Esiti dell’Umanesimo
La catastrofe è la nostra favola della buonanotte.
(DeLillo, 2016)
Possiamo davvero immaginare come sarà il nostro futuro? Non nei romanzi di fantascienza, ma nella speculazione sul reale attuale? Trovare nell’oggi le tracce del nostro domani? Forse possiamo ispirarci all’idea di Georg Simmel che a ogni epoca umana possa essere attribuito un “re nascosto” – un’idea centrale che avrebbe informato sotto traccia la visione del mondo di quell’epoca e che sarebbe stata quindi endemica dell’azione e del pensiero – idea che può apparire romantica, ma che ha un suo indubbio fascino. Il sociologo tedesco, che scrive di «punto di scaturigine e di incrocio (della) realtà e (dei) valori» (Simmel, 2008) compone una lista che può apparire incongrua, ma che si adatta bene alla successione di formazioni storico-sociali che lui stesso elenca.
Così, all’Età antica Georg Simmel associa come “re” l’Essere, al Medioevo Dio, all’Età classica la Natura, alla Modernità l’Io, al XIX secolo la Società, al XX – di cui si era all’inizio, quando scriveva: il suo testo è del 1912 – la Vita, intendendo con questo termine il senso del mutamento continuo, quindi, possiamo inferire, anche del mutamento sociale. Possiamo ipotizzare che se l’idea del “re nascosto” ha una sua utilità sul piano euristico, è perché il “re” di ogni epoca impregna sia il senso comune sia la riflessione delle élite intellettuali, conformandosi a e ispirando da una parte le strutture del “mondo-dato-per-scontato” preesistente, dall’altro incrinando, mettendo in forse le teorie con cui viene a contatto (cfr. Kuhn, 2009). Allora, quale sarà il “re nascosto” del futuro?
Nel nostro caso, navighiamo nell’incertezza, se assumiamo come ipotesi una qualsiasi continuità fra il presente e il futuro. La riflessione scientifica in mancanza di meglio è riuscita a definire la nostra epoca solo per differenza, facendo precedere il prefisso “post” a categorie già in uso: postmoderno (Lyotard, 1981; Harvey, 2015; Jameson, 2007), postfordismo, postseriale (Brancato, 2011) – fino a postumano, percependo e dichiarando non solo l’esaurirsi della Modernità, ma dello stesso primato dell’umano definito dall’Umanesimo; il senso comune riesce a percepire, su tutto il resto, un’atmosfera di rischio, di insicurezza, di disagio (Giddens, 1999; Beck, 2013) nella quale ci si sente inermi, deresponsabilizzati, in balia di forze occulte, oscure, indifferenti.
La ricerca si chiede, più o meno consapevolmente, come fa il sociologo Sergio Brancato in Fantasmi della modernità (2014) rendendo omaggio a Niccolò Machiavelli, se ci troviamo nel mezzo di una “variazione grande”, di un “del tutto nuovo” che dobbiamo ancora inquadrare, quindi da esplorare a fondo, magari con strumenti e con premesse nuove, o di un assestamento del regime esistente. Il senso comune sembra invece immergersi in una sorta di “reincanto del mondo”, (Pecchinenda, 2008), fenomeno che se in origine poteva essere attribuito all’effetto fantasmagorico delle merci (Benjamin, 2014), finisce per mutare espandendosi ad altre sfere dell’agire sociale e diventare il calco di una intera visione del mondo dominata da una profonda “ansietà escatologica” (Camorrino, 2015), un senso di disorientamento e impotenza diffusi che sembra impegnare la sfera del sociale e il mondo naturale riscoprendo una sfera dell’intangibile, dell’inconoscibile che ripropone una dimensione soprannaturale, come quella che nelle società tradizionali rimandava ai regimi del sacro.
L’umano non è più il signore assoluto del mondo, quello sociale e quello naturale, perché non lo conosce più – non lo conosce perché non se ne sente più padrone, quindi capace di modificarlo. Né sa in che direzione sta andando. Come scriveva anni fa Carlo Formenti: «L’ambiente artificiale tardo-moderno, prodotto di sofisticati livelli di dominio tecnologico, mostra inopinatamente lo stesso volto orchesco di una natura arcaica e selvaggia» (Formenti, 1980). Un mondo che torna a essere sconosciuto, inquietante, misterioso.
Forse, se pensiamo a tutto ciò che ruota attorno al termine “postumano” (cfr. Fattori, 2017), potremmo ipotizzare che il nostro “re nascosto” sia il confronto con la dimensione della Morte come misura della nostra vita, come limite da superare: «La morte è una creazione culturale, non una rigida determinazione di ciò che è umanamente inevitabile». Così afferma uno dei personaggi di Zero K, l’ultimo romanzo di Don DeLillo (2016, corsivo nostro), quasi in risposta all’affermazione di un altro dei personaggi, una specie di santone: «Che senso ha vivere se alla fine non si muore?».
