Le radici dell’ultima crisi (e della prossima?): deregulation e non-regulation
La finanziarizzazione dell’economia mondiale promossa dal presidente americano Bill Clinton con la firma del Gramm-Leach-Bliley Act nel novembre 1999, passata alla storia con l’epiteto giornalistico deregulation, risulta essere la chiave di volta per far luce sull’origine dell’ultima recente crisi finanziaria globale. La deregulation abrogava il Glass-Steagall Act che precedentemente proibiva alle cosiddette BanCorp (le holding bancarie) di controllare altri istituti finanziari, marcando un confine tra banche commerciali, di investimento, hedge fund, altri fondi d’investimento e istituti assicurativi, e uniformando di fatto il sistema bancario e finanziario allargato sotto un unico modello di rischio.
Precedentemente, orientamenti tendenti al rilassamento erano già in essere dal 1997 con la decisione dell’allora presidente della Federal Reserve (FED) Alan Greenspan di mantenere completamente deregolamentato il mercato dei derivati e lo Shadow Banking (ovvero il settore dei fondi di investimento e delle grosse istituzioni finanziarie che agiscono come banche pur senza esserlo de facto). In aggiunta, il rilassamento della regola sul capitale netto approvato nell’aprile del 2004 dalla U.S. Securities and Exchange Commission (SEC), abrogativo del testo della stessa legge del 1975, permise ai grossi istituti finanziari (con capitale superiore ai 5 miliardi di dollari) di limitarsi a presentare alla SEC un proprio documento di esenzione (exemption file) per poter decidere in autonomia il proprio capitale netto, ovvero il proprio cuscinetto di liquidità netta da usare come garanzia di solvibilità del portafoglio d’investimento.
La non-regulation dello Shadow Banking e la deregulation del sistema finanziario globale hanno fatto sì che strumenti speculativi quali i Credit Default Swaps (CDS) potessero essere usati come bilanciamento (hedge) contro il rischio di credito[i] senza che le parti coinvolte abbiano nulla a che fare con la stipulazione del contratto di credito/debito originario e quindi senza dover necessariamente possedere lo strumento di debito (azione, obbligazione o derivata che sia). Come conseguenza, il volume di CDS risultò centuplicato nel decennio 1998-2008 e il trend era già stato notato nel 2003 dal famoso investitore Warren Buffett, l’Oracolo di Omaha, inducendolo a definire le derivate “armi finanziarie di distruzione di massa”.
La crisi finanziaria radicata nelle scelte legislative citate ha poi trovato terreno fertile nell’operato a dir poco creativo delle BanCorp, in particolare nella forma di mutui subprime e derivati quali Collateralized Default Obligations (CDO) e i già citati Credit Default Swaps. Il gonfiarsi della bolla immobiliare americana, il facile accesso al credito per le istituzioni bancarie e per i loro clienti, sommati agli atteggiamenti collocabili nel grigio della legge e a quelli impunemente fraudolenti degli attori coinvolti, portarono l’intero sistema a vivere picchi di euforia finanziaria poi risultati in overleveraging (eccessiva esposizione al rischio di default) e successivamente nel collasso dell’intero castello di carte.
Se la deregulation ha agito da catalizzatore sistemico, la bolla immobiliare americana può essere vista come la scintilla scatenante e l’overleveraging andrebbe inteso come amplificatore della propagazione dell’incendio. L’effetto domino fu tale da portare al collasso l’economia americana prima e quella mondiale poi nel giro di 18 mesi (dalla prima bancarotta dovuta ai subprime nell’aprile 2007 al collasso di Lehman Brothers e Bear Sterns nel 2008), registrando nel primo trimestre del 2009 un violento declino delle maggiori borse mondiali pari al 9,8% per l’Eurozona, con picchi del 14,4% in Germania, 15,2% in Giappone e 21,5% in Messico.
Il decennio 2010-2020 ha poi successivamente vissuto gli strascichi della crisi finanziaria globale vedendo inasprirsi la crisi del debito europea (2009-2012), preceduta dal collasso di interi sistemi finanziari nazionali quali quello islandese e veri e propri default come quello greco, oltre a far registrare un tasso di disoccupazione del 10%.
Tra finanza creativa e politiche monetarie espansive
Il nuovo decennio non è poi partito nel migliore dei modi per il pianeta, e non solo da un punto di vista economico-finanziario. L’avvento del Covid-19 ha forzato i governi ad applicare misure estreme fino al totale lock-down nazionale nel tentativo di contenere l’espansione pandemica. A marzo 2020 i mercati hanno risposto al fattore Covid con un declino verticale molto simile a quello registrato undici anni prima a causa della crisi finanziaria, ma le importanti misure di Quantitative Easing implementate dalle grandi potenze economiche mondiali hanno fatto sì che i mercati ripartissero alla svelta e arrivassero a registrare nel primo trimestre del 2021 i più alti picchi mai raggiunti.
