Nel 1795, Immanuel Kant dava alle stampe un’opera a più riprese elogiata, ma lasciata lettera morta: Per la pace perpetua. In quelle pagine, dense di speranza, il filosofo tedesco sottolineava come non solo la memoria del passato, ma anche l’attenzione al futuro è un elemento fondamentale per la costruzione di un regime di pace duraturo. La parola “futuro” compare già nell’incipit dello scritto, ovvero nel primo degli Articoli preliminari per una pace perpetua tra le nazioni: «Nessun trattato di pace deve esser considerato come tale se stipulato con tacita riserva di argomenti per una guerra futura» (Kant, 1883). Il termine torna nel sesto e ultimo articolo preliminare, ove si legge: «Nessuna Potenza in guerra deve permettersi atti di ostilità che rendano impossibile la fiducia reciproca nella pace futura» (Ivi, 27).
Se una pace perpetua è lontana da venire – se mai verrà – è proprio a causa della reservatio mentalis che accompagna la stesura dei trattati di pace, la quale, a sua volta, è la conseguenza di atti di ostilità talmente efferati che si possono difficilmente dimenticare. Perciò, il desiderio di pace, che pure non manca, tende inevitabilmente ad appoggiarsi su un principio ben diverso da quello auspicato da Kant: il vecchio principio romano si vis pace para bellum (Vegezio, 1815).
Che piaccia o meno, le grandi potenze continuano a prepararsi alla guerra (Mini, 2015). Lo fanno lasciando in un cassetto il Trattato di non proliferazione nucleare e arruolando nei propri eserciti robot e droni, in numero e qualità crescente (Campa, 2011). Lo fanno ancora nello spirito, se non nella lettera, dell’Epitoma Rei Militaris di Vegezio, del quale si ricorda spesso la prima parte della famosa frase – «E però chi desidera pace apparecchi battaglia» –, ma non la seconda: «e chi vuole avere vittoria combatta per arte, e non a ventura» (Vegezio, 1815). Arte: ars, per i Latini, téchne per i Greci. La tecnica è la chiave della vittoria. Non a caso, Vegezio dedica molte pagine dell’Epitoma al rafforzamento dei corpi e delle menti dei cavalieri, non solo con elmi e corazze, ma anche attraverso l’igiene, l’alimentazione, l’esercizio fisico e lo studio.
Il potenziamento umano è ancora oggi, e più di prima, al centro dell’attenzione dell’apparato militare-industriale. Le armi robotiche possono consentire di vincere una guerra, ma per vincere la pace è ancora necessario il controllo del territorio, ossia la presenza di combattenti in carne e ossa nelle aree conquistate. In altre parole, è sempre più diffusa la convinzione che l’evoluzione della macchina non sia sufficiente allo scopo. È necessaria l’evoluzione dello stesso combattente. L’ipotesi con la quale ci confrontiamo è, dunque, che la guerra del futuro non sarà combattuta da umani, ma da transumani: umani in transizione, modificati dalla tecnologia. Intendiamo esplorare questa eventualità, mostrando i progetti di potenziamento umano sui quali gli ingegneri stanno attualmente lavorando e il loro possibile impatto sulle guerre del futuro.