Per ora, al di là di tutti gli sforzi, alla fine del percorso finora tracciato l’Umano è andato a infrangersi contro l’unico avversario indomabile, irriducibile che aveva accettato di riconoscere, nel momento in cui si era liberato coraggiosamente della necessità di Dio: la Morte e la sua ineluttabilità. E oggi non è più in grado di sostenere questa verità. Insomma, per noi abitanti del nuovo millennio, se la consapevolezza della morte come limite definitivo permane salda, si è persa la coscienza della nostra responsabilità nei confronti della realtà – sociale e naturale – sostituita da un senso di disorientamento e impotenza. Il Bruto di William Shakespeare, emblema dell’etica assoluta si è perso. Trionfa un altro idealtipo del Bardo: Amleto, simbolo dell’incertezza e dell’introspezione (Carroll, 2009). Desiderio individuale e paure collettive si fondono, circoscrivendo una situazione insostenibile. Forse è questa la radice profonda di quella che per il sociologo francese Alain Ehrenberg (1999) è la malattia mentale più diffusa della seconda metà del Novecento: la depressione – la reazione alla percezione di lottare per ottenere l’impossibile. Questo impossibile, secondo lo studioso, ha due volti: la “realizzazione di sé” (Ehrenberg, 2010), e la sconfitta della morte.
Riepiloghiamo. La percezione della perdita di controllo sulla propria vicenda personale, la sensazione che l’intero mondo – sociale e naturale – sia in balìa di forze inconoscibili e imprevedibili ci precipita in una situazione di profonda angoscia, che riattiva quell’ansietà escatologica tipica di formazioni sociali che hanno preceduto la nostra, e che nel nostro caso mettono sincreticamente insieme paure connesse a pericoli materiali, profani, e terrori più indefiniti e irrazionali, ma comunque – e questo è l’aspetto significativo, credo – negli stessi termini magici, soprannaturali, che ci provengono dal passato: il mondo ci appare di nuovo come dimora dell’ignoto, come un luogo impregnato di mistero. A questa situazione di fondo si aggiunge una dimensione più individuale, legata al Sé, alla self-consciousness, l’autoconsapevolezza. L’umano erede dell’Umanesimo, portando agli estremi il processo di individualizzazione ha posto sé al centro del mondo, certo, ma perdendo il senso della responsabilità nei confronti di questo stesso mondo: centrato parossisticamente su di sé, è continuamente alla ricerca della propria affermazione assoluta. Che questo fenomeno venga definito come “relativismo” dagli studiosi più vicini alla religione (Taylor, 2009; Carroll, 2009) o “pluralismo” da quelli più laici (Berger, Luckmann, 2010) la sostanza non cambia: l’individuo contemporaneo è dedito solo a se stesso: centrato su di sé, non vede più gli altri, anche se è alla continua ricerca del loro riconoscimento. È ciò che la psicologia e le discipline affini definiscono “narcisismo”. Connesso direttamente alla nascita e all’affermazione di quello che sempre Alain Ehrenberg (2010) definisce “uomo psicologico”. Un uomo, agli albori del Terzo millennio, portatore più di sofferenza e incertezza che di sicurezze ed equilibrio.
Labirinti del Sé
È l’abissale, il vuoto, l’assenza di risultato, il freddo, l’inumano.
(Benn, 1998)
«La persona depressa viveva un terribile e incessante dolore emotivo, e l’impossibilità di esternare o tradurre in parole quel dolore era già una componente del dolore e un fattore che contribuiva al suo orrore di fondo» (Foster Wallace, 2000). Così comincia uno dei racconti più feroci e lucidi di David Foster Wallace, uno dei maggiori scrittori della fine del Novecento, erede di Thomas Pynchon e araldo del postmodernismo in letteratura. Immerso nella depressione sin da giovane (Max, 2013), Foster Wallace mette in scena un mondo di individui incerti, contorti, introspettivi, completamente centrati su se stessi e le proprie sofferenze interiori. Così la protagonista di La persona depressa si contorce in una situazione esistenziale senza scampo: avvolta in un dolore senza tregua, soffre anche della sofferenza che deriva dalla difficoltà di perseguire le strategie che dietro consiglio della sua terapeuta mette in atto per alleviarla, del senso di colpa che queste le provocano, della vergogna e umiliazione che prova incessantemente per il peso che sa di rappresentare per coloro cui si rivolge per narrare la sua condizione: la “persona depressa” è infatti in contatto dietro consiglio della propria terapeuta, come parte integrante del suo “percorso”, con un “gruppo di sostegno” composto di vecchie amiche, scelte e coinvolte unilateralmente da lei, cui telefona a tutte le ore del giorno e della notte per riversare su di loro le sue elucubrazioni, consapevole del fastidio e del disagio che crea (ulteriore causa del suo senso di inadeguatezza), ma incapace di evitarlo.