Nonostante l’apparente ripresa, alcuni valori risultano alterati e l’impatto di tali alterazioni non pare sia ancora stato quantificato a livello macro-economico, per quanto non sia dato sapere a oggi se a porte chiuse il problema sia stato affrontato nelle stanze del potere dell’economia e della finanza mondiale. Non resta che porsi delle domande e provare a suggerirsi delle risposte in attesa di ulteriori dati, dettagli e conferme ufficiali.
Dall’inizio della pandemia, i governi in giro per il mondo si sono accinti a varare politiche aggressivamente espansionistiche per cauterizzare la ferita aperta improvvisamente dal Covid-19; ma a quale prezzo? Per quanto giornalisticamente e moralmente valutato come sforzo encomiabile, i costanti stimulus packages direttamente versati dagli Stati nelle tasche dei cittadini, le trasversali iniezioni di capitale che hanno reso più liquido l’intero tessuto economico-finanziario (dalle imprese private agli istituti di credito) e il rilassamento delle politiche in materia di prestiti e rientro dei prestiti hanno aumentato esponenzialmente il circolante, facendo temere l’avvento di ondate iper-inflazionistiche, oltre ad aumentare il rischio sistemico in relazione all’esposizione al credito.
In realtà, non si sono verificati picchi inflazionistici soprattutto in considerazione del fatto che generalmente questi vengono registrati in situazioni dove vi è convergenza di tre fattori:
- eccesso di liquidità;
- piena occupazione;
- alta velocità del circolante.
La pandemia ha praticamente agito da argine all’inflazione, prevenendo il realizzarsi dei punti 2 e 3 appena elencati. Contestualmente, l’impennata dei mercati azionari dopo il crollo del marzo 2020 è da considerarsi finanziata più da queste iniezioni di liquidità nell’economia mondiale che non direttamente proporzionale alla crescita del prodotto mondiale lordo.
Il boom del Bitcoin e la nuova economia degli asset digitali
Un buono spunto sull’argomento ci viene fornito dall’impennata dei prezzi delle criptovalute come asset class, capeggiate ovviamente da Bitcoin. Occorre una necessaria digressione per dare contesto. A dieci anni dalla propria apparizione, Bitcoin risulta essere l’asset con la miglior performance, ossia con il miglior ritorno economico (ROI) al mondo. Per fare un esempio, HowMuch.net (sito di educazione finanziaria) ha calcolato che 100$ investiti a inizio 2009 nelle migliori multinazionali odierne (come Amazon, Apple, Microsoft, Facebook) avrebbero prodotto i seguenti risultati:
- Facebook 520$ = +420%
- Microsoft 1.000$ = +899%
- Apple 2.400$ = +2.345%
- Amazon 3.300$ = +3.156%
Nello stesso periodo (gennaio 2009 – dicembre 2019), 100$ investiti in Bitcoin avrebbero registrato la seguente crescita:
- Bitcoin 9.200.000$ = 9.150.088%
Ovviamente, il numero è calcolato sui valori di dicembre 2019, quando 1 Bitcoin era acquistabile per 7.500$. Oggi, nell’aprile 2021, 1 Bitcoin equivale a circa 57.500$, un ulteriore +750% rispetto alla cifra sopra riportata di 9,2M$[ii]. Senza voler entrare nel merito dello use-case di Bitcoin e dell’innovativo concetto di blockchain, il caso Bitcoin serve allo scopo di dimostrare come l’impennata dei prezzi negli ultimi dodici mesi circa sia dettata dall’eccesso di nuova moneta stampata.
Caratteristiche intrinseche del Bitcoin sono la sicurezza del network (non-hackerabilità del sistema), la scarsità (esiste un numero finito di Bitcoin e una volta in circolazione non potranno esserne prodotti altri) e il sistema democratizzato di approvvigionamento. Queste caratteristiche, lette tramite la lente fornita dalla “legge di Metcalfe” hanno permesso a molti economisti e matematici di effettuare previsioni davvero ambiziose per il prezzo di Bitcoin in futuro. Originariamente presentata nel 1980 da Robert Metcalfe per descrivere l’impatto della telefonia in maniera esponenzialmente proporzionale all’aumento di telefoni nella società (compatible communicating devices), la teoria è stata successivamente affinata da George Gilder nel 1993 e applicata all’Ethernet. Nella sua forma base, la legge afferma che il valore del network di telecomunicazioni è proporzionale al quadrato del numero degli utenti connessi al Sistema (n²), dove n equivale al numero dei nodi.
In parole povere, il valore di un network è proporzionale al numero dei partecipanti al network elevato al quadrato. Questa legge si applica alla crescita di Bitcoin alla perfezione, mostrando perfetta correlazione tra aumento del numero di indirizzi Bitcoin (wallet addresses) e aumento del prezzo.
