tal senso, le cosiddette primavere arabe rappresentano un buon esempio di queste dinamiche (Howard e Hussain, 2013), sebbene questo caso non deve per forza rappresentare la normalità, perché’ in altre situazioni – tipo in Bielorussia alla fine degli anni Duemila– la presenza diffusa di social media e il loro utilizzo nel fomentare moti sociali e rivolte non ha provocato la caduta del governo di Minsk.
Da questo punto di vista, se riduciamo il campo d’analisi al settore delle crisi, questo intreccio tra media ibridi, post-verità e bollori socio-politici può avere un impatto significativo non solo sui corpi sociali e politici, creando crisi ex novo la cui magnitudo è amplificata dalla presenza di questi elementi – si pensi, ad esempio, di nuovo, alle emergenze sanitarie legate al ritorno di malattie scomparse da anni – ma può anche avere una serie di conseguenze sulla capacità degli attori statuali di gestire le crisi. La connessione tra post-verità e capacità statuali-governative nel gestire le crisi è un ambito ancora poco studiato ma che – crediamo – diventerà un settore di fondamentale importanza nelle scienze sociali nei prossimi anni.
Il concetto di crisi, sebbene cosi presente nel vocabolario comune dei media e delle persone comuni resta, nonostante tutto – e come molti concetti delle scienze sociali – un concetto i cui contorni analitici, e la consequenziale capacità euristica, restano poco definiti. Phillips e Rimkunas, alla fine degli anni Settanta, notavano già la tendenza quasi naturale all’overstreaching di tale concetto (Phillips e Rimkunas, 1978) – uno dei pericoli principali per qualsiasi concetto legato alle scienze sociali e politiche, come notato da Giovanni Sartori (Sartori, 1970) – e questa tendenza è rimasta particolarmente marcata nel corso degli anni. Ad ogni modo, riprendendo quello che è stato definito l’approccio procedurale, le crisi possono essere definite come interruzioni drammatiche della routine quotidiana di organizzazioni o società, che testano severamente la capacità di gestione dei decisori politici e minacciano i valori cardine su cui tali organizzazioni e società si basano. Nel corso dei decenni, inoltre, queste crisi sono da un lato aumentate in termini numerici, ma anche la loro natura intrinseca è mutata, visto che l’interdipendenza della società contemporanea, la crescita demografica mondiale che spinge gli uomini a vivere in luoghi dove il rischio ambientale è più elevato, e la centralità delle nuove tecnologie per la vita contemporanea fa sì che l’intensità e la magnitudo sociale e politica di tali crisi possa essere facilmente devastante.
Da questo punto di vista, la gestione delle crisi, l’onnipresente Crisis Management anglosassone, si riferisce alle decisioni prese e alle azioni messe in atto dai decisori per reagire a, e riprendersi da, una crisi. Nel gestire le crisi, il ruolo degli attori politici e istituzionali principali resta fondamentale: «In tempi di crisi, i cittadini guardano ai loro leader: presidenti, sindaci, politici locali, amministratori, manager pubblici e burocrati di alto rango». (Boin, ’t Hart, Stern, & Sundelius, 2005, p. 1) Da queste figure, i cittadini si aspettano la capacità di gestire la minaccia o quanto meno minimizzare il danno, spiegare cosa è andato storto ed essere credibile da persuadere il pubblico che ciò non accadrà più. Negli studi sulla gestione delle crisi, gli elementi normalmente sottolineati dalla letteratura sono tre: il senso di minaccia che la crisi rappresenta per i valori fondanti e le strutture materiali e immateriali di un corpo sociale; il senso di urgenza e compressione temporale che richiede una risposta definita in tempi estremamente brevi; e la profonda incertezza che accompagna l’evolversi della crisi, incertezza che aumenta la possibilità di percezioni errate o di scelta sbagliata. Da questo punto di vista, il mix di minaccia percepita, fretta e incertezza rappresenta una miscela esplosiva che può portare a un’ulteriore crisi causata dall’incapacità di gestire le minaccia per ciò che è veramente.
