Oggi, nella discussione sui nuovi processi produttivi, il concetto di pubblico è diventato mainstream. Questo concetto è stato introdotto ai primi del Novecento dal sociologo Gabriel Tarde che lo definiva “un’associazione fra estranei di natura più o meno transitoria” (Tarde 1989). Questa attenzione è evidente nei nuovi bandi europei Horizon 2020 dove si ha una forte attenzione a tutte quelle metodologie di coinvolgimento e misurazione del pubblico.
Tale categoria ben si distingue dal concetto di comunità intesa come gruppo di individui uniti da un insieme di valori comuni e durevoli nel tempo. Nel mondo attuale sono crollate le identità edificate sull’appartenenza di classe, religiosa o politica e il pubblico, raccogliendo questa necessità di un vissuto adattabile, diviene meno vincolante, dando la possibilità di sperimentare più appartenenza contemporaneamente, anche se le pratiche affettive sono conflittuali.
Ferdinad Tönnies afferma che uno dei caratteri distintivi della comunità è la reciproca comprensione, ma non intesa come traguardo di un percorso comune di messa in condivisione di valori quanto come punto di partenza di ogni forma di aggregazione (Bauman 2003). Naturalmente non è detto che un pubblico non possa divenire una comunità, ma ciò che unisce gli individui appartenenti ad un pubblico è l’ethos, che è quel “qualcosa” che viene messo in comune identificabile anche nelle pratiche produttive. Nella filosofia aristotelica questo termine aveva due significati: nella retorica, come quel rapporto che l’oratore riesce ad instaurare con il suo pubblico; nell’etica, come quell’insieme di valori che riesce a tenere uniti gli individui.
Nel pubblico riusciamo a scorgere un superamento di quel concetto di “società liquida” che Bauman adopera per descrivere il mondo post-moderno. Il crollo della morale moderna ha creato una non-società di monadi consumistiche, una società de-responsabilizzata che non permette la nascita di nuovi valori. Al contrario, proprio il puntare sui pubblici dimostra come oggi, forse, ci si trovi in una fase di superamento di questo pessimismo. Vuol dire che c’è la voglia e forse anche la necessità di incontrarsi, di riconoscersi e di creare legami sociali e allo stesso tempo di essere produttivi.
Ma come si costruisce il senso di appartenenza? Il pubblico diviene idolo che costruisce appartenenza in modo episodico e si riconosce in un rito. Tiziana Villani afferma che il pubblico non ha la necessità di sviluppare identità ma bensì rito. Riprendendo proprio la prospettiva dell’intellettuale francese Pierre Klossowski, possiamo dire che non c’è più bisogno di una narrazione che sottostà e legittima ma la ritualità è di per sé quell’evento che ha la funzione di definire momenti di appartenenza laddove l’appartenenza è oggi frammentaria: un rito senza il mito.
Difatti il pubblico non costruisce valori ma produce discorsi a partire da un investimento emotivo e quindi pre-valoriale. Questi investimenti però spesso si esauriscono lasciando poco. Un esempio è la protesta di #occupywallstreet, che grazie ai social network ha avuto la capacità di aggregare un numero di individui a partire da un evento episodico, ma che poi si è esaurito con la stessa velocità con cui è nato.
Le persone che costituiscono un pubblico, quindi, non si riconoscono in valori ma in una serie di pratiche di produzione sociale. Riprendendo l’esempio delle proteste civili e politiche, è interessante introdurre la riflessione che Alessandro Caliandro pone sul tavolo riguardo al rapporto tra attivisti digitali e social media: «Tuttavia c’è qualcosa che stride qui: a conti fatti Dorsey e Twitter sono stati encomiati per meriti che, fondamentalmente, non sono loro. Infatti, piuttosto che prendere il caso turco come un’opportunità per incoronare Dorsey e Zuckerberg come i nuovi paladini della libertà di parola, dovremmo prenderlo come un’opportunità per celebrare la nascita di una nuova generazione di attivisti digitali (…). È grazie a persone come loro, che hanno occupato delle piattaforme commerciali trasformandole in luoghi di discussione critica e mobilitazione politica – facendone un uso estremamente diverso rispetto a quello per cui erano state originariamente progettate –, che i brand di Facebook e Twitter sono diventati degli improbabili simboli di rivoluzione» (Caliandro 2014). Nel processo di riconfigurazione della nostra società, quindi, l’individuo si trasforma in un produttore di senso. Gli utenti, attraverso sistemi collaborativi, creano nuove pratiche produttive e sociali che determinano sistemi distribuiti dove il digitale diviene sistema abilitante.
I pubblici creano pertanto sistemi in grado di organizzare la produzione e risultano essere più efficaci delle organizzazioni tradizionali, come ad esempio i pubblici di produzione di software free e open source. Quindi attraverso la socializzazione della produzione si sviluppano sistemi complessi di collaborazione adattabili alle condizioni di flessibilità e insicurezza in cui operano le persone. Il lavoro moderno, infatti, non garantisce più soggettività, ma pone in essere nuove forme di auto-adeguamento.