Questa correlazione ha portato a molteplici proiezioni e previsioni, la più famosa delle quali è quella di PlanB (dove B sta per Bitcoin), un investitore istituzionale olandese con background accademico in diritto e finanza quantitativa, che attraverso il suo Stock-To-Flow Model (S2F) elaborato e pubblicato nel marzo 2019 aveva previsto un valore di 55.000$ per Bitcoin entro il 2021, ovvero una capitalizzazione di mercato pari a 1 trilione di dollari (all’epoca della previsione Bitcoin era valutato 4.000$ e nella sua storia decennale aveva raggiunto i 20.000$ per coin solo una volta, al picco del dicembre 2017).
Bitcoin fu disegnato da Satoshi Nakamoto nel famoso white paper del 31 ottobre 2008 e il primo Bitcoin fu estratto il 3 gennaio 2009 e il suo codice open source fu reso accessibile al mondo l’8 gennaio 2009; come descritto e previsto nel white paper, Bitcoin non solo ha una quantità massima predefinita – Hard Cap – ma viene “estratto” blocco dopo blocco, Proof-of-Work dopo Proof-of-Work (PoW), attraverso il mining (“estrazione”). Ogni 210.000 blocchi – approssimativamente ogni quattro anni – la quantità di Bitcoin “estraibile” si dimezza in un processo conosciuto come halving.
Il modello di PlanB traccia il valore passato, presente e futuro di Bitcoin in correlazione all’aumentare della scarsità:
- Stock = è la quantità di prodotto/moneta/commodity esistente (in questo caso di Bitcoin);
- Flow = è la produzione annua dell’asset in questione;
La tabella seguente servirà da esempio:
L’oro registra uno stock-to-flow (SF) di 62, implicando che ci vorrebbero 62 anni di produzione per poter giungere alla quantità di prodotto esistente oggi; per l’argento sono necessari 22 anni e ciò rende entrambe gli asset delle ottime riserve di valore monetario.
Nel grafico seguente, la linea di regressione disegnata per meglio tracciare i dati inseriti conferma l’impressione che si ha a occhio nudo: una relazione statisticamente significativa tra SF e valore di mercato (si noti che il modello è basato sui dimezzamenti di produzione – Halving – come indicato a destra e il valore è calcolato su scala logaritmica come indicato a sinistra – coprendo ben 8 ordini di magnitudine).
Risulta essere alquanto interessante che oro e argento, pur essendo mercati completamente diversi, sono in linea coi valori del modello Bitcoin in merito allo SF.
La allora visionaria previsione fu poi seguita da un’altra altrettanto “spericolata”, che stimava la capitalizzazione di mercato di Bitcoin intorno ai 5,5 trilioni di dollari, o 288.000$ per coin prima dell’avvento del prossimo Halving (19 aprile 2024).
Ad oggi, Bitcoin sembrerebbe seguire alla lettera il Modello S2F elaborato da PlanB.
In realtà, la velocità con cui Bitcoin è arrivato al valore di 55.000$ (1 trilione di dollari di Market Cap) è risultata secondo molti analisti eccessiva e ha portato alla conclusione che il valore di Bitcoin e lo stock market in generale siano estremamente inflazionati, ciò proprio a causa delle recenti iniezioni di capitale da parte dei governi in giro per il mondo.
Secondo un sondaggio di Mizuho Securities del 15 marzo scorso, 40 miliardi di dollari dei 380 pronti a essere iniettati nell’economia americana saranno allocati per investimenti e due persone su cinque (il 40%) hanno dichiarato di preferire puntare su Bitcoin anziché investire in asset tradizionali.
Una nuova crisi all’orizzonte
L’iniezione di liquidità registrata negli ultimi dodici mesi nei soli Stati Uniti ha visto la quantità di dollari in circolazione (2 trilioni) aumentare di un incredibile 40%, accelerando la svalutazione della moneta. Tale svalutazione potrebbe non essere immediatamente registrabile nell’economia reale, in quanto le misure di lock-down hanno notevolmente rallentato la velocità del circolante e la pandemia in genere ha aggravato il tasso di disoccupazione; ma decisamente se ne colgono i sintomi nel mercato finanziario, con i picchi registrati da tutti gli asset in circolazione: commodities, criptovalute, azioni, obbligazioni.
In che modo questi segnali sono indicatori di un possibile futuro nefasto? La tesi che sosteniamo è quella della sopravvalutazione dei mercati tutti, derivante da sovraesposizione (overleveraging) degli attori finanziari; una situazione resa possibile dalle politiche di quantitative easing, iniezioni di circolante a tasso zero da parte delle banche centrali (FED in primis) e l’abbassamento del livello di rischio creditizio (ovvero un facilitato accesso al credito per le grandi istituzioni finanziarie al fine di “pompare” liquidità nell’economia in maniera trasversale). Tali circostanze, aggiunte alla deregulation e alla non-regolamentazione del settore dello Shadow Banking, hanno attratto sempre più attori finanziari dall’elevata propensione al rischio, essendo il proprio successo calcolato in maniera puramente quantitativa seguendo la legge del “Two and Twenty”:
- 2% del capitale gestito (Asset Under Management) è la commissione ricevuta a prescindere dai risultati;
- 20% dei profitti è la commissione ricevuta a completamento di una transazione di successo.