Rifacendoci alle otto fasi nella gestione delle crisi individuate da Bruce Dayton (2010) utilizzando l’approccio “cognitivo-istituzionale”, possiamo cercare di comprendere come la post-verità’, i media-ibridi e la progressiva erosione dell’efficacia istituzionale degli stati possano avere effetti sui principali passaggi nella gestione delle crisi. In particolare, la post-verità e i media ibridi possono ridurre la capacità delle autorità nell’Issue Framing (collocare i problemi), Information Management (gestione delle informazioni), Sequencing (sequenziamento, ossia scaglionare chiaramente le diverse fasi della gestione di una crisi minimizzare i costi e migliorare i risultati). Nel primo caso, i social media o determinati attori sociali e politici possono modificare le narrazioni concernenti una crisi, e forzare le autorità a seguire i loro input, soprattutto in quei casi in cui le istituzioni non sono propriamente impermeabili agli umori del popolo. Anche la gestione dell’informazione diventa più difficile, visto l’accavallarsi di informazioni continue e l’impossibilità – e in alcuni casi l’incapacità – di verificarne l’autenticità. Infine, il creare un piano specifico di punti da seguire in sequenza per la gestione della crisi può risentire delle ondate di informazioni che vengono dai social media o dalla pressione di determinati gruppi sociali che utilizzano i media ibridi per promuovere le loro idee in merito. Inoltre, i Decision Processes (processi decisionali) la Bureaucratic Conflict and Cooperation (i conflitti e la cooperazione burocratica) e le Lessons Learned (ciò che una crisi insegna) possono risentire non solo dei flussi di informazione incontrollati dei media ibridi, ma la progressiva erosione della legittimità percepita delle istituzioni può portare a catene gerarchiche nei processi decisionali – un elemento cardine di qualsiasi processo di gestione delle crisi – non più effettive e oleate come in passato; possono provocare la nascita di nuovi elementi di conflitto riducendo la cooperazione virtuosa – storicamente già difficile – all’interno delle burocrazie, e infine possono mettere successivamente in discussione le lezioni acquisite da una gestione delle crisi, vista la legittimità in declino delle istituzioni che ne hanno certificato l’utilità per gestire crisi future, o se attori socio-politici contrari a queste conclusioni riescono a lanciare campagne informative sui media ibridi per contestare questi insegnamenti.
In senso più ampio, inoltre, la post-verità può anche ridurre l’impatto che una gestione di successo di una crisi può avere sull’opinione pubblica. In termini puramente teorici, a livello di dottrina, la capacità di gestire crisi serve a rafforzare la fiducia del pubblico nelle istituzioni e nella leadership. Nel mondo della post-verità, però, anche successi oggettivi possono trasformarsi in fallimenti relativi, e in molti casi ciò dipende dal tipo di narrative popolari che creano il senso percepito di tale gestione della crisi. Quindi, ad esempio, un attacco terroristico con poche vittime e danni limitati può diventare la prova del fallimento delle istituzioni nel prevenire situazioni di questo genere, perché il pubblico non riesce a ragionare razionalmente su ciò che è avvenuto, invece di focalizzare la narrativa su come azioni preventive e reazione immediata siano riusciti a limitare i danni. Questa percezione può essere anche sfruttata dai movimenti terroristici. Ad esempio, da questo punto di vista, i recenti attacchi e le immagini provenienti da Barcellona, Londra, Parigi, Bruxelles e il costante flusso di informazioni e di immagini legato a queste stragi crea un circolo vizioso. Ad esempio, come notato da Simon Jenkins sul Guardian, i recenti attacchi di London Bridge e di Barcellona dimostrano che le forze di polizia europea stanno imparando come gestire riducendo l’impatto gli attacchi dei lupi solitari con i famigerati white vans, ma al tempo stesso questi attacchi e la loro mediatizzazione, con annesse code di messaggi di utenti sparsi sulle varie piattaforme dei social media che li ‘analizzano’, questa “pubblicità’ grottesca” di cui parla Jenkins distorce la percezione sul rischio, spinge all’emulazione e riduce la capacità di essere liberi dalla paura (Jenkins, 2017). Il fatto in sé che gli utenti dei social media commentino su questi atti è una vittoria dei gruppi che li perpetrano, che hanno compreso bene questa capacità di creare senso dei media ibridi nei confronti di situazioni di crisi, estremizzandole più del dovuto semplicemente perché se ne parla e, in questo parlarmene, le analisi fredde e consapevoli si perdono nel mare di opinioni che la polis internettiana del pathos emette.
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