Nella sua immaginazione, tutte costoro hanno una vita «piena e vibrante», un «rapporto di coppia vibrante, sano, intimo, coinvolgente», fino all’amica più cara di tutte che, come viene spiegato in nota al lettore, è «… una divorziata madre di due figli […] che da poco aveva cominciato a sottoporsi a un secondo ciclo di chemioterapia per un neuroblastoma virulento, che aveva enormemente ridotto il numero di responsabilità e attività nella sua vita adulta piena, funzionale, vivacemente rivolta agli altri, e che perciò ora non solo era quasi sempre a casa, ma godeva anche di una disponibilità e di un tempo liberi da conflitti e pressoché illimitati per condividere al telefono…», amica cui la “persona depressa” si rivolge per essere aiutata a elaborare il lutto – comunque conflittuale – per la morte della propria terapeuta… (Foster Wallace, 2000). All’esterno delle relazioni che la persona depressa intrattiene con la propria terapeuta e il piccolo gruppo di amici/amiche, nella sua percezione insiste un mondo crudele e feroce, popolato di mostri, indifferente alle vicende di costei.
Il racconto – impietosamente autobiografico e necessariamente estremo – è perfetto per illustrare la condizione di disagio esistenziale vissuto nella nostra epoca dai suoi abitanti, anche se, naturalmente, non necessariamente in termini così radicali, e permette di riflettere su alcuni aspetti dell’emergere nella realtà sociale contemporanea dell’individuo definibile, appunto, come “uomo psicologico”. Il primo tratto che balza agli occhi è la legittimazione da parte delle psicoterapie dell’idea di un Io profondamente autoreferenziale, concentrato solo su se stesso, che porta al limite estremo, spogliandolo del tutto del senso della sua responsabilità verso gli altri, la dimensione del soggetto moderno come centro della realtà, come sovrano della stessa, la cui importanza è tale, ai suoi propri occhi, da sottomettere alle sue le esigenze di chiunque; ancora, l’idea fantastica di un mondo in cui tutti gli altri siano più fortunati e realizzati, protagonisti di vite “piene”, soddisfacenti, “vibranti” di vita, “realizzate”, mentre il soggetto è solo in un mondo che lo ignora e lo trascura; quindi, l’illusione che esista, imprigionato al proprio interno, un “vero sé” da liberare – idea profondamente “essenzialista”, metafisica, magica; infine, l’idea di fondo di avere il diritto a “essere se stessi” – e contemporaneamente di subire il dovere di esserlo. Un universo avvolto su se stesso, del tutto centripeto e chiuso.
E così la psicoterapia articola una narrazione mitologica incentrata ad esempio sul “Bambino che c’è in te”, attraverso le opportune pratiche, come dei periodici “Weekend di Ritiro per una Terapia Esperienziale” centrata proprio su questo “Bambino”, “ferito” durante l’infanzia, o l’uso del “Diario delle Sensazioni”, o ancora il “Momento di Tranquillità quotidiano”, oltre naturalmente alle periodiche sedute di psicoterapia. La cifra magica di questa retorica appare evidente. Un universo creato dall’unione di malattia e cura, di diffusione del disagio e di egemonia delle psicoterapie come retoriche dell’umano e del sociale. Come scrive Alain Ehrenberg in La società del disagio, il prosieguo della ricerca iniziata con La fatica di essere se stessi, la psicoterapia, almeno negli Stati Uniti, è diventata una vera e propria “concezione del mondo”, a conferma della penetrazione delle discipline psicologiche e dei loro cascami nell’immaginario collettivo e nella vita quotidiana – e della endemicità dei disturbi della personalità e dell’insoddisfazione identitaria, laddove «la self-consciousness non è solamente un affinamento della coscienza di sé, è anche un disagio rispetto a se stessi» (Ehrenberg, 2010).