Questa regola, giustapposta alla natura stessa degli hedge fund, ovvero al loro essere “aggregatori di risorse” (provenienti dagli investitori/finanziatori del fondo) e meri “gestori” di queste ultime, insieme al clima lascivo dal punto di vista legislativo ed espansivo, nonché dal punto di vista monetario, stanno innescando un meccanismo di sovraesposizione creditizia tale da far rischiare un vero e proprio fallimento di sistema (systemic failure) se non si agisce per tempo.
Gli hedge fund sono veicoli di speculazione ad alto rischio/rendimento e operano con manovre di breve periodo al fine di massimizzare il ritorno; tra le strategie più usate da questi fondi vi è il levering, l’investimento basato sul debito e lo short-selling. L’espansionismo registrato nell’ultimo decennio di politiche monetarie, il quantitative easing estremo degli ultimi dodici mesi per far fronte alla crisi pandemica, sommati alla politica di interessi a tasso zero da parte delle banche centrali, hanno creato uno tsunami di liquidità che ha portato a un rischiosissimo rilassamento del settore creditizio. È bene notare come il sistema finanziario istituzionale sia de facto il polmone della finanza e dell’economia di un Paese. Gli interessi zero decisi dalle politiche monetarie iper-espansive hanno versato liquidità nel settore finanziario e creditizio a partire dagli istituti di credito, espandendosi poi a macchia d’olio verso istituti assicurativi, fondi pensione, hedge fund e, per effetto dello sgocciolamento (trickle-down effect), hanno inondato il mercato finanziario e le Borse mondiali.
Il meccanismo è abbastanza elementare: gli istituti di credito sono incentivati ad accumulare liquidità a interesse zero dalle banche centrali; gli operatori, ovvero i banchieri, guadagnano in commissioni, cioè una percentuale del denaro prestato, quindi sono incentivati a elargire prestiti; e i maggiori flussi di capitale a credito sono richiesti dai fondi di investimento, che a loro volta usano il capitale a disposizione per ottenere linee di credito più profonde e allo stesso tempo guadagnano il 2% degli asset gestiti (risultando estremamente incentivati all’esposizione creditizia). Ovviamente, tutti questi enti ricorrono a istituti assicurativi per tutelare le proprie operazioni in caso di default/bancarotta di uno dei creditori, e tali istituti tendono a loro volta a mitigare il proprio rischio di default tramite la collateralizzazione del debito e i Credit Default Swaps.
Va da sé che, finché il vento del mercato soffia nella direzione dei grossi investitori, i profitti vengono calcolati in miliardi di dollari e il sistema prospera; il problema inizia a presentarsi quando il mercato diviene quasi impronosticabile anche a questi soggetti nonostante siano altamente specializzati, attrezzati e finanziati.
Il caso GameStop: Hedge Fund vs. Wall Street Bets
Quando a fine gennaio 2021 il titolo GME della catena di retail di videogiochi GameStop ha raggiunto i 483$ di valore sulla Borsa di New York (NYSE), il mondo non ci ha fatto caso e in pochi conoscevano la vicenda all’origine dell’impennata del prezzo; ancora oggi, in pochissimi conoscono cosa stia accadendo ed è nostra intenzione far luce su uno degli avvenimenti potenzialmente più importanti della storia finanziaria degli ultimi dieci anni e che potrebbe forse segnare il futuro dell’economia e della finanza costringendo il legislatore americano (e molti altri a seguire) a cambiare le regole del gioco.
Doveroso preambolo: l’azienda GameStop vive da anni la propria terza età e il proprio modello di business basato su negozi e vendita di console e videogiochi sta andando nella stessa direzione terminale di quello di un colosso del passato oggi fallito: Blockbuster. Il titolo GME ha rispecchiato per anni quello che Wall Street pensava del suo arcaico business model: la tendenza al fallimento. Il valore del titolo ha performato in un range tra i 4-5 dollari per anni senza movimenti di sorta, quasi in attesa del colpo di grazia. Già prima della pandemia, molti attori finanziari (in particolare hedge fund) hanno approfittato della debolezza e dell’immobilismo aziendale per speculare sul fallimento e consequenziale de-listing del titolo dalla Borsa. Questa speculazione è avvenuta sotto forma di short selling: si tratta di una pratica comune in finanza, che equivale a una scommessa “contro” la performance di un’azienda, ovvero facendo guadagnare all’investitore quanto più l’azienda risulta essere fallimentare.