L’auto-adeguamento che viviamo nella nostra società esula però dalla visione proposta da Bourdieu sulla convertibilità dei 4 capitali. Il sociologo francese individua 4 tipi di capitale: economico, culturale, sociale, simbolico. Il primo tipo di capitale, in modo molto intuitivo, fa riferimento alle risorse finanziarie di una persona; il secondo alle competenze e conoscenze che un individuo possiede; il terzo alle relazioni e il quarto alla reputazione. Nel sistema produttivo che abbiamo fin qui conosciuto, ognuno di questi capitali poteva essere trasformato nell’altro. Ad esempio un individuo con un altro capitale sociale, e quindi un insieme di relazioni ampie, diversificate, relativamente forti, aveva la capacità di trasformarlo in un capitale simbolico, ovvero nella costruzione di un sistema di reputazione forte. Possedere ancora un alto capitale culturale, e quindi di conoscenze e competenze, avrebbe permesso a un individuo di convertirlo in capitale economico attraverso il lavoro. Questo sistema nell’epoca attuale è completamente saltato e questo soprattutto per quella che chiamiamo oggi classe cognitiva.
Naturalmente, per comporre una classe, nel senso classico del termine, occorre del tempo e avviene attraverso un lavoro politico. Adam Arvidsson (2014) scrive:
Il concetto di classe ha ormai un’aura arcaica e quasi retrò e si preferisce, spesso, parlare di moltitudine composta da una molteplicità di lotte e di identità. Tuttavia – come abbiamo visto nei casi dei movimenti della primavera araba (ormai spentasi in un autunno sanguinoso), degli indìgnados spagnoli e degli Occupy negli Stati Uniti – la moltitudine può essere capace di rapida mobilizzazione e di straordinaria vivacità, ma queste manifestazioni rimangono eventi con una durata limitata.
Guardando all’interno di questa categoria da “rispolverare” notiamo l’emergere di un’istanza che diviene arma di resistenza al presente: l’atto di creazione. Gilles Deleuze afferma infatti che questo atto va distinto da tutta quella serie di dispositivi di mercificazione dell’arte e va necessariamente visto come l’attuazione di ciò che manca e ciò che è necessario al presente. Si può richiamare qui con forza la definizione di innovazione sociale elaborata da Robin Murray, Julie Caulier Grice e Geoff Mulgan (2011):
Definiamo innovazioni sociali le nuove idee (prodotti, servizi e modelli) che soddisfano dei bisogni sociali (in modo più efficace delle alternative esistenti) e che allo stesso tempo creano nuove relazioni e nuove collaborazioni. In altre parole, innovazioni che sono buone per la società e che accrescono le possibilità di azione per la società stessa.
L’atto creativo come atto innovativo che propone al presente qualcosa che manca, di necessario, che abilita nuove forme produttive, sociali e politiche già presenti nella società.
L’ostacolo a far diventare questa serie di pratiche di produzione sociale elementi che superino il carattere dell’estemporaneità deriva dall’autoreferenzialità dei pubblici. Il riconoscersi nelle pratiche e l’escludere chi non si riconosce in queste tende a far sì che ogni pubblico viva quasi come una monade. Per dirla con Bertram Niessen, il passaggio successivo che i pubblici dovranno affrontare è quello di rendere i propri sistemi simbolici e quindi anche estetici sempre più traduttivi per entrare in contatto con altri pubblici.
Pubblici con pratiche produttive, simboliche e relazionali differenti che però hanno la capacità di dialogare e costruire relazioni. Questa è la possibile strada verso cui incamminarsi per rispondere alla sempre più pressante necessità di portare avanti discorsi di azione collettiva finalizzati al cambiamento.
Per approfondire:
- Arvidsson A., Classe Cognitiva, “Doppiozero”, 2014, http://bit.ly/Vm1NRx.
- Bauman Z., Voglia di Comunità, Laterza, Bari, 2003.
- Caliandro A., Sovvertire i social network commerciali: attivismo digitale ed interessi corporate, “Etnografia Digitale”, 2014, http://bit.ly/XhCLVt.
- Casalegno F., Cybersocialità. Nuove forme di interazione comunitaria, Il Saggiatore, Milano, 2007.
- Castells M., La nascita della società in rete, Università Bocconi, Milano, 2008.
- Murray R., Caulier Grice J., Mulgan G., Il libro bianco sulla innovazione sociale, The Young Foundation/Society, 2011.
- Silverstone R., La responsabilità dei media nella civiltà globale, Vita&Pensiero, Milano, 2009.
- Tarde G., L’opinion et la foule, Paris, Les Presses universitaires de France, 1989.