Lo scenario attuale, disegnato da Ehrenberg in termini storici e da Foster Wallace in termini narrativi, non è però che l’ultima fase di un processo che ha percorso tutto il Novecento, e ha interessato l’intera società e cultura occidentale. E, anche se ha avuto come luogo di nascita l’Europa, ha poi trovato il suo sviluppo più diffuso e articolato in America, per poi espandersi anche, di nuovo, nel Vecchio continente. Se alla base della affermazione della psicologia “dinamica” (Ellenberger, 1976) c’è infatti la figura di Sigmund Freud, la sua prima significativa diffusione in campo sociale è tutta americana, e partire dall’applicazione in fabbrica dei principi della psicologia con le storiche ricerche e applicazioni di Elton Mayo e del suo staff. Dopo la Seconda guerra mondiale dalle catene di montaggio la psicologia sbarca negli uffici per investire manager e capi del personale, all’esercito, che ancora negli anni Ottanta finanzia il 90% delle ricerche universitarie in psicologia (SE, Scienza/Esperienza, 1987), mentre si espande sempre di più all’intero corpo sociale. Diventa, insomma, anche nelle sue forme più volgarizzate e triviali, un dispositivo per spiegare le vicende individuali e collettive, prendere decisioni, “fare scelte”. È in questo che si pone in pieno come “concezione del mondo”: quella che Eva Illouz definisce “narrazione psicologica” (Illouz, 2007). Diventa il calco per un’intera, ampia regione dell’immaginario collettivo che descrive, decifra e prescrive il farsi delle relazioni umane come l’amicizia, l’amore, il conflitto.
In fondo la storia della commedia sentimentale e sofisticata nel cinema americano, da quello classico ad oggi, potrebbe essere vista anche come la storia dell’evoluzione della figura dell’uomo psicologico di cui scrive Ehrenberg. Perché la penetrazione della psicologia nella vita quotidiana americana, quella privata come quella pubblica, è solo un polo del fenomeno: l’altro, strettamente intrecciato col primo, e co-producentesi con esso, riguarda direttamente il singolo individuo cui la “narrazione psicologica” si rivolge: l’uomo psicologico, colui che ha subito in pieno e incarna gli effetti dell’individualizzazione portata alle sue estreme conseguenze. Come esito di un percorso specifico, storicamente e geograficamente determinato.
American Homunculus
In termini diversi, esisterebbe all’interno di ogni uomo un homunculus, ovvero una sorta di essere in miniatura che compie, in scala ridotta e non immediatamente manifesta, ciò che noi esteriorizziamo con i nostri comportamenti.
(Pecchinenda, 2008)
Ma se sono stati gli Stati Uniti a essere la prima area geografico culturale in cui la psicologia con le sue varie derivazioni ha conquistato spazi sempre più ampi, c’è da chiedersi se è possibile ipotizzarne i motivi, visto che peraltro la culla della nascita e dell’affermazione di una dimensione scientifica della disciplina è stata l’Europa, prima in Francia, poi nei paesi di lingua tedesca con Sigmund Freud – invitato negli Stati Uniti nel 1909 a tenere un ciclo di cinque conferenze alla Clark University in Massachussets, dopo il passaggio di Pierre Janet nel 1904. Con Eva Illouz possiamo considerare quello l’anno «della grande metamorfosi della cultura emotiva americana» (Illouz, 2007), dove per “cultura emotiva” la sociologa intende il modo in cui una specifica formazione sociale definisce e tratta la sfera delle emozioni. Come Ehrenberg, anche Illouz e il critico letterario Harold Bloom (1992) adoperano il termine “personalità americana” dando per acquisita la tipicità di una certa configurazione di tratti significativi. Il più esplicito è forse il francese, che, sempre in La società del disagio, la definisce come una combinazione di eterodirezione e ricerca di autonomia, laddove quest’ultima è fatta di spinta alla cooperazione, alla competizione e all’indipendenza. È grazie alla dialettica che si crea fra eterodirezione e autonomia, fra forze centripete e centrifughe, che si definisce la ricerca continua da parte dell’individuo della propria autorealizzazione.
Questa dimensione, che deriva direttamente dalla tradizione puritana, è stata alla base della definizione del carattere americano, fino a tutto l’Ottocento. Carattere che, a differenza della personalità, è fatto della capacità di adeguare – meglio di identificare le proprie istanze con quelle definite e legittimate socialmente. Il carattere è fatto prima di tutto di una dimensione morale. Nel Novecento le cose cambiano, il procedere dell’individualizzazione – e della società di massa e dei consumi – produce dimensioni nuove, che portano in superficie bisogni, pulsioni, istanze sempre più individualizzate, che entrano in conflitto con i vincoli connessi ai compiti che la società del XX secolo impone ai singoli, prima nella vita pubblica, poi, per alcuni versi, anche in quella privata. E mentre rivendica una maggiore libertà, l’individuo si sente inadeguato nei confronti delle sfide cui è continuamente esposto: impegno verso la cooperazione, spinta alla competizione e bisogno di indipendenza entrano in contrasto. Il disagio interiore aumenta. L’identità diventa sempre più introspettiva, e cerca dentro di sé le cause del suo malessere. Perché, banalmente – ma altrettanto metafisicamente – se si soffre di un disagio interiore, vuol dire che il proprio Sé è malato, è stato ferito in passato. Non è il proprio “vero” sé.