Nell’aprile 2020, quando il panico generato dalle misure di lock-down ha colpito le Borse mondiali, il titolo è crollato ai minimi storici fino a toccare i 2,60$ e indirettamente confermando agli investitori che avevano puntato contro la sopravvivenza dell’azienda che le loro ipotesi erano fondate, incentivandoli a raddoppiare le proprie posizioni di shorting immaginando che il lock-down avrebbe assestato il definitivo colpo di grazia. Intanto, altri investitori nel mondo hanno valutato differentemente il futuro dell’azienda, in concomitanza del fatto che le nuove console stanno ancora producendo slots per la lettura di CD e DVD e quindi la totale digitalizzazione sembra essere ancora lontana, per quanto all’orizzonte. Investitori quali Michael Burry (CEO di Scion Asset Management e primo in assoluto a predire la bolla del mercato immobiliare americano) e Ryan Cohen (CEO e fondatore di Chewy, azienda e-commerce leader mondiale nella vendita di prodotti per animali domestici) hanno letto grande potenziale nell’azienda e certamente nel titolo GME, considerandolo sottovalutato.
Le loro considerazioni durante tutto il 2020 sono poi state fatte proprie da alcuni piccoli investitori (retail investors) capeggiati dallo Youtuber “RoaringKitty”, conosciuto sulla piattaforma Reddit con lo pseudonimo di r/DeepF—ingValue, all’anagrafe Keith Patrick Gill. Verso la fine del 2020, Cohen aveva acquistato il 13% delle azioni dell’azienda mentre il titolo era salito dai 2,60$ a circa 20$. La situazione era rovente per molti hedge fund, che si ritrovavano sovraesposti nella loro strategia di shorting contro un titolo che aveva visto moltiplicare il proprio valore ben 7,7 volte rispetto al prezzo più basso registrato (altro che bancarotta!). Intanto il subreddit r/WallStreetBets, su cui Gill continuava a postare le proprie analisi, commenti e prove dei propri investimenti, aveva adottato il titolo in una sorta di protesta contro la finanza, alla stregua di una Occupy Wall Street 2.0.
Questa protesta, combinata alla genuina considerazione del potenziale del titolo GME e dell’azienda GameStop di trasformarsi con l’ingresso di Cohen nel consiglio d’amministrazione, ha portato a un acquisto in massa del titolo su ogni piattaforma di trading online accessibile al piccolo investitore. Il titolo in pochi giorni è schizzato da 20$ a 483$ riducendo quasi sul lastrico alcuni hedge fund, il più colpito dei quali è stato sicuramente Melvin Capital (a cui è dovuto venire in soccorso il fondo Citadel Securities con 2,75 miliardi di dollari e Point72 con 750 milioni di bailout). L’impennata ha innescato un repentino short squeeze, ovvero la corsa al riacquisto delle azioni da parte di quegli attori che avevano scommesso sulla caduta per contenere le perdite derivanti dall’impennata; riacquisto che combinato alla pressione dell’impennata stessa tende a esacerbare la mole di acquisti gonfiando oltremodo il valore delle azioni in questione: catalizzatore è stata la scoperta da parte del “popolo di Reddit” che le azioni soggette a shorting erano oltre il 100% del numero di azioni ufficiali esistenti, implicando che gli shorters stessero applicando la tecnica del Naked Short Selling (pratica di vendita di “azioni allo scoperto”, ovvero la vendita di un titolo senza averne il possesso, non ricevendolo in prestito e nemmeno assicurandosi che tale prestito sia eventualmente possibile) e “producendo” azioni “sintetiche”, “derivate” e ponendosi nella condizione di essere soggetti a squeeze.
Nelle settimane successive il titolo è sceso in quello che è inizialmente apparso essere lo sgonfiarsi della bolla, ovvero la naturale regressione post-squeeze di un titolo verso il proprio valore reale di mercato (come avvenuto nel 2008 al titolo Volkswagen). In realtà, a causa della non-regolamentazione degli hedge fund e del fatto che le posizioni short non sono soggette a dichiarazione trimestrale presso la SEC, i piccoli investitori che in massa si incontrano quotidianamente su Reddit e discutono dell’argomento hanno continuato (e continuano a tutt’oggi) a speculare e sostenere che lo squeeze non sia ancora avvenuto e la discesa del prezzo del titolo sia solo frutto di manipolazioni di mercato. A gennaio il valore del titolo è stato frenato dall’operato degli attori maggiormente a rischio, ovvero hedge fund e piattaforme di trading online. Durante le fasi concitate della scalata, i piccoli investitori sono stati tagliati fuori dall’acquisto di azioni ritrovandosi la funzionalità d’acquisto bloccata sulle proprie app di trading (le azioni potevano solo essere vendute). Piattaforme quali Robinhood sono state accusate di collusione con i grossi fondi da parte dei piccoli investitori che hanno inondato Twitter, Reddit (r/WallStreetBets; r/Gamestop; r/Superstonk) e le bacheche delle stesse piattaforme di trading con messaggi di rivalsa e minacce di class action.
