Non tanto curiosamente, perché, come scriveva James G. Ballard in una nota al suo La mostra delle atrocità (2014) «Le coincidenze non esistono», il tema dell’utopia – e della distopia, naturalmente – ha visto addensarsi negli ultimi anni un gran numero di interventi. Ai romanzi, ai film, alle serie tv che lo evocano, nella maggior parte dei casi sotto traccia, fa da contrappunto il libro di Ágnes Heller e Riccardo Mazzeo, Il vento e il vortice (2016), che ha come argomento proprio le utopie, le distopie e il loro scambio di testimone che sarebbe avvenuto qualche decennio fa. Dove per “utopie” si intendono qui architetture sociali immaginarie che dovrebbero assicurare (ancor più di libertà, uguaglianza e fraternità) ordine, prosperità e serenità a tutti, e per “distopie” invece visioni del futuro cupe, angoscianti, soffocanti.
Pensando a Ballard, mi viene in mente un altro scrittore, William Burroughs, che da qualche parte scrisse che «la fantascienza ha la cattiva abitudine di avverarsi». Perché, se nel caso dei racconti utopici riconosciuti unanimemente come tali, in genere si fa riferimento al passato, all’Età antica o a quella classica, da Platone a Thomas More, il caso delle distopie è leggermente diverso. Qui si tratta di narrazioni moderne, in cui si pensa esplicitamente al futuro, e finisce per fare capolino anche la narrativa di fantascienza, che ha, come mission, esplicitamente il racconto dei futuri possibili, o di qualche loro “provincia” in particolare.
La lettura del libro di Heller e Mazzeo mi ha messo una pulce nell’orecchio. Qualcosa non quadra… Mi sono venuti dei dubbi su categorie letterarie – e sociologiche – che non avevo messo mai in discussione, cui non mi ero mai dedicato in modo particolare… Tutto questo lavorìo alla fine ha suscitato in me una domanda: Ma c’è davvero una differenza sostanziale fra “utopie” e “distopie”? Subito, dopo questa, me ne è sorta un’altra: Ma davvero ha ancora senso distinguere fra fantascienza e letteratura generale? Almeno se pensiamo al presente – e al futuro?
Perché, a pensarci bene, se prescindiamo dal percorso della storia – se non facciamo caso alla dimensione diacronica del succedersi delle varie forme della narrazione, visto che possiamo considerare racconti anche le utopie di Platone, di More, di Tommaso Campanella – allora quelle che siamo abituati a considerare “utopie” sono altrettanto da incubo delle società immaginate come “distopie”…
L’utopia, se ci si pensa, implica la fine della Storia, la stasi, il termine della spinta al mutamento, perché una volta che si costruisse un sistema perfetto, il processo reale si fermerebbe. E d’altra parte, società come quelle antiche come la Grecia di Platone, erano appunto fondate sulla stasi, su uno sguardo rivolto al passato, a una qualche mitica “Età dell’oro”, alla tradizione. Si obbietterà che il discorso non vale per Thomas More o per Tommaso Campanella, vissuti in pieno sviluppo della Modernità, fra il XVI e il XVII secolo. Tempi, però, di contrasti e scontri fra il moderno e l’antico, che culmineranno nella Guerra dei trent’anni, la prima, non a caso, grande mattanza a livello continentale, occasione di invenzione e sperimentazione di tecniche del massacro nuove ed efficienti, in cui forse il procedere del mutamento storico-sociale creava più paure che speranze…
Scrive bene la filosofa ungherese Ágnes Heller, in Il vento e il vortice, che l’utopia – come la distopia – è un fatto di immaginazione (Heller, Mazzeo, 2016), che è il prodotto di desideri, pulsioni, emozioni. È un oggetto che soddisfa bisogni “radicali” (come la stessa Heller sosterrebbe: cfr. Heller 1980), anche se solo nella fantasia. Ma nella fantasia di chi? Solo del componente dell’élite che la progetta. Perché, a ben vedere, quelle che per alcuni sono magnifiche utopie, cioè architetture sociali immaginarie che ambiscono alla perfezione, alla completa soddisfazione dei bisogni di chi le popola, per altri sono grigie distopie, universi concentrazionari da cui si vorrebbe ma non si riesce a sfuggire… Non c’è dubbio, ad esempio, che per gli Eloi della Macchina del tempo di Herbert George Wells il posto in cui vivono è una vera utopia. Ma per i Morlocks che vivono nello stesso mondo? Anzi, sotto quel mondo? E non sembri irriverente o pretestuosa la chiamata in causa del grande visionario inglese: a rigore, l’unica vera forma narrativa classica di descrizione di società immaginarie è l’utopia. Distopie e/o antiutopie sono forme residuali, che si definsicono in negativo, per opposizione. E appartengono, quando si dichiarano tali, ai nostri tempi. Al Novecento – e, per inciso, all’emergere della cultura e delle forme narrative seriali come la science fiction – epoca in cui la Modernità è trionfata, e, insieme alle sue luci, fa intravvedere le sue oscurità, i riflessi opachi della secolarizzazione.