Non sono quindi le condizioni sociali e culturali in cui ci si trova, e le sfide che la società impone a determinare il grado di integrazione della propria identità, ma un qualche trauma antico, sepolto, che continua a operare, e che deve essere indentificato, attraverso un percorso – sicuramente doloroso e faticoso – che porterà la persona a ritrovare il suo “vero sé” e a poter finalmente “essere se stessa”. Questo almeno il discorso di fondo delle psicoterapie, quelle che si sono diffuse a partire dagli anni Cinquanta in poi, e che sincreticamente fondono concetti e principi della psicologia dinamica con dimensioni più astratte e indefinite, che sfociano spesso nella metafisica, e che rispondono a una necessità primaria: quella di districarsi fra il diritto (sfera privata) e il dovere (sfera pubblica) di essere se stessi.
C’è in tutto ciò – oltre le strizzate d’occhio di certe psicoterapie alla narrazione New Age, alle discipline orientali, alle terapie basate su erbe, danze, pietre – una sostanziale premessa metafisica, magica: l’idea che dentro di noi vi sia un’essenza – un Homunculus – che incarna il nostro vero Io, l’essenza della nostra identità. Una idea del Sé non necessariamente vicina a quella dell’anima cristiana, ma sicuramente metafisica, trascendente, religiosa. Che – credo – abbia una sua parentela con un qualche tratto della cultura americana precedente alla esplosione della narrazione psicologica.
Lo studioso americano Harold Bloom, autore fra l’altro nel 1994 de Il canone occidentale (2016), nel 1992 pubblica un saggio eccentrico rispetto ai suoi interessi principali, La religione americana (1994) in cui si prefigge di analizzare la fede – le religioni – in America usando gli strumenti e l’approccio della critica letteraria, quelli che conosce meglio. Bloom parte da due premesse: la prima, che ogni religione nasce dalla paura della morte; la seconda, che nonostante il proliferare di chiese, sette e interpretazioni – passando dai Mormoni agli Avventisti del settimo giorno, dai Metodisti ai Battisti del sud nelle loro fazioni, fino a quella «spremuta d’arancia» che è la New Age – ci siano due tratti che definiscono specificamente il modo americano di essere religiosi: l’allontanamento dal Puritanesimo (e in fondo dal Cristianesimo), e la convinzione profonda (con alcune variazioni) dei credenti di avere ognuno di loro un rapporto diretto, personale con la divinità, Dio o Cristo, a seconda dei casi. Fino all’estremismo gnostico di alcuni di loro, secondo cui il divino è dentro di noi, un “piccolo uomo” con cui siamo in continuo dialogo. E alle propaggini orfiche della New Age.
E con un’incursione interessante nella sfera della psicanalisi. Bloom cita Ralph Waldo Emerson (e di sfuggita William James) e le sue critiche al fondamentalismo: «Quel che fa del passo di Emerson un modello insuperabile per la critica americana della religione è condensato nella frase chiave: “Gli stereotipi del suo linguaggio e le figure della sua retorica hanno usurpato il posto della verità, e le chiese non sono costruite sui suoi principi, ma sui suoi tropi”» (Bloom, 1994), per suggerire che c’è un altro ambito in cui la modalità religiosa si è affermata: «Sostituite Freud a Gesù come soggetto al quale è riferito il «suo» nella frase, e otterrete una visione illuminante di quella visione minore, ma non meno gravida di conseguenze, della Religione Americana che sono gli Istituti di psicoanalisi tristemente disseminati nelle nostre città. I fondamentalisti freudiani […] sono appiattiti su di una interpretazione letterale non meno dei battisti del sud, altrettanto fondamentalisti, ed entrambi i gruppi credono che i loro testi sacri […] in qualche modo li rappresentino e siano infallibili» (ibid.).
Se per Bloom la psicoanalisi americana ha questa cifra di religiosità che deriva dalla aderenza letterale ai suoi “libri sacri”, possiamo immaginare che questa riverberi all’esterno, e che si sia – a maggior ragione – estesa anche alle psicoterapie, ricche come sono di immagini e metafore relative alla ricerca del “vero sé”, alla pratica di “percorsi” che dovrebbero assicurare, attraverso la “ricerca di se stessi”, la “realizzazione personale”. Insomma, muovendosi in senso inverso a Ehrenberg e a Illouz, dalla religione alla psicologia, Bloom coglie lo stesso elemento: il rapporto fra religione e psicologia, e quello fra credente americano e “uomo psicologico”.