Il caos generato dallo sgonfiamento del titolo, giunto nel mese di febbraio a 38,50$, combinato alle pesanti accuse di collusione e manipolazione finanziaria, hanno costretto il Congresso americano a richiedere un’udienza sulla vicenda alla quale tutti gli attori in causa sono stati chiamati a testimoniare, incluso lo Youtuber “Roaring Kitty” Gill. A partire dall’udienza, il titolo ha riguadagnato terreno e tra fine febbraio e inizio marzo ha ritoccato i 350$ in una crescita serrata senza accenno al rallentamento (sintomo che lo squeeze è ancora in divenire), tanto da costringere gli operatori dall’altra parte del mercato (gli shorters) a utilizzare qualunque mezzo a loro disposizione per fermare l’impennata del prezzo (ladder attacks, naked short selling, married puts, synthetic longs, discardable deep in the money calls, dark pools, ecc. sono tutte tattiche esistenti che è solo possibile speculare siano state implementate essendo di dubbia legalità e non essendoci prove certe del loro utilizzo). Il valore del titolo è crollato nuovamente a fine marzo fino a toccare i 120$ e al momento di questa analisi oscilla tra i 140$-160$.
La domanda che sorge spontanea è se e in che modo questa saga possa essere di rilievo per un più ampio discorso macro-economico. Ormai il titolo ha smesso di muoversi in parallelo con l’azienda e le notizie estremamente positive che si percepiscono di una trasformazione imminente (a partire dalla nomina del nuovo consiglio direttivo). Oggi il titolo sembra in balia di forze ben più potenti, superiori anche al potere degli hedge fund che vorrebbero vederlo crollare del tutto. Le forze in questione rappresentano il vero ago della bilancia nel tentativo di prevenire il temuto fallimento sistemico. L’operato di tali forze coinciderebbe anche con la più importante e violenta intromissione del legislatore americano nelle vicende del libero mercato mentre queste sono ancora in divenire, con buona pace della “mano invisibile” di Adam Smith.
Cambio di rotta o cambio delle regole del gioco?
Al vertice del mercato americano siede un’agenzia indipendente del governo completamente slegata dall’esecutivo tradizionale, agente sotto l’egida di statuti speciali e rispondente del proprio operato al Congresso, che può richiederne udienze ad hoc e ne nomina i vertici. L’agenzia in questione è la SEC, istituita negli anni Trenta del Novecento a seguito del Crollo del ’29 e della susseguente Grande Depressione. L’operato della SEC è coadiuvato a livello di sistema (non di statuto) dalla Depository Trust & Clearing Corporation (DTCC), un’azienda privata che fornisce servizi di clearing e settlement al mercato finanziario, ovvero che funge da arbitro di tutte le transazioni finanziarie di modo che queste vengano rispettate e tutti i sospesi vengano coperti fino a costituirsi quale “garante ultimo” pur di assicurare il rispetto di ogni transazione. Istituita nel 1999 con la funzione di integrare l’operato della Depository Trust Company (DTC) e della National Securities Clearing Corporation (NSCC), la DTCC è oggi annoverata tra le migliori 500 aziende al mondo dalla rivista Fortune.
Questi enti si sono più volte trovati invischiati in contenziosi spinosi, ricevendo pesanti accuse da parte di piccole aziende quotate in borsa e uffici legali per aver chiuso costantemente gli occhi dinanzi all’operato degli hedge fund in materia di Naked Short Selling. Alle aspre critiche, la DTCC ha sempre risposto che il problema non era così esteso da meritare regolamentazione e, seppure la SEC riconosca l’esistenza del problema, ha a sua volta sempre appoggiato la DTCC in caso di procedimenti legali.
Il caso GameStop sta cambiando le regole del gioco en passant, o quanto meno sta causando questo cambio di rotta. Dalla richiesta d’udienza da parte del Congresso, la SEC e la DTCC hanno avuto molteplici meeting a porte chiuse per affrontare il problema e trovare una soluzione che riduca il rischio sistemico di default. Ad oggi, la DTCC ha prodotto importanti cambiamenti legislativi alle procedure in essere, con particolare attenzione ai temi di failure to deliver (FTD, ovvero l’impossibilità di ripagare un debito, onorare un contratto o restituire un titolo precedentemente ricevuto in prestito) e Naked Short Selling. Come si evince dal grafico seguente presente sul sito della SEC, il FTD ai danni del titolo GME è ormai prassi e, come poi documentato da Bloomberg in un piccato articolo sull’argomento, oltre 358 milioni di dollari in azioni a gennaio 2021 non sono stati restituiti risultando in FTD.