D’altra parte, il percorso delle utopie parte da Platone (428/27 a.c.-348/47 a.c.), “progettista” di una società alla fin fine rigida e autoritaria, per transitare per Thomas More (1478-1535), e concludersi in senso proprio con Tommaso Campanella (1568-1639). Escludendo il primo dei tre, le utopie vere e proprie circoscrivono un periodo che è quello che definisce la nascita della Modernità, fra l’apparire dell’Umanesimo (XV secolo), la Guerra civile inglese (1642-1660) e la Guerra dei trent’anni (1618-1648)… Il conflitto epocale fra società tradizionale e moderna innescato dall’emergere del capitalismo si combatte in questo periodo, quello in cui si afferma fra l’altro lo stato moderno, anche se ancora in forma assolutista (si pensi a Luigi XIV [1642-1715], e al suo L’état, c’est moi!). Le élite cominciano a pensare in termini di “biopolitica”, di organizzazione burocratica della vita civile, fino all’estrema conseguenza: il Panopticon di Geremy Bentham, immaginato non come forma carceraria assoluta, ma come struttura umanitaria, vocata a materializzare le esigenze di controllo ma anche di assistenza ai poveri e ai derelitti, in applicazione della spinta a costruire una società più umana… Progetto utopico, o precocemente distopico? Oggi, non avremmo dubbi, ma allora?
Insomma, come giustamente afferma la Heller, in gioco sono le intenzioni, i desideri, le paure, anche, e quindi l’immaginazione dei futuri possibili, un terreno instabile, fluido, ingannevole. E i conflitti prodotti dai grandi mutamenti storico-sociali, che cominciano in sordina, lentamente (Camorrino, 2014, 2015), ma poi a volte esplodono in maniera dirompente, come nell’affermazione della modernizzazione.
Ecco, direi che l’utopia, come forma di immaginazione del futuro, appartiene alla pre-modernità. Poi si esaurisce, perché non può rispecchiare l’immaginazione della società rispetto al futuro. Emergono altre utopie, non più in forma di narrativa esplicita, ma nella forma delle cosiddette “grandi narrazioni” (Lyotard, 1981), e qualche volta si realizzano pure, come per la Francia uscita dalla Rivoluzione del 1789, quella di liberté, egalité, fraternité, o la Rivoluzione russa del 1917, e del “potere ai soviet degli operai dei contadini e dei soldati”. Come minimo, bagni di sangue, al di là del rapporto fra intenzioni e risultati. Perché alla fin fine, l’unica “utopia” che ha tenuto nel tempo, strisciante e immanente, onnipervasiva e attuale, è quella promessa e praticata dal liberalismo, la “grande narrazione” del capitalismo, l’immensa forza “creatrice e distruttrice” della Modernità (Harvey, 2002). L’unica che per sua natura poteva stimolare la costruzione di distopie e antiutopie, perché, alfiere del “disincantamento del mondo” (Weber, 2005) e del pensiero prospettico (Carroll, 2009), non fa più riferimento a verità rivelate, a etiche assolute, e stimola il dubbio nei suoi “abitanti”, che possono osservarne le contraddizioni – e immaginarne le conseguenze. E scatena, a partire dal periodo a cavallo fra XIX e XX secolo, quel processo di serializzazione che, applicato prima alla produzione di merci hard, colonizza la produzione di immaginario, fonda e nutre la cultura di massa (di cui per inciso Wells è uno dei padri), produce la science fiction, e un’intera teoria di distopie e antiutopie, le ultime delle quali Riccardo Mazzeo, nel volume scritto con Ágnes Heller, propone e discute.
L’intellettuale trentino prende in esame tre romanzi, pubblicati tutti nell’ultimo decennio: La possibilità di un’isola del francese Michel Houellebecq (2005), Il cerchio dello statunitense Dave Eggers (2013), 2084 dell’algerino Boulaem Sansal (2015). Se Houellebecq mette in scena una società futura in cui gli umani sono stati sostituiti dai loro cloni, gli altri due autori allestiscono dei mondi sociali costruiti sull’irrazionalismo più radicale e fondamentalista: religioso Sansal, ispirato alla New Age Eggers. In tutti e tre, assistiamo alla scomparsa dell’Umano, quello responsabile, riflessivo, motore del mutamento nato con l’Umanesimo.
Derive tutte e tre di un possibile postumanesimo che auspicano la fine dell’umano come lo conosciamo. E forse, fra tutte, quella più integralista è quella ispirata alla New Age, che nelle sue frange più estreme – quelle di un certo ambientalismo (Camorrino, 2015) – promuove la distopia più radicale di tutte: la definitiva sparizione dell’umano, inteso come il peggiore virus che infetta il pianeta, dal mondo.
Bibliografia
- Ballard J. G., La mostra delle atrocità, Feltrinelli, Milano, 2014.
- Camorrino A., Dal cosmo al caos, Ipermedium, S. Maria C. Vetere, 2014.
- Camorrino A., La natura è inattuale, Ipermedium, S. Maria C. Vetere, 2015.
- Carroll J., Il crollo della cultura occidentale, Fazi, Roma, 2009.
- Eggers D., Il cerchio, Mondadori, Milano, 2014.
- Harvey D., La crisi della modernità, il Saggiatore, Milano, 2002.
- Heller Á., La teoria dei bisogni in Marx, Feltrinelli, Milano, 1980.
- Heller Á., Mazzeo R., Il vento e il vortice, Erickson, Trento, 2016.
- Houellebecq M., La possibilità di un’isola, Bompiani, Milano, 2005.
- Lyotard J.-F., La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1981.
- Sansal B., 2084, Neri Pozza, Vicenza, 2016.
- Weber M., Economia e società, Comunità, Milano, 2005.
- Wells H. G., La macchina del tempo, Mursia, Milano, 2007.