Continuando, e citando un brano di una conferenza di William James, Bloom scrive: «Le parole che James evidenzia […] ci portano a più diretto contatto con i fattori cruciali che contraddistinguono la differenza americana: la solitudine, l’individualità e il pragmatismo di sentimenti, azioni ed esperienze anziché pensieri, desideri e ricordi. Il «personale» condiziona le «esperienze» e prepara il terreno al Cristo americano del XX secolo, il quale diviene per il cristiano americano un’esperienza personale […] il Cristo americano è un americano, prima ancora di essere il Cristo» (ibid., corsivo nel testo). Altrove Bloom precisa ancor meglio: «Il sapere [della Religione Americana, n.d.a.] è un sapere di cui è allo stesso tempo soggetto e oggetto un sé non creato, ovvero un sé-interno-al-sé, che porta a una libertà pericolosa e incline al catastrofismo – libertà dalla natura, dal tempo, dalla storia, dalla collettività, dagli altri sé (ibid., corsivo nostro).
Ricapitoliamo: la “personalità americana” è individualista e solitaria e i credenti americani sentono di dialogare direttamente con Dio (Bloom); gli Stati Uniti sono il luogo dove è nato e si è diffuso – per poi tornare alla vecchia Europa – l’«uomo psicologico», laddove in America psicologia e psicoterapie acquistano il carattere di una vera e propria “concezione del mondo”, un modello di spiegazione dell’agire individuale e sociale (Ehrenberg): la “narrazione psicologica”, che di fatto si sostituisce, dopo il loro declino, alle “grandi narrazioni” della Modernità e colonizza l’intero Occidente (Illouz). Narrazione che sposta l’accento dal collettivo all’individuale, e che ha più di un carattere in comune con le retoriche della religione, nella misura in cui promette la salute mentale a chi ne accetterà le prescrizioni, quelle connesse alla conquista dell’autonomia personale. E chi si ritrova, in preda a un disagio personale severo, ad affrontare il “percorso” terapeutico senza riuscire a trarne giovamento – come nel racconto di David Foster Wallace – finisce in un universo oscuro e doloroso, in un inferno personale da cui, per forza di cose, non si può evadere.
Ora, se allarghiamo lo zoom di David Foster Wallace sulla condizione individuale al grandangolo di quella collettiva, possiamo ben inferire che le condizioni del disagio contemporaneo sono di interesse sociologico, non solo psicologico. L’inferno del singolo è analogo a tanti altri inferni individuali, con come unica scelta il girone in cui ci si vuole collocare. Un luogo di incertezza, paura, insicurezza, in cui ci aggiriamo inermi, in attesa che il rischio immanente si concretizzi in un qualche disastro. È il territorio di una “natura arcaica e selvaggia”, come quelle delle formazioni sociali arcaiche dominata dal soprannaturale, dal sacro nelle sue vesti più imperscrutabili e aliene. Che si riverbera nell’immaginario collettivo, nella produzione di fiction.
Metamorfosi del perturbante
Era il mistero l’ingrediente magico: avrebbe fatto vivere Twin Peaks molto più a lungo.
(Lynch, 2016)
Insomma, antiche paure, in nuove forme, assediano l’umano. La realtà che ci circonda ci sembra sempre più “oscura e inquietante” (Lynch, 2016). Inconoscibile, e indifferente ai destini umani. Ritornano alla mente le parole con cui Howard Phillips Lovecraft, uno dei maestri indiscussi della narrativa del perturbante[1] narrativo, apriva il suo saggio L’orrore soprannaturale nella letteratura, composto a cavallo fra gli anni Venti e i Trenta del XX secolo: «Il più antico e intenso sentimento umano è la paura, e il genere di paura più antico e potente è il terrore dell’ignoto» (Lovecraft, 2011). Una delle tracce di questa condizione forse è proprio nel ritorno dell’interesse per il fantastico, il gotico, l’horror. Lo verifichiamo nel successo di pubblico di serie tv, pellicole, romanzi, e nel nuovo interesse sul tema delle accademie e della ricerca.
Sul fenomeno fa il punto, ad esempio, The Age of Lovecraft (Sederholm, Weinstock, 2016), un’antologia di saggi sullo scrittore di Providence. Partendo dalla constatazione che Lovecraft, sempre a partire dagli Stati Uniti, sta conoscendo un rinnovato interesse di pubblico e di critica – di cui lo stesso volume peraltro è una prova – curatori e ospiti ne ricercano i possibili motivi, ragionando attorno al diffondersi della consapevolezza che l’umano non è affatto il centro dell’universo, che non c’è nessun senso nel mondo e nessun destino privilegiato per gli umani. L’universo è molto più alieno di quanto abbiamo potuto mai pensare, ed è del tutto indifferente alle nostre vicende. Gli eventi in cui siamo coinvolti sono incomprensibili e ingovernabili, e i danni che subiamo sono solo effetti collaterali di eventi inconoscibili. I mondi e gli esseri immaginati da Lovecraft (un incrollabile materialista), a cui il nostro universo sarebbe del tutto permeabile, diventano perciò nel nostro immaginario la raffigurazione narrativa delle forze nascoste e ignote che ci determinano.