Chiaramente, sono previste multe se si incorre in FTD, ma ormai sembra che gli hedge fund preferiscano incorporare queste ultime alla stregua di “costo gestionale” per restare in business piuttosto che preoccuparsi di agire secondo norma ed evitare l’infrazione: il premio, evidentemente, è esponenzialmente più attraente dell’eventuale multa da pagare. A questa distorsione, la DTCC ha risposto lo scorso marzo con un piano per l’armonizzazione della comunicazione dei dati inerenti le derivate e sono in attesa di implementazione numerose nuove regole che stringono il cerchio intorno al settore dei derivati e all’operato dei più spericolati attori finanziari.
Queste nuove regole sembrano dimostrare che la DTCC sia chiaramente a conoscenza delle distorsioni dapprima considerate “irrilevanti” o “poco ramificate” nel sistema; inoltre, essendo la DTCC un’azienda privata, sa benissimo di essere il garante ultimo di tutte le transazioni finanziarie del mercato americano; ergo sa benissimo che in caso di short squeeze ed eventuale bancarotta di grossi attori finanziari, si innescherebbe un effetto domino nefasto che porterebbe a una serie di liquidazioni assicurative e margin calls (ovvero la forzata liquidazione dell’intero portafoglio d’investimento di un soggetto debitore per far sì che il creditore possa recupera il capitale prestato totalmente o parzialmente) come avvenuto alla banca Lehman Brothers e all’assicurazione AIG nel 2008, che in caso di default vedrebbero la DTCC costretta a ergersi come ultimo “debitore” verso il mercato (essendone appunto il garante ultimo).
Il caso Archegos: l’effetto domino è già iniziato?
La consapevolezza dell’eccessivo rischio sistemico causato dalla sovraesposizione di grandi attori finanziari sta convincendo DTCC e SEC a lavorare di comune accordo per far sì che dal punto di vista legislativo non siano loro stessi infine a pagare il conto di quello che potrebbe essere il party più costoso della storia della finanza americana e mondiale. Ma il tempo stringe.
La recente bancarotta del fondo americano Archegos Capital Management ha messo a nudo i rischi del settore investment banking e shadow banking. Quando a fine primo trimestre Archegos si è trovato impossibilitato a rispondere alle richieste di margin call da parte dei suoi creditori, non gli è rimasto altro che dichiarare bancarotta. Da cosa deriva l’apprensione mediatica internazionale sulla vicenda? Dal fatto che Archegos ha registrato la più grande perdita da parte di un’azienda o fondo singolo dai tempi di Lehman Brothers: 20 miliardi di dollari in due giorni. Operatori quali Credit Suisse e Nomura, sovraesposti nell’elargizione di prestiti verso Archegos, hanno dovuto registrare perdite a dir poco esose a fine primo trimestre e hanno subito un ulteriore doppio colpo con la perdita di terreno in borsa dei rispettivi titoli (l’11% e il 14%) e con la perdita di importanti capitali da parte di altri grossi investitori che hanno preferito migrare la propria liquidità verso lidi più sicuri e meno burrascosi (nel più classico dei panic runs).
Quel che preoccupa non è solo la colossale perdita generata dalla bancarotta di Archegos, il tumulto causato sul mercato per la vendita forzata delle azioni in possesso di Archegos e usate come pagamento collaterale verso i creditori, e le concatenanti perdite di banche d’investimento quali Credit Suisse e Nomura; quel che preoccupa ulteriormente è che un fondo sponsorizzato dai maggiori brokers di Wall Street e internazionali (GoldmanSachs, JPMorgan, Nomura e Credit Suisse) risultasse quasi inesistente nel database EDGAR della SEC (Electronic Data Gathering, Analysis and Retrieval), ovvero la raccolta dati inerente la divulgazione pubblica di operazioni finanziarie. La DTCC e la SEC sono a lavoro per provare a cambiare le regole del gioco nel tentativo di proteggere il sistema (e se stesse) dagli eccessivi rischi che il caso Archegos ha messo a nudo.
Conclusioni: The Game Stops?
Da un lato abbiamo la forsennata corsa contro il tempo delle istituzioni per cambiare il tessuto legislativo affinché il sistema sia maggiormente protetto e possa meglio assorbire bancarotte della grandezza del fondo Archegos qualora dovessero inaspettatamente ripresentarsi (e data la scarsa propensione alla divulgazione di informazioni ci si aspetta che tali bancarotte continuino ad avvenire “senza preavviso”); dall’altro abbiamo il caso GameStop che non accenna a sgonfiarsi e pare ancora posizionato per un violento short squeeze (il fondo Melvin Capital ha dichiarato perdite pari al 49% del proprio capitale a fine primo trimestre).