Il nostro mondo torna a essere immerso nel caos (o almeno di quello che per noi è un caos), del tutto poroso a forze ultradimensionali, come era poroso alle azioni del sacro il Sé degli uomini delle società premoderne (Taylor, 2009) – e fra l’altro nutre quell’ansietà escatologica che torna a popolare le nostre visioni. Ciò induce i partecipanti al volume ad altre riflessioni: la sensibilità connessa alla percezione della perdita della centralità dell’umano conduce al postumano, dove, portando il ragionamento al limite, questo verrebbe definito dal riconoscimento di una parità sostanziale dell’umano con tutto ciò che esiste, non solo il “vivente”, ma anche l’amorfo, il minerale, verso la definizione di una ontologia flat, “piatta” che si applicherebbe all’intera realtà: «Substituted for a rationalist conception of the world is an animistic one governed by a kind of ‘flat ontology’ in which all objects – including people – have the same ontological status» (ibid.).
Ancora più forte ed esplicita è la messa in scena della casualità dell’esistenza umana e della porosità del nostro universo ad altri nei racconti di Thomas Ligotti (2015), il più accreditato erede di Lovecraft: nelle sue parabole, gli umani appaiono nel migliore dei casi come marionette mosse da fili invisibili, in un mondo declinante, polveroso, scaleno, popolato di ombre che provengono e conducono a universi alieni (Fattori, 2015). Una narrativa che rimanda al profondo nichilismo dell’autore, dispiegato nel saggio La cospirazione contro la razza umana (2016), in cui, citando una affermazione di un oscuro filosofo tedesco della metà dell’Ottocento, Julius Bahnsen, «L’uomo è un’autocosciente nullità», elabora una lunga discussione sulla profonda presunzione di noi umani, che «ci sentiamo imbrogliati (se scopriamo) che per noi non c’è altro che sopravvivere, riprodursi e morire» (Ligotti, 2016). È una parafrasi della perdita del senso del senso di cui scrive Charles Taylor ragionando sui rischi che corre la disincantata condizione umana attuale, che potremmo ricondurre a quelle «crisi di senso soggettive e intersoggettive» che caratterizzano certe fasi storiche di cui scrivono Peter Berger e Thomas Luckmann (2010) ragionando sul presente delle società occidentali. Vale la pena di ricordare come la conoscenza dei lavori di Ligotti sia stata accelerata dal riferimento alla stessa frase di Bahnsen citata dallo scrittore in un episodio della prima stagione della serie tv True Detective (Pizzolatto, 2014), un gioiello post-seriale di nichilismo e straniamento che vive di un’atmosfera inquietante e allucinata, mescolando crime story classica e allusioni horror (Ribaldo, 2015), e citando en passant uno dei classici della narrativa fantastica, Il Re Giallo dell’americano Robert W. Chambers (2014), in cui si fa riferimento a un libro immaginario, che porterebbe alla pazzia coloro che lo leggono.
Ancora, annunciata con notevole anticipo, arriva sugli schermi tv dopo un’assenza di un quarto di secolo la terza stagione di Twin Peaks (2017), il capolavoro di David Lynch e Mike Frost, la produzione che di fatto fonda quella che in seguito avremmo definito “post-serialità”, una dimensione della narrazione televisiva che rompe con tutte le logiche precedenti e fa entrare di forza la visionarietà del cinema in televisione (Fattori, 2014). Se l’idea di cinema che Lynch pratica è già dirompente, ancor di più è la cifra di fondo della serie, che ha alla base «quest’idea. Il progetto che avevamo proposto era la storia di un omicidio misterioso, ma alla fine quest’ultimo avrebbe dovuto essere relegato nello sfondo […] Quanto all’omicidio, volevamo lasciarlo a lungo in sospeso […] era il mistero l’ingrediente magico: avrebbe fatto vivere Twin Peaks molto più a lungo» (Lynch, 2016, corsivo nostro).
La durata, potenzialmente infinita. Così, un tratto tipico della soap opera (che pure vive, nella serie) viene applicato a un formato del tutto tangenziale rispetto alla serialità tradizionale, indicando un nuovo orizzonte. Ma è il mistero il tratto veramente importante. Lynch e Frost colgono in anticipo una tendenza, quella del ritorno del soprannaturale narrativo. Motivo su cui Lynch e Frost tornano, in termini ancor più radicali, in questa terza stagione: la narrazione si fa ancor più spezzettata e criptica, il mondo pare moltiplicarsi in tante realtà frammentarie e disconnesse fra loro, gli eventi si fanno imperscrutabili, il tutto incorniciato in un delirio visionario e fantasmagorico in cui David Lynch mette in scena in pieno la sua idea di cinema – e il suo punto di vista sugli ultimi decenni di narrazione attraverso gli audiovisivi: durante lo scorrere delle puntate appaiono citazioni più o meno occulte dal cinema, dalla letteratura, dalla serialità precedenti, che costruiscono un’idea di realtà frantumata e imprevedibile, avvolta in uno spesso alone di sacro – quello più arcaico, oscuro, selvaggio, che rimedia (Bolter, Grusin, 2002) le inquietudini e le paure contemporanee.
Con la “scoperta” di un universo – un “multiverso”, per rubare un termine alla science fiction ma anche ad alcune riflessioni sviluppate dalla comunità scientifica (Paura, 2017) – del tutto indifferente all’umano, si sancisce la fine dell’umano stesso e il riconoscimento dell’esistenza di una condizione postumana che, estremizzando, si espande a tutto l’esistente. Con una precisazione che ritengo necessaria: in questo caso non è in gioco soltanto l’idea laica di umanità come centro delle cose come definita dall’Umanesimo – sul cui declino concordano studiosi di varia estrazione, da Charles Taylor (2009) a John Carroll (2009) a Alberto Abruzzese (2011) – ma anche il suo contraltare sacro, l’idea dello stato di privilegio degli esseri umani comune a tutte le religioni di origine giudaico cristiana, da quelle tradizionali fino alle varie declinazioni che se ne sono sviluppate negli Stati Uniti a partire dal primo Ottocento, quelle che costituiscono, come ho cercato di ricordare più sopra, seguendo Harold Bloom, la “Religione Americana”.
Un Sé blindato – un futuro misterioso
Sento solo quello che è me. Sono fatta di parole.
(DeLillo, 2016)
Anche se queste considerazioni hanno riguardato gli Stati Uniti e le trasformazioni avvenute lì nell’ultimo secolo, credo valgano per tutto l’Occidente: la condizione di insicurezza ontologica e di ansietà escatologica riguarda l’intera società occidentale, come il successo e la presa della “narrazione psicologica”, e la nuova fortuna dell’irrazionale narrativo. Il processo di individualizzazione, che alle sue origini favorì il passaggio da un sé “poroso” al cosmo a un sé “schermato”, autoriflessivo, spinto all’estremo ha prodotto un sé “blindato” (Fattori, 2013), autoreferenziale, introspettivo, chiuso all’esterno. In contemporanea, il mutamento sociale ha prodotto una condizione – quella descritta ad esempio da Beck, Giddens, Camorrino – in cui ci si sente incerti e inermi nei confronti di una situazione sociale e naturale che ci appare fuori controllo, che interpretiamo e a cui reagiamo con modalità assimilabili a quelle delle società arcaiche, che si percepivano immerse in un soprannaturale incontrollabile ed alieno. Da qui, ad esempio, il calco “sacro” del rapporto che abbiamo con le psicoterapie – e la ripresa dell’interesse verso il senso del perturbante, il soprannaturale narrativo.
Forse, e di questo dovremmo discutere, il senso più stretto del transito verso il postumano potrebbe essere questo: il viaggio verso un individuo chiuso in se stesso, monadico, ma nello stesso tempo sofferente. La logica evoluzione dell’umano dell’Umanesimo – un mistero per se stesso e per gli altri, intento a contemplare il mistero del mondo, della vita, della morte, senza strumenti, inerme, in balìa di forze che non può controllare. Un individuo che scrutando l’orizzonte alla ricerca di un’immortalità irraggiungibile, vede balenare l’annichilazione.
Così il “re nascosto” della nostra epoca, destinato a accompagnarci anche in futuro, più che una eventuale condizione postumana in sé, o un possibile confronto con la morte, da questo punto di vista sarebbe il senso del mistero, quello che David Lynch ha posto come cifra profonda della sua opera, da Eraserhead a Twin Peaks, lo stesso mistero che avvolge il nostro senso del futuro, laddove la “realtà” e i “valori” di cui scrive Georg Simmel si sbriciolano definitivamente.
Bibliografia
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[1] Uso il termine “perturbante” perché è sufficientemente generico da permettermi di indicare tutte le narrative che hanno a che fare col soprannaturale e col mistero, dal gotico (termine, insieme ad “uncanny” preferito nella letteratura anglosassone sull’argomento) all’horror, al fantastico.