I prossimi due mesi saranno tra i più caldi in assoluto per il titolo, gli investitori tutti (da ambedue le parti del mercato) e le agenzie di vigilanza. Ciò che maggiormente preoccupa al momento è l’eventuale risultato di uno squeeze incontrollato, uno scenario che si auspica le istituzioni stiano prendendo in considerazione per poter crearvi attorno una struttura legislativa tale da supportarne la pressione disinnescandone il rischio di crisi sistemica. Va da sé che gli investitori che spalleggiano GameStop e puntano allo squeeze (perché fan dell’azienda, perché meri speculatori, o per voglia di rivalsa contro Wall Street) non vedono l’ora di vedere il titolo volare in Borsa e vedere fallire e dichiarare bancarotta gli hedge fund che hanno scommesso contro di loro. Per quanto il lieto fine di Davide che sconfigge il Golia finanziario dei nostri tempi sia romantico, è importante comprendere le ripercussioni di un’eventuale caduta di tali fondi sul tessuto finanziario globale e come poter organizzare lo scacchiere in modo che il sistema esca indenne qualunque sia l’esito della disputa.
Ciò che DTCC e SEC stanno cercando di comprendere è come poter arginare un effetto domino in stile crisi 2008, dove la margin call di un hedge fund potrebbe sfociare non solo nella sua bancarotta ma in una perdita di capitale eccessiva anche per i suoi creditori (banche di investimento) e gli istituti assicurativi che ne fanno da garanti delle operazioni. E data la pratica di controbilanciamento dei rischi che vede le banche scambiarsi Credit Default Swaps e le assicurazioni fare lo stesso, queste pratiche “protettive” contro un eventuale tracollo di una delle parti fungerebbe da vero legame e filo conduttore che potrebbe innescare la caduta di tutti i pezzi del domino. Più margin call, più bancarotte di fondi, istituti di credito e assicurazioni innescherebbero una crisi finanziaria superiore per mole a quelle dei subprime (2008), del Nasdaq (2000) e della Grande Depressione (1929) con il panico finanziario che ne scaturirebbe, diramandosi in maniera capillare e andando a colpire gravemente tutti i settori dell’economia, famiglie e risparmi inclusi. Si assisterebbe al più veloce collasso della storia degli indici finanziari dato il gran numero di piattaforme di trading online esistenti; gli asset considerati riserva di valore quali oro, argento, Bitcoin e criptovalute in genere registrerebbero una crescita esponenziale senza precedenti (ponendo anche questi mercati a rischio bolla, ma questo è un altro argomento). Lo short squeeze del titolo GME potrebbe essere il catalizzatore della crisi e DTCC e SEC sono estremamente consapevoli della situazione.
Creare una struttura legislativa intorno allo squeeze è l’unica soluzione ipotizzabile al momento, considerando che le azioni ufficiali dell’azienda sono circa 70 milioni e che il numero totale nel mercato è decisamente superiore (per quanto non ufficialmente quantificabile) sotto forma di azioni sintetiche (prodotto finale della pratica di Naked Short Selling), rendendo lo squeeze difficilmente evitabile. E il tempo stringe, in quanto GameStop ha annunciato la propria assemblea annuale degli azionisti per il 9 giugno e il riconteggio delle azioni inizierà a partire dal sessantesimo giorno precedente il meeting, e la sensazione è che a partire da questa data scatterà una sorta di coprifuoco e tutti gli scoperti dovranno essere coperti e le azioni rientrare per l’ufficiale conteggio.
Archegos è servito da campanello d’allarme affinché il sistema si desti e agisca per auto-proteggersi; Gamestop sta aggiungendo spinta affinché questo avvenga alla svelta. Da osservatori esterni, siamo fiduciosi che le agenzie in causa riescano a sciogliere il nodo gordiano e garantire la sicurezza del sistema. La nostra convinzione deriva dalla consapevolezza che queste agenzie sono estremamente resilienti e quando la loro stessa sopravvivenza è messa a rischio tirano fuori gli artigli e non c’è interesse esterno che tenga: conta solo la loro sopravvivenza; fortuna vuole che la loro sopravvivenza ad oggi sia direttamente collegata alla nostra e a quella del sistema finanziario globale.
Riferimenti
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- Zuckerman G., Chung J., Farrell M., Inside Archegos’s Epic Meltdown, “The Wall Street Journal”, 1° aprile 2021.
Note
[i] Un Credit Default Swap (CDS) è un contratto tra un “detentore di credito” e la sua controparte, alla quale il detentore si rivolge per alleggerire il proprio rischio di insolvenza – in caso il debitore fallisca – a fronte del pagamento di un premio proporzionale al valore del rischio).
[ii] Per facilità di spiegazione e approvvigionamento dati, si preferisce utilizzare il dollaro USA come moneta indice essendo a tutt’oggi considerata la “valuta di riserva” dalle più grandi istituzioni finanziarie mondiali e dalla maggioranza dei governi.
Ottimo articolo! Davvero in grado di riassumere la situazione in maniera bipartisan,la pratica del naked short selling deve essere regolata/bandita perché va contro i fondanenti del mercato,domanda e offerta,non é possibile che hedge fund siano in grando di aumentate le azioni(offerta)a loro piacimento.questo non fá altro che diluire le azioni di una azienda manipolando il prezzo a ribasso.grazie per L articolo!